Il pippone del venerdì/10.
Roma, la città che non c’è più
La montagna di immondizia che sommerge Roma e i romani per me è una sorta di metafora di una città che non c’è più. Mi piace dirla così, secca, senza eufemismi. Ora, sia chiaro, non è colpa della Raggi, lei è soltanto l’ultimo anello della decadenza di una classe politica che non ha gli “skill”, come dicono quelli bravi, per governare una città. A maggior ragione una città complessa, con strumenti amministrativi non adatti. Non c’è la competenza, non c’è l’esperienza politica, non c’è quella capacità di entrare in sintonia con la città e le sue necessità che hanno avuto i grandi sindaci di Roma. Solo per rimanere all’epoca recente Petroselli, Rutelli e Veltroni. Gente che questa città la sapeva leggere, la sapeva coccolare e amare. Non si governa questa città se non la si ama, diceva Petroselli. E aveva ragione.
Già, dicono, però la Raggi è onesta, mica come quei delinquenti che l’hanno preceduta. Ora – premesso che ha alcuni procedimenti giudiziari avviati e, quanto meno, il giudizio andrebbe sospeso – dico una cosa forte: meglio ladri, ma bravi. Perché se sei un ladro, ma bravo, ruberai anche, ma qualcosina per la città resta. Se sei onesto – pare – ma del tutto incapace, alla città non resta nulla. E il danno è peggiore del furto. Ovviamente è un’iperbole. Per me l’onestà, dirò di più una certa intransigenza morale, resta condizione necessaria per qualsiasi incarico pubblico. Condizione necessaria, ma, appunto, del tutto non sufficiente.
Il degrado di una città, dicevamo, non avviene in un giorno. E’ un processo lento. Che è iniziato quando abbiamo perso l’ambizione di pensare un futuro importante per questa città. Roma si amministra con grandi progetti e una cura maniacale per la minuta amministrazione. Si deve guardare al mondo e al marciapiede sotto casa insieme. Le grandi stagioni della sinistra, l’ho scritto tante volte, sono state caratterizzate da un grande progetto complessivo: era la ricucitura fra centro e periferia con Petroselli, era la vocazione di grande Capitale mondiale con Rutelli e ancora più con Veltroni. Poi il nulla.
In passato, era il tempo della campagna elettorale di Marino, ho anche provato a cimentarmi, nel mio piccolo, su questi argomenti, indicando un’altra idea forte: quella della costruzione di una “città per vivere”. Deve essere sembrata poca cosa, perché non ho mai trovato una sede politica dove poterne ragionare. Eppure resta una prospettiva, nella sua semplicità, rivoluzionaria: orientare tutta l’amministrazione su queste coordinate vuol dire rigenerazione urbana, trasporti pensati per gli utenti, valorizzare le risorse turistiche. Vuol dire un modello di città, dalle applicazioni “smart” che oggi vanno tanto di moda, a una nuova cultura civica che metta in rete le tante esperienze di volontariato e ne moltiplichi le potenzialità. Insomma, significa dare un orientamento all’azione di governo. Non il giorno per giorno, ma un vero e proprio progetto complessivo per la città. Provai anche a buttare giù qualche idea, dalla “circle line” per i trasporti, all’archeotreno (già c’è, basterebbe una stazione) per collegare il centro con la grande bellezza del parco dell’Appia Antica e i suoi acquedotti. Ma la sinistra preferì mascherare le sue debolezze dietro Marino. Poi arrivò la bolla mediatica di Mafia capitale, utilizzata nel Pd per spazzare via quel che restava dei circoli, l’amministrazione fece finta di interessarsi e nulla più. Andammo, io e gli altri sostenitori di questi progetti, a qualche dibattito, in qualche radio. Ricevemmo tanti applausi da Soprintendenze a dirigenti dei parchi. Pacche sulle spalle.
Perché riporto questa esperienza, se volete marginale? Non per dire quanto sono bravo, questo lo so (se non me lo dico io). Ma per raccontare come questa città, nel suo complesso, abbia rinunciato a essere comunità che discute, si appassiona. Non è che non ci sono le intelligenze, Roma resta una grande capitale della cultura. Ha tre università, grandi istituzioni di ricerca. Non ci sono i luoghi dove mettere in rete le competenze.
