Ripartire davvero: lo Stato torni a fare lo Stato.
Il pippone del venerdì/144
L’Italia in questi giorni è in piena fibrillazione per la fine dell’epidemia. Siccome siamo un popolo a memoria ultracorta, i dati relativamente confortanti degli ultimi tempi hanno fatto in modo che la stragrande maggioranza degli italiani consideri il coronavirus come un fatto del passato. Non per fare l’uccello del malagurio, ma temo che avremo nei prossimi mesi amari risvegli. Di sicuro ci sono alcuni fatti incontestabili: intanto, il lungo periodo passato in clausura ha diminuito la circolazione del virus, poi, un po’ a macchia di leopardo, abbiamo imparato ad affrontarlo meglio. Si fanno tamponi più rapidamente, si tracciano e si individuano i casi sospetti. E trovare i contagiati subito provoca in automatico meno affollamento negli ospedali. Infine, anche in assenza di una cura specifica, i medici hanno acquisito maggiori conoscenza sulla malattia e sul come affrontarla.
Poi, ma questo è un altro capitolo, c’è anche chi dice che lo stesso virus si sia un po’ rincoglionito e contagi di meno. Un fatto del quale manca la pur minima evidenza scientifica, ma al quale credono ciecamente milioni di italiani. Il ragionamento è sempre lo stesso: la natura umana ci porta a credere con più facilità alle tesi che si allineano alle nostre speranze. In pratica: dopo la paura abbiamo tutti bisogno di un’iniezione di fiducia e basta il primo medico di provincia per farci esultare.
Facciamo finta che sia così, anche se resto convinto che serva mantenere alta la guardia per fare in modo che i nuovi, inevitabili, piccoli focolai non diventino per la seconda volt focolai di massa. Certo, per stare un po’ più tranquilli, bisognerebbe anche interdire il presidente della Lombardia, ma questa è un’altra storia.
Facciamo finta che l’epidemia sia davvero alle spalle, dicevo, e proviamo a buttare giù due o tre ragionamenti sulla fase che ci troviamo ad affrontare. Partendo da una domanda, essenziale: è possibile considerare la fase di grande difficoltà del sistema economico come una enorme opportunità per il nostro Paese e non necessariamente come la fine del mondo? Siccome a me questo sistema turbocapitalistico non è mai piaciuto, sarei propenso a sostenere la prima tesi.
Una prima considerazione: saremo anche in una fase di grande crisi, ma avremo, speriamo presto, anche una notevole quantità di risorse a disposizione: fra i vari fondi che l’Unione europea ha messo in campo o si appresta a varare, nei prossimi mesi il Governo si troverà fra le mani una cifra superiore ai 200 miliardi di euro. Se consideriamo che le ultime manovre finanziarie raramente hanno superato i 30, si può capire la portata della sfida che abbiamo di fronte.
La dico brutalmente: abbiamo la concreta possibilità di cambiare tutto. La debolezza del sistema economico fa sì che torni a essere importante la capacità della politica di modellarlo secondo quello che conviene al Paese e non agli imprenditori. Non sono mai stato un sostenitore della tesi di Agnelli che sosteneva un po’ sfacciatamente “ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia”. Direi semmai il contrario: un Paese che funziona, che si rinnova, che punta alla sostenibilità, che ha infrastrutture competitive, va bene anche agli imprenditori.
E allora la prima condizione per ripartire davvero è che lo Stato torni a fare il suo mestiere, ovvero dettare le linee dello sviluppo che ritiene utile ai cittadini. Altro che mani libere per l’economia. Il liberismo sfrenato degli ultimi anni ci porta, in ultima analisi, dritti dritti alle pandemie. Detto questo, il problema è avere un’idea di quello che si vuol fare. Vedremo se nelle prossime settimane, questa eterogenea maggioranza riuscirà a dare un indirizzo preciso alla sua azione. L’idea di Conte di coinvolgere tutti gli attori del sistema politico, economico e sociale per una sorta di stati generali funziona se ci si presenta già con linee di fondo ben delineate, altrimenti diventerà il classico assolto alla diligenza con tanto di distribuzione a pioggia, dove i privilegiati sono sempre quelli in grado di fare la voce più grossa.
