Dopo le amministrative serve il “Pd Style”
Leggo e ascolto commenti incredibili sulle elezioni di cui si è appena svolto il secondo turno. Nella migliore delle ipotesi sono il frutto di una disinformazione e di una scarsa capacità di analisi di cui sono piene le redazioni dei giornali. Nella peggiore di una campagna di disinformazione che in questi mesi si è sviluppata con violenza e coglie oggi i primi frutti. Proviamo a valutare serenamente quanto è successo andando per punti
L’astensionismo
Ha votato circa il 51 per cento degli aventi diritto. Pochi, su questo siamo d’accordo. Vanno però valutati due elementi, secondo me non secondari. Il primo: il voto si è svolto in una settimana drammatica, caratterizza dall’oscuro attentato di Brindisi e dal terremoto al Nord. Il secondo: si tratta di un secondo turno e mediamente in Italia si vota di meno al secondo turno. Secondo me, insomma, la precentuale che deve preoccupare è quella di due settimane fa, quel 66 per cento che pur rimane molto alta rispetto ad altri paesi europei. Dopo due anni in cui è uscito fuori di tutto (dal bunga bunga a Lusi a Bossi, solo per citare i casi più eclatanti) viene da chiedersi come mai quel 66 per cento di elettori continua ad andare a votare. Teniamo però ben presente quel 34 per cento di cittadini che è rimasto a casa. Alle politiche la percentuale di partecipazione sarà più alta (per brevità non spiego perché, ma storicamente questo avviene nel nostro Paese) e quegli elettori, il loro posizionamento sarà essenziale.
I risultati
Se vogliamo essere secchi si più dire che scompare il centro destra, vince la foto di vasto. Ma essere secchi spesso non basta, perché si rischia di non capire quello che sta succedendo. I mass media nelle due settimane hanno parlato solo di Grillo, dei grillini e del presunto civismo che rappresentano. E dopo due settimane di gran cassa si sorprendono della vittoria di Pizzarotti a Parma.
C’è un vuoto lasciato aperto dal crollo simultaneo di Pdl e Lega. Questa è il dato da cui partire. E in politica il vuoto non esiste, viene riempito da un’offerta diversa, ma al tempo stesso contigua. E perché l’offerta politica di Grillo sarebbe simile? Intanto, come quella del Pdl e della Lega è molto mediatica. E, anche se i contenuti sono differenti, usa parole d’ordine molto facili, molto grezze e di immediato appeal.
L’analisi che voglio offrire è ovviamente grossolana, servirebbero pagine e pagine e menti più acute della mia, ma credo che, pur nella sua scarsa profondità funzioni. Viviamo in un paese spaventato, incerto, confuso. Un paese in cui ai due grandi partiti di massa del secolo scorso, due contenitori “rassicuranti” e omnicomprensivi, non si è sostituito di simile. Dal ‘93 a oggi gli italiani hanno colmato quel vuoto dando fiducia alla destra e alla sinistra a fasi alterne, ci sono state le valanghe leghiste, adesso emerge il movimento di Grillo. Quello che è certo che un voto tradizionalmente molto stabile (nella prima repubblica gli spostamenti dell’un per cento venivano etichettati come “avanzata travolgente” o “disfatta” a seconda del segno che precedeva la cifra) a un voto molto fluttuante, anche se, tendenzialmente, fluttuante all’interno dello stesso campo. Destra e sinistra, nel loro complesso valgono ciascuna intorno al 42, 44 cento dei voti. La novità di questo turno è il crollo contemporaneo delle due formazioni di centro destra (Pdl e Lega). L’Udc pensava di essere il recipiente in cui questi voti sarebbero andati a finire. In realtà molti sono rimasti a casa, altri hanno scelto – per le ragioni di cui sopra – Grillo. Il risultato è un capotto storico, va ribadito con forza. Da oggi il centrosinistra si trova a governare zone dove era da sempre all’opposizione. E dico il centro sinistra nel suo complesso perché – come vedremo andando a parlare del Lazio – vinciamo ovunque e vinciamo bene dove scegliamo il candidato migliore a prescindere dal partito di provenienza. Il nostro popolo è molto più unito rispetto ai vertici. Questo è vero da almeno quindici anni a questa parte, ma ancora non l’abbiamo capito. Quindi di vittoria storica si deve parlare, senza però dimenticarsi quei due aspetti di cui dicevo: l’astensionismo e l’evidente travaso di voti dalla destra a Grillo.