Vedete il tema non è che un sindaco, o un ministro, debba essere per forza laureato o esperto di tutte. Il politico può anche venire dai campi di pomodori del sud. Deve avere un’altra capacità però: quella di ascoltare le persone competenti nella materia di cui si occupa. E questo è essenziale per un amministratore. Non deve dare lui le soluzioni, deve indicare la strada da seguire. Faccio un esempio pratico: come politico penso che debba essere privilegiato il trasporto pubblico. Bene, devo trovare le persone capaci di progettarmi un sistema efficace. Non posso mettermi io a dire quale tracciato debba avere una linea. Devo indicare la strada, che poi deve essere seguita da chi ha le competenze tecniche.
Insomma, la classe dirigente di una grande metropoli non si improvvisa. E questo è successo a Roma per troppi anni. A partire, secondo me, dal secondo mandato di Veltroni. Quando l’evidente interesse del sindaco per un suo impegno politico a livello nazionale ha creato le condizioni per una frattura fra l’amministrazione e la città. Il livello è crollato con Alemanno, ma qui io credo che la sinistra abbia perso un’occasione storica per rifondare se stessa. Serviva un grande movimento di idee, bisognava chiamare tutta la città a raccolta per prepararsi alla rivincita. Si è fatta, grazie a un gruppo dirigente “da battaglia” nella federazione romana del Pd, un’opposizione senza sconti, dopo qualche tentennamento da parte del gruppo consiliare, che all’inizio dimostrò un forte rischio di deriva consociativa. E’ mancata la fase due, quella del progetto. Si è preferito affidarsi alle logiche delle correnti, quel gruppo dirigente si è immerso nella battaglia elettorale, in tanti si sono candidati, dalla Regione, al Parlamento, al Comune. E si è mascherata la propria povertà dietro un sindaco che ha fatto una bandiera della sua estraneità a Roma.
Marino non era “il marziano” perché pulito e differente rispetto alla bassa politichetta romana. Era marziano rispetto a una città che lo ha amato ma che lui non ha mai capito. Da qui le difficoltà dei suoi anni in Campidoglio. Con una squadra di governo improvvisata, dove anche quelli bravi furono messi a recitare un ruolo non loro. Eppure, malgrado tutto, qualche cosa si muoveva. Poi, lo ripeto, arrivò la bolla mediatica di Mafia Capitale. Non che non fosse grave, per carità, anzi: io sono convinto che sia venuta fuori un percentuale minima della verità. Parlo di bolla mediatica perché il Pd ne approfittò per uccidere se stesso. Non rifaccio la storia, non parlo dei silenzi dei tanti che non si opposero. I risultati li conosciamo: invece di mettere in campo le risorse migliori che il partito aveva e affiancare un sindaco in difficoltà, ha preferito affossarlo.
Non contenti, perché le cose non vanno fatte a metà, candidano un impresentabile in tanti sensi: vecchia volte della politica romana, famoso per i suoi digiuni e per gli insulti quotidiani alla sinistra del suo stesso partito. Giachetti. Te lo buttano in campo e poi quando gli dici ”io non lo voto” diventi pure un traditore. E vince, tanto a poco, questa Raggi. Oggetto misterioso all’inizio, molto condizionata da vecchi ambienti della destra, attorniata da inquietanti dirigenti comunali e da una sorta di corte dei miracoli che raccoglie spazzatura varia. Con qualche eccezione, come Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica, un tecnico conosciuto per le sue posizioni radicali. Lo fanno fuori con il solito fuorionda malandrino che spunta quando serve, nel bel mezzo della trattativa sullo stadio della Roma, guarda tu le coincidenze.
Morale della favola: Roma non ha grandi progetti in cantiere, la manutenzione urbana non esiste, è diventata una città caratterizzata dai cumuli di rifiuti sparsi ovunque. Una città dove, lo dico sempre, ormai la natura ha vinto sull’uomo. L’antropizzazione del territorio, in mezza città, è ormai a rischio. Sempre che sia un male. Non ci sono più le erbacce, in mezzo alle nostre strade crescono gli alberi. Per non parlare delle reti arancioni che ci invadono: vera e propria coscienza sporca della città. Non riesco a riparare neanche un buca, ma mi salvo l’anima con questi inguardabili cerotti.