Io darei priorità alla cosiddetta rivoluzione green, che deve essere il filo che unisce tutti gli interventi: una sorta di cartina di tornasole, un investimento si fa soltanto se ci porta a fare passi in avanti sulla strada della sostenibilità. Porto come esempio virtuoso proprio uno degli ultimi interventi decisi, il superbonus sulle ristrutturazioni delle abitazioni. Bisognerà aspettare i decreti applicativi (a proposito, quello di scrivere norme chiare e applicabili da subito deve essere uno degli obiettivi principali), ma sembra chiaro che verranno premiati non tanto gli interventi ad alta efficienza energetica, ma quelli che permettono un aumento dell’efficienza energetica: la dico semplice, se hai una casa in classe A++ anche se prendi l’ultimo modello di caldaia perché è più fico, non ti do una lira, se hai una casa in casse G e l’intervento proposto di permette di arrivare alla A, allora sì, ti finanzio.
Non voglio dilungarmi troppo, anche perché qualche cosa sui temi da affrontare (riforme istituzionali e semplificazione) ho già accennato nelle scorse settimane. Credo che però la vera partita sia su chi tiene in mano il pallino. Se questo torna in mano allo Stato che non solo programma lo sviluppo, ma mette mano direttamente nei settori che ritiene strategici, abbiamo davvero la possibilità di avere non soltanto un cambiamento, ma un cambiamento positivo. Se, al contrario, prevarrà la linea di Confidustria (che ha scelto per l’occasione di farsi rappresentare dalla sua parte più conservatrice) per la quale è bene che lo Stato lasci fare l’imprenditore a chi sa farlo, allora resteremo nella situazione melmosa in cui ci troviamo. Anche perché, da noi, tutti questi capitani d’industria coraggiosi e innovativi non ci sono mai stati. Si contano sulla punta delle dita. Il nostro capitalismo è sempre stato coraggioso con i soldi nostri. E di questi soldi ha restituito ben poco. E poi perché la logica non può essere quella del massimo profitto in breve tempo. Perché con questa logica ci siamo ridotti a dover persino elemosinare le mascherine in mezzo mondo. Non conveniva produrle in Italia, dicevano. E, invece, conveniva eccome.
Il mondo che viene è peggio di quello che è stato.
Il pippone del venerdì/135
Appunti sparsi in queste settimane di quarantena. Sensazioni e esperienze che si intrecciano nel cervello, il risultato è che uso che questo appuntamento con il pippone per provare a metterci un po’ di ordine.
Intanto, cosa è cambiato davvero nella nostra vita in modalità “chiusi in casa”. Io non credo che sia tanto la mancanza di relazioni sociali, perché già prima, in una città come Roma erano ridotte al minimo. Per uno un po’ sociopatico come me, del resto, questa è decisamente una buona notizia. La scomparsa di alcune convenzioni sociali non può che farmi piacere. Non si stringe più la mano a persone a cui vorresti, invece, dare uno schiaffo, tanto per dirne una. Insomma, abbiamo eliminato dalla nostra vita un po’ della falsità quotidiana a cui eravamo costretti.
No, secondo me, la prima cosa che è cambiata, quella che in realtà tanto ci dà fastidio, è la mancanza di velocità. Eravamo abituati a vivere in un mondo in cui con un click avevi tutto, al massimo aspettavi un giorno per avere la consegna di oggetti di cui non avevamo nessuna urgenza. E anche in questo caso avevamo bisogno di essere rassicurati dal controllo dello stato dell’ordine: è partito, sta arrivando, sta sotto casa, è stato consegnato, fammi sapere se ti è piaciuto. Un ritmo incessante e cadenzato. Adesso al massimo spostiamo i mobili dentro casa.