Il ruolo del Pd
Io credo che la nostra proposta politica sia ancora insufficiente. Bersani mi sembra come un padrone di casa con pochi soldi che invece di rifare gli impianti li rattoppa. Essendo un partito che ha ancora radici molto forti in molte zone del Paese le toppe reggono, ma sono sempre più deboli. Perché sempre più debole è la classe dirigente che mediamente esprimiamo. I danni prodotti dal correntismo esasperato e dalla assenza di un meccanismo condiviso e graduale di selezione del gruppo dirigente, faranno sentire i loro effetti ancora di più negli anni a venire.
Io credo che i punti chiave siano due: dobbiamo tornare a parlare alla “pancia” del Paese e dobbiamo tornare a essere percepiti come differenti dallo sconquasso che ci circonda.
Parlare alla pancia del Paese significa due cose allo stesso tempo: una prospettiva ideale di lunga durata, una visione alta sulla società, e al tempo stesso soluzioni concrete rispetto alla drammatica crisi non solo economica ma “di senso” che sta vivendo l’Italia. E dunque, in sintesi dobbiamo dare agli elettori “il pane e anche le rose”. Proposte chiare e nette. Non le solite cose cianfruschiate che per spiegarle servono pagine e pagine spesso incomprensibili a loro volta. E badate bene che anche il livello nazionale è del tutto insufficiente. Se una cosa la crisi economica ce la insegna è che di fronte a una finanza sempre più globale serve un’azione politica che possa confrontarsi ad armi pari. Al governo mondiale dei capitali occorre opporre non tante soluzioni nazionale, ma un nuovo internazionalismo della sinistra.
La questione della differenza è forse più semplice, ma più difficile da spiegare. Io non so se c’è ancora una “differenza” reale della sinistra rispetto al resto del panorama politico. Di certo percepisco questa differenza se penso alle tante energie che, malgrado tutto, ci troviamo di fronte nella nostra azione politica quotidiana. La differenza è evidente se pensiamo alle migliaia di volontari che ogni giorno tirano avanti la carretta. Diventa più sfumata se dalla “base” saliamo ai livelli intermedi, da quelli comunali a quelli regionali, i due punti deboli della nostra struttura perché quelli più direttamente influenzati dalla tragedia della preferenza unica. Il vero centro di potere correntizio e oligarchico sta lì.
Di certo c’è che una concreta differenza fra noi e gli altri partiti non viene percepita dagli elettori. Non siamo considerati la risposta credibile all’attuale sfascio della società italiana, non solo della politica, ma della società nel suo complesso.
La mia visuale, quella sul Lazio, è certamente limitata, non pretendo di avere verità assolute in tasca, ma è anche vero che la nostra Regione è tutt’altro che marginale nel panorama politico nazionale.
Io credo che la soluzione sia la creazione di quello che chiamo il “Pd style”. Sobrietà e rigore assoluto nei comportamenti, capacità di ascolto, concretezza e agire collettivo. Questi, secondo me, sono i cardini per recuperare credibilità e offrire dunque una sponda a tutti quegli elettori che, questa volta, hanno scelto di restare a casa.
Sobrietà non vuol dire solo il comportamento del singolo, ma aprire una battaglia, essere noi l’avanguardia, il motore, di quella riforma della politica di cui si avverte sempre più il bisogno. Il sistema istituzionale nel suo complesso non regge più in Italia. Abolire le province è un pannicello caldo – anzi è un rimedio peggiore del male – rispetto a quella vera e propria rivoluzione che serve per avere un’architettura istituzionale snella funzionale al tempo stesso. Ridurre i parlamentari, leggi chiare, certezza sui tempi della giustizia.
Rigore vuol dire che ogni comportamento meno che trasparente deve essere messo al bando nel Pd. C’è una grande maggioranza, nel nostro partito, di persone per bene, al di là delle posizioni politiche. Serve che alzino la voce cacciando chi per bene non è e anche chi usa il Pd solo come un autobus per soddisfare le proprie ambizioni personali. Ambizioni legittime, se inquadrate in un grande progetto collettivo.
Capacità di ascolto, vuol dire fare meno dichiarazioni alle agenzie e girare di più sul territorio. Abbiamo interi gruppi dirigenti divorati dall’ansia dell’apparire, il cui agire politico è scandito dalle dichiarazioni ai mass media e non da un onesto lavoro quotidiano.
Concretezza, significa avere un partito snello e funzionale, che discute e decide. Utilizzando anche gli strumenti di consultazione che ormai sono diventati patrimonio comune e che permettono di avere un quadro preciso delle opinioni in campo nel giro di poche ore.