E poi, ancora peggio, c’è il degrado morale di questa città. Che non è più la Capitale bonacciona, accogliente e tollerante. E’ una città cattiva. Dove si muore bruciati vivi in un camper. E non mi importa se sia stato razzismo o faida fra clan. Il tema è che in un tredici in un camper non ci dovresti proprio vivere. Petroselli prese tutte le case popolari e le riempì con gli abitanti dei cosiddetti borghetti, i ghetti di baracche di lamiere e pochi mattoni che costellavano la città. Portò le fogne e la luce in quelle borgate talmente abusive che le strade girano intorno alle case e non il contrario. Una grande operazione di recupero della città. Con tanti limiti, dovuti all’emergenza. Primo fra tutti quello di aver creato dei quartieri ghetto, penso a Laurentino 38. Le emarginazioni furono trasferite dalle baracche alle case. Che non è poco, ma non basta. E le amministrazioni che sono arrivate dopo non hanno saputo proseguire quel lavoro di integrazione che sarebbe stato necessario.
Ma, comunque sia, Petroselli cambiò per sempre il volto di questa città. E poi, perché il progetto era quello di ricucire il centro con le borgate, lanciò quell’estate romana che fu, credo, la più grande campagna culturale che questa città ricordi. C’è adesso una classe dirigente che sia capace anche solo di dire con coraggio che non vogliamo più campi ghetto per i nomadi? Che vanno chiusi? Che servono solo piccoli campi sosta per chi davvero è nomade e che agli altri va data una casa e un lavoro?
No, ci si cosparge il capo di cenere, si lancia l’allarme quando c’è una protesta in qualche sperduta periferia che nessuno conosceva fino a un minuto prima. La stessa cosa che succede per i barconi in mare. Quando di inquadrano i cadaveri dei bambini tutti contriti. Ma quando qualche “pazzo” dice: apriamo i corridoi umanitari per i profughi, portiamoli noi via da lì, ecco che il dolore finisce e torniamo serenamente ai nostri razzismi.
Un “pippone” pessimista? Forse sì, diciamo malinconico, ma quando vedi una discarica davanti al Parco dell’Appia Antica, a un patrimonio vero dell’umanità, ti viene lo sconforto. Quando di tre sorelle rimane solo una macchia scura sull’asfalto, ti viene da dire che questa città non c’è più. Non è più “comunità”, non è più quella Roma sorniona ma ribelle del secolo scorso. Si piega, si fa irretire da chi strilla più forte, ma non si rivolta, non alza la voce. Se il principale partito di opposizione è convinto di farsi sentire ramazzando per una domenica la città – telecamere al seguito – come non farsi prendere dallo sconforto? Io credo, al contrario, che si debba per prima cosa ascoltare Roma, per davvero, non per far finta di avviare un processo partecipativo. Perché Roma sono anche le centinaia di associazioni di volontario, le esperienze culturali di autogestione di spazi, i cittadini che si organizzano e lavorano contro il degrado non per una domenica, ma giorno per giorno. Senza telecamere. Ecco: facciamole spengere le telecamere sui vip in maglietta gialla, il tema non è come apparire o quanto strillare, il tema è ricominciamo a fare rete, a costruire spazi di discussione, di confronto, di iniziativa concreta. Torniamo a essere punto di riferimento per quel pezzo di città che non si è arreso. Accendiamole dopo le telecamere, per raccontare quale grande progetto di rinascita vogliamo mettere in campo. Roma non c’è più, insomma. Ma la storia non è finita.
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Fare un’ operazione di risveglio culturale delle periferie è molto più difficile oggi…la berlusconizzazione delle coscienze operata negli ultimi 30 anni..non è stata ben analizzata.Ma non se ne esce solo con le analisi.Negli anni ‘ 70 si facevano i doposcuola gratuiti per i bambini di strada…si aprivano le biblioteche si lottava x la casa …oggi è tutto frantumato..siamo disarmati dai mass- media .Ci vorrebbe un uso rivoluzionario di Internet che superasse le barriere..ma ne siamo capaci?Spero che art 1 si ponga all’ altezza della sfida..io ho aderito..ma in Umbria stanno tutti ad aspettare con tutta la furbizia contadina che conosco.Che tristezza..aspettano
Ԍrаzіe per l’articolo