Ecco, quest’ansia di velocità oggi ci manca. Sopravvive soltanto in chi sta al volante di una smart che si crede ancora di dover per forza stracciare ogni record di velocità, con la sua ridicola scatola di plastica e metallo. Ma quello è un caso clinico a parte. Ora dobbiamo aspettare per fare tutto. Per entrare al supermercato, per comprare qualsiasi oggetto. Dobbiamo aspettare per vedere un parente che si trova a cinquecento metri di distanza, ma fa parte di un’altra cella di reclusione.
Questo è il primo dato: imparare che esiste un tempo dell’attesa e che questo tempo, per di più, non ha una data certa di fine.
La seconda condizione che ci ha imposto il coronavirus è quella dell’incertezza. Gli odiatori di professione stentano perfino a identificare i nuovi obiettivi da colpire. Prima era facile, c’erano gli immigrati, quelli che andavano rispediti a casa loro perché da noi non c’era posto per loro. Adesso che è tutto il mondo a essere isolato, adesso che anche noi abbiamo perso la libertà di circolare senza alcun controllo, forse potremmo imparare a essere meno cattivi.
Invece no. Sarò anche pessimista, ma credo che il mondo che ne uscirà sarà peggiore di quello che abbiamo lasciato. Intanto perché, deve essere chiaro a tutti, non ci sarà un “dopo” immediato, ma ci sarà un tempo indefinito in cui dovremo imparare a convivere con il virus in agguato. La distanza sociale sarà la regola. Per molto tempo ancora. E questo ci imporrà di cambiare radicalmente la nostra stessa organizzazione. Basta pensare alla scuola. Come si fa a stare in una classe distanziati di almeno un metro? Il lavoro non potrà tornare quello di prima, abbiamo scoperto che tutta una serie di attività si possono fare senza spostamenti inutili e senza il bisogno della nostra presenza fisica. Saremo costretti, volenti o nolenti, a continuare a farlo.
Sarà un mondo peggiore, perché ci saranno meno soldi in giro. E perché la concorrenza fra aziende sarà ancora più serrata di quanto accadeva prima. I sognatori positivi credono che si tornerà parzialmente indietro rispetto alla globalizzazione pressoché totale a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Che le aziende dovranno necessariamente tornare a pensare più in chiave locale, che torneranno in Italia produzioni a cui avevamo dovuto rinunciare. Secondo me, il mercato lasciato da solo non porterà a questo risultato. Anzi, chi era debole dal punto di vista della concorrenza internazionale lo sarà ancora di più, perché la chiusura forzata di questo periodo lo porterà a perdere quote di mercato che difficilmente recupererà. E saranno tante le attività che se prima riuscivano ancora a garantire qualche stentato profitto, adesso non riapriranno proprio. Cominciamo appena a capire che l’idea di un reddito di cittadinanza non era tanto peregrina.
Sarà un mondo peggiore, perché in queste settimane abbiamo preso coscienza di quanto la stessa presenza umana su questo pianeta sia effimera. Basta ritrarsi un po’ per vedere la natura che si riprende i suoi spazi con una velocità che non potevamo immaginare. Siamo i dominatori della Terra, ma la Terra si è anche un po’ stufata di noi. E quando partiremo alla riconquista saremo ancora più cattivi, più aggressivi. Perché quando invece della pagnotta ti restano le briciole, la lotta per conquistarle diventa crudele. Ce ne fregheremo ancora di più dell’inquinamento, del riscaldamento globale, proprio perché avremo preso coscienza del fatto che potremmo sparire da un momento all’altro. Messi in crisi da una cosa che manco si vede.
Sarà un mondo peggiore perché non riusciamo a capire che la radice di tutti i nostri problemi non è il virus, ma è un sistema di produzione che non funziona, che è inefficiente nel distribuire risorse limitate ed è un pericolo in sé non per i più deboli come abbiamo sempre pensato, ma per la stessa razza umana. Abbiamo preso per matti quelli che ce lo hanno gridato in questi anni, adesso sappiamo che avevano ragione, ma continueremo a fregarcene, nell’illusione che l’uomo debba essere necessariamente lupo.