Agire collettivo, vuole dire ridare agli organismi dirigenti quella centralità che si è persa nelle logiche di corrente. Significa ritrova il piacere del confronto. Significa ritrovare il piacere di convincere e essere convinti. Vuol dire abbattere quei muri alti e possenti che abbiamo creato in questi anni.
Il caso Lazio
Rispetto alla nostra Regione provo a fare un quadro generale: non credo al “cappotto” o alle rappresentazioni trionfalistiche che trovo oggi sui giornali. Qua Grillo ancora non attecchisce, forse perché il terreno non è stato dissodato dalle vanghe leghiste negli anni passati. Ma le piantine ci sono eccome, mascherate da una destra che, tutto sommato, riesce a sopravvivere grazie alla nostra infinita capacità di farsi del male. Nel Lazio intanto si dovrebbe distinguere fra centro sinistra e Pd. Delle vittorie che sento rivendicare oggi, almeno due e non di scarso rilievo (Cerveteri e Ceccano) non sono farina del nostro sacco, anzi si tratta di candidati che non sostenevamo al primo turno. Diciamo, per essere sintetici che il vento favorevole alla sinistra si è fermato a Roma. Ma più in generale, nella nostra Regione, abbiamo dato vita ad alleanza pasticciate e poco lineari. Guardate la differenza fra Rieti e Frosinone. Nel primo caso si fanno le primarie, il Pd si presenta con due candidati e – ovviamente – perde. Ma tutta la coalizione sostiene il candidato sindaco, un giovane di Sel, che esce nettamente in testa al primo turno e sfonda nel ballottaggio approfittando del clima generale di rompete le righe fra gli elettori della destra. A Frosinone quella capacità di costruire una coalizione credibile è mancata. Non è solo colpa del Pd, ma di tutto il gruppo dirigente del centro sinistra, ovvio. Morale della favola: si perde. Credo sia uno dei pochi Comuni, in tutta Italia, che vira a destra dopo tre consiliature a guida nostra.
Può piacere o meno, ma l’alleanza che vince in tutta Italia è fondata sulla foto di Vasto – l’espressione fa schifo, ma è ormai immediatamente comprensibile. IL che non vuol dire un’alleanza chiusa ad altri apporti. Ma vuol dire un asse fondamentale. A sud di Roma, ma anche a Cerveteri, questa alleanza esiste. Abbiamo pasticciato accordi locali con l’Udc, con Fli, senza avere una chiara linea. Tardivo l’appello al voto “contro i candidati della destra” lanciato fra i due turni elettorali dai segretari regionali del centro sinistra. Un po’ pelose le dichiarazioni di chi, come succede a Frosinone, adesso dice che bisogna avviare una riflessione profonda: e che volete riflettere? Avete smantellato il partito, lo avete ridotto a una somma di congreghe personali e adesso dite che bisogna riflettere? Bisogna voltare pagina, in maniera decisa. Bisogna tornare a fare politica, altro che storie. C’è Frosinone, c’è Minturno dove appoggiavamo un candidato dell’Udc che come secondo lavoro fa l’assessore nella giunta provinciale di centro destra. C’è Gaeta dove non si capisce bene chi appoggiavamo. Un candidato nostro, poi il sindaco uscente. Morale della favola il Pd in vaste zone della nostra Regione rappresenta a stento il 10 per cento dell’elettorato. E lo scorso anno era successo lo stesso, nelle stesse zone.
La verità è che nel Lazio serve un lavoro profondo di pulizia e ricostruzione del Pd. Gasbarra è da poco in sella, non gli si può di certo accollare questo risultato, ma prendere atto della situazione di difficoltà estrema in cui ci troviamo sarebbe già un passo in avanti. E poi fare tabula rasa dei gruppi di potere che ci hanno portato in questa situazione. Lo dico da tempo come battuta, ma forse neanche tanto. In molte aree della nostra Regione se chiudessimo i circoli per un paio di anni e presentassimo alle elezioni candidati del tutto sconosciuti, magari paracadutati direttamente da Roma, prenderemmo più voti di quante ne raccoglie una classe dirigente locale il cui livello di credibilità è sotto lo zero. Pensassero meno alle loro preferenze personali e di più a bene collettivo. Le preferenze da sole non bastano, servono i voti. Anche nel Lazio, insomma, serve il Pd Style, serve un partito diverso, con una classe dirigente diversa.
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