Ecco, andrebbe ripensato tutto, basta guardare le immagini dei senza tetto che nella opulenta California vengono rinchiusi in un parcheggio. Andrebbe ripensato il ruolo dello Stato, il primato della politica sull’economia, l’organizzazione del sistema sanitario, i rapporti tra nazioni. Invece no, saremo tutti più soli, non perché non ci potremo stringere la mano, ma perché i nuovi nemici da odiare saremo tutti noi.
Concludo con una nota lieta: ho finalmente stabilito il tempo giusto di cottura dei cornetti surgelati: 23 minuti a 180 gradi, forno ventilato, ben caldo. Mai al microonde. Sarà poco, ma ti fa cominciare meglio giornate tutte uguali.
La sinistra c’è. Ora facciamo la sinistra.
Il pippone del venerdì/32
Diciamolo chiaramente: quando, era il 7 novembre, a raffica, sono apparsi il documento unitario per la lista di sinistra, le date delle assemblee delle forze politiche che hanno elaborato la bozza che andrà discussa e approvata, fino al nome (importante) di quello che potrebbe essere il futuro “presidente” di questa aggregazione, diciamolo chiaramente, molti di noi hanno aperto la bottiglia buona. Quella che tieni da parte per le grandi occasioni. Senza neanche leggere le dieci scarne paginette prodotte dal comitato dei “saggi”. E anche questa “laconicità” è una positiva novità.
Non saranno i 140 caratteri che vanno di moda oggi, ma rispetto ai programmi dell’Ulivo è una rivoluzione. Abbiamo brindato senza neanche leggere, dicevo, perché dopo mesi e mesi di messaggini criptici, di mezzi passi in avanti seguiti da ampie retromarce, di silenzi imbarazzanti sui temi fondamentali dell’agenda politica, siamo stremati. Siamo come quei naufraghi che dopo mesi di navigazione senza meta vedono uno sperduto isolotto in mezzo al mare, con un’unica palma, e gli sembra il paradiso. Poi, magari, bisognerà anche ragionare su questi mesi che ci separano dalle elezioni e soprattutto su quello che dovrà succedere dopo. Datemi tempo che ci arrivo. Ma, intanto, per una volta non facciamo i rompiscatole e prendiamoci cinque minuti di gioia pura.
Sì, gioia pura. La sinistra manca in Italia da anni. Questo lo hanno capito anche le pietre ormai. Ma oggi siamo di fronte al fatto nuovo della possibile scomparsa di qualsiasi tipo di rappresentanza degli ultimi. Non solo in parlamento, ma anche nella società. Questo è il rischio che abbiamo di fronte. Perché la prossima legislatura senza una forza di sinistra in parlamento e nella società sarà quella del colpo definitivo ai sindacati, all’associazionismo, ai corpi intermedi che sono la vera garanzia per le libertà democratiche. Sarà quella in cui famoso “piano di rinascita nazionale” di Licio Gelli troverà la sua definitiva attuazione grazie all’asse Berlusconi-Renzi. Inutile che vi incazzate. Basta leggerlo e confrontarlo con le leggi approvate negli ultimi cinque anni, compresa la riforma della Costituzione. Salta agli occhi la perfetta convergenza di intenti: passare dalla democrazia avanzata descritta dai padri costituenti a una moderna forma di Stato autoritario dove gli spazi di partecipazione si esauriscono nell’acclamazione del leader.
Ecco perché abbiamo brindato. Con la bottiglia delle grandi occasioni. Non è che quel documento e quel percorso frettolosamente delineato risolvano d’incanto tutti i problemi. Ce ne accorgeremo nelle prossime settimane. I guastatori professionisti non mancano, sono già cominciati i distinguo, le accuse di verticismo e via dicendo. Sono gli stessi che denunciavano la mancanza di iniziativa politica di questi mesi. Non ce ne curiamo troppo. Come non ci curiamo troppo dei mal di pancia di Pisapia e soci. Che restano ancora sospesi tra un’alleanza con il Pd e una convergenza nella lista di sinistra. Decideranno. Siamo gente paziente. Ci piace, però, la determinazione e la nettezza delle posizioni e delle dichiarazioni dei dirigenti delle varie formazioni politiche di queste ore. Si respingono le tardive sirene che arrivano, più per strategia della disperazione che per convinzione politica, dal Pd. Compresi gli accordi tecnici lanciati da quel Parisi che tanti danni ha prodotti negli anni passati. Si affermano con ritrovata convinzione i valori della sinistra. Scopriamo la forza e la determinazione di Pietro Grasso, sempre meno presidente del Senato e sempre più in campo con noi. La sua spigolosità, le sassate che lancia, i suoi toni sempre decisi. Niente più timidi pigolii.
Insieme, questa volta si può dire davvero. Attendiamo con ansia non tanto le assemblee del fine settimana 18-19 novembre, quando arriverà il via libera al documento dai “costituenti”, quanto l’assemblea del 2 dicembre. Perché ci siamo stancati di riunirci divisi, ognuno nella sua casetta. E poco importa se qualche maître à penser della borghesia cosiddetta illuminata parla di ritorno ai riti burocratici dei vecchi comunisti. Congressi locali, regionali, nazionali, comitati centrali, commissioni, discussioni infinite. Poco importa perché, gli editorialisti pensosi non lo sanno, quei riti sono il sale della democrazia. La partecipazione è questo: non pagare due euro e imbucare il nome di un leader scelto da altri. Democrazia è discutere faticosamente per ore in sale sempre fredde e troppo piccole. Trovare una sintesi, legittimare dal basso una linea politica e in base a quella indicare una classe dirigente. Magari fosse.
E proprio questo, esauriti i brindisi voglio provare a dire. I passi fatti in queste settimane sono soltanto l’inizio della soluzione del problema. La condizione necessaria, come dicono quelli bravi. Ora bisogna non solo arrivare alla condizione sufficiente, ma anche andare oltre la sufficienza. La dico chiara: in questo periodo ho avuto modo di contattare tanti compagni, molti dei quali tornano ad affacciarsi dopo anni di disimpegno. Il messaggio è chiaro: siccome ci siamo stancati di votare il meno peggio come ci succede da tempo, diamoci da fare. Siamo anche disposti a rimboccarci le maniche in prima persona, ma sappiate che se il risultato è il meno peggio, ce ne restiamo a casa. E allora, secondo me, abbiamo poco tempo per fare due cose.
La prima, essenziale: avviare un vero processo dal basso. Non bastano le assemblee provinciali di Mdp, di Sinistra italiana, dei “civici” del Brancaccio. Non bastano perché siamo sempre gli stessi. E non siamo sufficienti. Bisogna lanciare appuntamenti unitari in tutte le città, in tutti i quartieri. Tornare nei luoghi del conflitto, dall’Ilva occupata a Ostia Nuova regno dei clan mafiosi e della destra fascista. Tornare per restarci. Aprire sedi, luoghi di confronto, luoghi utili anche a “mettere insieme il pranzo con la cena”, come si dice a Roma. Troviamo le forme moderne delle pratiche antiche della mutua assistenza. Sporchiamoci le mani senza paura. I comitati per la sinistra unita (il primo nome che mi viene in mente) devono piantare bandierine ovunque.
La seconda: scriviamolo chiaramente, non si torna più indietro nelle nostre casette. Del resto, lo abbiamo visto, se ci si arma di buona volontà, ci si siede a un tavolo, si discute e si arriva a una posizione comune. La voglia di unità, il bisogno di ritrovarsi insieme prevale sulle ragioni che ci hanno diviso negli anni. Quello della lista deve essere il punto di partenza, non di arrivo. Non illudiamoci di chissà quale risultato mirabolante. Saranno tempi grami. Riportiamo una pattuglia agguerrita della sinistra in Parlamento e nelle Regioni dove si vota. Che siano le nostre punte avanzate, non il fine della nostra iniziativa politica, ma lo strumento che ci permetta di costruire un futuro meno gramo. Queste forche caudine delle elezioni possiamo superarle con un risultato dignitoso. Date le condizioni io sarei più che contento di un 6 per cento a livello nazionale. Ma stiamo bene attenti, che se lo scopo è solo quello di garantire qualche poltrona a un pezzo di ceto politico stanco e consumato, non solo non arriveremo al 6 per cento, ma manco al 3. Per questo dico: scriviamolo subito che indietro non torneremo. Poi troveremo le forme per arrivare gradualmente a un nuovo partito. Una federazione, forme di adesione collettiva, tematiche. Inventiamo senza paura, tanto peggio di così non si può fare? Ma l’obiettivo deve essere un partito. Si, partito. Di quelli con le sezioni, i congressi, e tutto il rito della democrazia. Saremo anche noiosi. ma per tornare a incidere nella società serve una forza organizzata, di massa, in grado di contrastare il ritorno della destra. Della destra fascista, non dei moderati.
Buona sinistra, buon vento a tutti (il riferimento velistico non è casuale, diciamo).
Lo spiegone del lunedì/3
La legge elettorale in vigore: genesi e prospettive
Dopo anni di tentativi di dialogo sono arrivato alla triste conclusione che i renzini non sono umani e quindi discutere con loro è abbastanza inutile. Con gli ultras – di tutte le razze – non c’è dialogo possibile. O ci fai a botte, oppure sei d’accordo con loro. E’ pur vero che si possono avere opinioni differenti, ma a raccontare bugie si finisce dritti dritti all’inferno. Siccome, però, siamo buoni e alle loro anime ci teniamo, proviamo a ricapitolare.
Cosa dicono i nostri eroi? E’ presto detto: per loro il no al referendum ha provocato il ritorno al proporzionale e dunque il proliferare di partiti che ci porterà all’ingovernabilità. Aggiungono indomiti: dove sono finite le riforme che D’Alema aveva annunciato? Non aveva detto che le faceva in sei mesi?
Andiamo con ordine. Cosa si è votato il 4 dicembre, con il referendum? Si è votata la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi e approvata a colpi di canguro dalle camere. Cosa prevedeva? Molte cose. In sintesi: trasformazione del senato in organo nominato dai consigli regionali, con meno poteri (non era più, fra l’altro titolare della fiducia al governo), ridisegnava i poteri di governo e regioni, aboliva il Cnel. Una riforma molto complessa alla quale quasi il 60 per cento degli italiani ha detto no. Cosa ha provocato questo no sul piano della legge elettorale? Assolutamente nulla, vediamo perché.
Dopo il referendum è rimasto in vigore lo stesso sistema zoppo derivante da due fatti: la bocciatura da parte della corte costituzionale del vecchio porcellum (2014) che aveva sostanzialmente consegnato al Parlamento un sistema proporzionale (con uno sbarramento molto alto al senato) e la nuova legge elettorale approvata nel 2015, il cosiddetto Italicum approvato nel maggio del 2015.
Tale situazione è cambiata in seguito alla sentenza della Corte costituzionale della fine del gennaio scorso che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’Italicum su due punti: il ballottaggio e la possibilità di chi è candidato in più collegi elettorali di scegliersi il seggio dopo le elezioni. Eliminando il ballottaggio la sentenza ha creato, di fatto, un sistema proporzionale. Resta, infatti, il premio di maggioranza (alla Camera) per la lista che supera il 40 per cento dei voti, ma in un sistema politico in cui avremo almeno 4 o cinque liste che andranno oltre il 10 per cento diventa maticamente molto complesso. Senza contare che la maggioranza sarebbe limitata a una sola Camera.
Appare evidente, dunque, e questo è un fatto, non un’opinione, che l’attuale sistema elettorale non deriva dal referendum del 4 dicembre, ma da due distinte sentenze della Corte costituzionale, che, come è ovvio, basta leggerle, con l’esito del referendum non hanno nulla a che vedere.
Punto secondo: la riforma proposte da D’Alema. Riporto i tre punti per chiarezza con le stesse parole di D’Alema: «Solo tre articoli, il primo riduce sia deputati che senatori, 400 i primi e 200 i secondi. Articolo due: fine della navetta parlamentare adottando il sistema degli Usa. Articolo tre: il rapporto di fiducia del governo è solo con la camera».
Chiaro e semplice. Si vuole fare? D’Alema non ha incarichi né di partito né tanto meno istituzionali, complicato dunque dargli la colpa di una mancata iniziativa legislativa. Che spetta, come è ovvio, a chi ha la maggioranza del Parlamento, ossia al Pd. Dunque avete i numeri sia per approvare una riforma costituzionale davvero utile che per approvare una nuova legge elettorale. Siete d’accordo con il ritorno all’Italicum? Avete la maggioranza per proporlo e approvarlo in tempi rapidi. Sicuramente è una legge che rispetta la Costituzione, sicuramente aiuta la governabilità senza comprimere troppo la maggioranza. Ma c’è davvero da parte di Renzi, che resta il padrone del Pd anche in questa fase congressuale, la volontà di dare all’Italia una legge elettorale seria e funzionale? Lo vedremo nei prossimi mesi.
Tutto questo per la precisione.
Piccoli stalinisti alla corte di Renzi
Quello che vi racconto oggi è un piccolo esempio di come si costruisce un piccolo quanto inutile falso mediatico. Siamo alla periferia di Roma, assemblea organizzata da due circoli del Pd, con un parlamentare della minoranza. Introduzione della segretaria del circolo, molto critica con il partito. Poi una cittadina, ex iscritta al Pd, interviene con molta passione. E’ una insegnante e fa un lungo discorso, vero, si sente che è lacerata da una riforma che mette in discussione la sua stessa vita. Nel corso dell’intervento a un certo punto strilla “Renzi è un fascista”, applaudita da una parte – minoritaria – della platea. In tutto una cinquantina di persone. Ci sono molti insegnanti.
E’ un piccolo circolo di periferia, un quartiere di poche migliaia di abitanti. Cinquanta persone sono una folla. Subito dopo interviene un anziano cittadino di quella zona, che sta registrando tutto sulla videocamera e dice: ma come mai non le avete detto nulla, ci sono i segretari di due circoli del Pd, difendete Renzi.
Nei successivi interventi, in realtà sono molte le persone che dicono: guarda che il tema non è questo, Renzi non è fascista. Argomentano anche. C’è chi lo definisce un principe machiavellico. C’è anche chi dice che sarebbe pure meglio, perché avresti individuato l’avversario. Chi, come il segretario del secondo circolo dice che secondo lui Renzi è il prodotto ultimo del fallimento della sinistra italiana negli ultimi venti anni Alla fine interviene il deputato presente, Stefano Fassina. Che fa un appassionato intervento, anche lui dice che è sbagliato definire Renzi fascista. E annuncia che gli spazi per fare una lotta di minoranza all’interno del Pd sono sempre più ristretti.
Succede che alla fine della manifestazione, senza dire nulla a nessuno, ma ovvviamente è nel suo diritto, l’anziano cittadino pubblica il video del suo intervento e quello di Fassina in un oscuro gruppo su facebook dove però ci sono anche degli esperti di comunicazione.
Ad esempio c’è Massimo Micucci, che conosco fin dai tempi della Point, una delle prime società dove ho lavorato. Un vecchio lupo passato per il gruppo dei D’Alema Boys a Palazzo Chigi, per le varie società di Velardi. Adesso a quanto ho capito si occupa di cinema, al Roma film festival. Insomma uno che c’ha mezzo metro di pelo sullo stomaco, uno di quelli che cadono sempre in piedi.
Insomma per farla breve, prende questo video e lo pubblica su youtube. E fin qui ancora nulla di male. Anzi il video viene ripreso dalle principali testate nazionali, ha migliaia di visualizzazioni. E tra l’altro è un video molto vero, Il vento, le bandiere al tramonto. Insomma molto fico dal punto di vista della comunicazione. Chissà se Micucci è d’accordo, lui che è uno di quelli abituati a costruire campagne finte a tavolino. Spesso sono più efficaci queste cose qui. Pochi secondi di parole chiare, senza effetti speciali.
Ma il Micucci non è neutrale e deve provare a disinformare, chissà se è solo un atavico riflesso dei tempi che furono oppure è proprio un mestiere. E allora ci mette una bella didascalia, su youtube. “Dopo che una ex iscritta ha appena detto che Renzi è fascista, senza che né Fassina né i due segretari di circolo fiatassero, Fassina annuncia che lascia il PD”.
Ovviamente, se avete avuto la pazienza di leggere quello che ho scritto, è completamente falso. E chiedo subito a Micucci di cancellare la didascalia.
Quello che segue è il dialogo con il personaggetto di cui sopra. Si commenta da solo, ma ci dà un esempio, in piccolo, di come si crea un falso.
Io: “Come ti ho scritto su youtube: Libero di pubblicare quello che vuoi, ma non di scrivere cose false. Ai sensi della legge sull’editoria ti invito a cancellare quanto prima quella frase in quanto non corrispondente al vero”.
Micucci: “Quale frase?”
Io: “Quella con cui commenti il video di fassina. è falsa. Come ho scritto ampiamente non è vero che nessuno abbia risposto alla compagna che ha dato del fascista a Renzi. Semplicemente nessuno l’ha interrottta, io sono abituato così. ma perche devi fare battaglia politica scrivendo falsità”.
Micucci: “Senti hai fatto della ironia sulla scorta a Orfini chiamandola arma di distrazione di massa, per questo ti ho rimosso dagli amici. Non meriti considerazione, ma biasimo.ti consiglio sobrietà”
Io: “Ok, vado: hai scritto una cosa falsa. dopo l’intervento di una cittadina in una piazza, non in una sede di partito, almeno altri cinque interventi hanno detto “guarda che non è vero”. Compreso il mio.
Per quanto riguarda la scorta di orfini:
1) il mio spazio su facebook è uno spazio satirico
2) rispondevo a un compagno che mi diceva: confessa che le minacce anarchiche a Orfini sei stato tu a farle
dopodiche
i metodi sono sempre gli stessi
buona giornata.
Micucci: “Scrivilo pubblicamente, ne prenderò atto con piacere, nonostante le tue ridicole minacce. Anche se confermi che non hai fiatato durante l’intervento ed un tempo non sarebbe accaduto. Confermi anche che hai ironizzato sulla scorta di Orfini. Ma che vuoi che ti dica che hai perso la testa? Mi spiace per te”.
Io: vabbeh lascia perdere fiato sprecato”.
Ovviamente è un dialogo privato, non è corretto pubblicarlo. Ma come si dice… a brigante brigante e mezzo. Quel video in poche ore ha avuto più di duemila visualizzazioni. E tutti hanno dovuto leggere come didascalia una cosa meramente falsa. Non vale la pena di querelare i due signori per diffamazione, avrei la sentenza fra qualche anno dopo aver speso un sacco di soldi. Ma di sputtanarli, nel mio piccolo, sì.
Perché io faccio il giornalista, questi personaggetti fanno solo danni al padrone di turno. Ieri D’Alema oggi Renzi.
Cerca
mese per mese
L | M | M | G | V | S | D |
---|---|---|---|---|---|---|
« Set | ||||||
1 | ||||||
2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7 | 8 |
9 | 10 | 11 | 12 | 13 | 14 | 15 |
16 | 17 | 18 | 19 | 20 | 21 | 22 |
23 | 24 | 25 | 26 | 27 | 28 | 29 |
30 | 31 |