Non fu mafia capitale, breve cronistoria di come ti distruggo una città.
Il #pippone del venerdì/118
Magari fuori dal Raccordo anulare non desterà un grande interesse, ma credo che la notizia della settimana sia la sentenza della Cassazione sulla cosiddetta inchiesta “Mondo di mezzo”. Senza entrare nel merito della giudizio, non ne ho gli strumenti e considero sempre un errore commentare le sentenze, va rilevato che quella inchiesta provocò un terremoto istituzionale incredibile che, per la natura di Roma, non può essere circoscritto a fatto locale. E adesso non mi pare che il clamoroso capovolgimento avvenuto in Cassazione sia stato recepito per quello che davvero rappresenta.
Riassumiamo per i non romani. L’inchiesta comincia nel 2014, al Comune c’è uno strano sindaco, Ignazio Marino, scelto dal Pd per le sue caratteristiche più civiche che politiche. L’inchiesta fu un terremoto, vengono coinvolti assessori e consiglieri comunali e regionali, funzionari, dirigenti delle due amministrazioni, l’ex sindaco Gianni Alemanno. Non faccio l’elenco, sono una trentina di persone che, secondo le accuse della Procura, avrebbero costituito una vera e propria struttura di carattere mafioso per gestire, attraverso una cooperativa sociale, appalti e affari vari. Viene addirittura ventilata l’ipotesi di commissariare il Comune per mafia. Alla fine il provvedimento tocca soltanto a un Municipio, quello di Ostia, già per altro commissariato dal Sindaco. Un provvedimento contorto, insomma, una sorta di capro espiatorio per salvare Roma. L’ho detto all’epoca, attirandomi gli strali dei giustizialisti a senso unico, lo ripeto adesso.
Da quella vicenda, in breve, comincia la crisi infinita della giunta Marino. Come è finita lo sappiamo tutti. Ora, non è che Marino fosse un grande sindaco, tutt’altro, ma si meritava di concludere il suo mandato, i progetti presentati (non erano pochi) e di essere poi giudicato dagli elettori, che secondo me dovrebbero essere gli unici a poter dire la loro su chi hanno eletto. Di sicuro non il notaio da cui andarono alla chetichella i consiglieri del Pd per firmare la sfiducia al loro primo cittadino.
Anche la storia successiva la conosciamo tutti. Il Pd candida l’impresentabile Roberto Giachetti alle elezioni. Una sorta di resa annunciata ai 5 Stelle, bravissimi a cavalcare l’ondata giustizialista che in quegli anni era costantemente montata. Viene eletta a furor di popolo Virginia Raggi, una vera disgrazia ambulante.
Ora, si dice, ma la Cassazione ha confermato in sostanza l’impianto accusatorio, riconoscendo l’esistenza di corruzione e mazzette. A parte che si potrebbe discutere anche di questo, perché a mio modesto avviso rimangono lati oscuri in tutta la vicenda. Mi astengo in base al principio enunciato all’inizio di questo mio ragionamento. La cosa che dovrebbe essere, però, condivisa da tutti è che questa sentenza declassa tutta la vicenda a una questione marginale di corruzione, per giunta di modesta entità. Non che non sia grave, ma di certo non meritava mesi e mesi di paginate indignate dei principali quotidiani italiani. Secondo me, se si andasse a scandagliare un po’ in profondità il settore edilizio del Comune di Roma ci sarebbe da divertirsi di più. Lo dico così, a naso, senza avere alcuna certezza, tanto per buttare lì una provocazione. Di sicuro se il metodo di “mafia capitale” fosse applicato in tutta Italia ci troveremmo senza più un sindaco il carica.
L’accusa di mafia ha distrutto una intera classe dirigente, non solo gli indagati, che in quegli anni stava provando sul serio a cambiare la città, consegnando, di fatto, Roma all’incompetenza e al pressappochismo che oggi dilagano e hanno nella Sindaca Raggi soltanto l’esempio più eclatante. Ora quella accusa viene cancellata definitivamente.
Eppure non ho visto nessuno cospargersi il capo di cenere. Non solo per rispetto per le persone accusate, per una cooperativa storica costretta alla chiusura, per il fango buttato sull’intero movimento cooperativo. Quell’accusa fu usata per smantellare un partito, il Pd romano (con le persone per bene costrette alla fuga). Era poco renziano e questo non andava bene. Ricordo ancora chi tuonava indisturbato affermando che avrebbe fatto pulizia a tutti i costi. Ecco, la pulizia non l’ha fatta, ma ha cavalcato l’onda di mafia capitale per consolidare il proprio potere personale, calpestando persone e istituzioni.
Quell’accusa è stata il grimaldello usato per capovolgere il giudizio degli elettori e, alla fine, ha portato Roma allo stato attuale. Mi chiedo se la coscienza di questi sedicenti dirigenti, a patto che ne abbiano una, oggi non sia un po’ in subbuglio, se non pensino di ritirarsi a vita privata, se non sentano almeno il bisogno di chiedere scusa. Non tanto alle persone che hanno coinvolto e non se lo meritavano, ma a tutti i cittadini romani. Ecco, sarebbe bello che invece di arrampicarsi su specchi scivolosi, per una volta, dicessero un chiaro: “Ragazzi, ci dispiace, abbiamo fatto una cazzata”. Speranza vana, stanno ancora tutti lì, tranquilli a pontificare sui massimi sistemi, magari addirittura promossi in Parlamento.
Una manovra economica da Paese normale. Ma basta? Il #pippone del venerdì/117
Al di là dei giudizi di merito, proverò a dire due o tre cose più avanti, la cosa che più balza agli occhi è che dopo i 14 mesi siamo tornati a essere un paese normale. Al di là dei tormentoni giornalistici sui vertici notturni, su presunte liti furibonde e valanghe di emendamenti in arrivo, la manovra economica questo dice. C’è una coalizione fra forze politiche che fino a pochi mesi fa stanziavano stabilmente su sponde opposte. Ma nelle pagine della manovra economica si intravede un disegno collettivo. Chi lo avrebbe detto appena ad agosto che non ci sarebbero stati scontri con l’Europa né piazze dove si annunciano provvedimenti epocali?
Zingaretti dice che “abbiamo fatto un mezzo miracolo”. E forse il miracolo è proprio questo. Essere tornati a essere un Paese normale, dove chi governa si prende le sue responsabilità senza troppa enfasi. E’ solo il primo passo. E bene fa il segretario del Pd a premere sull’acceleratore proponendo che quella che avrebbe dovuto essere un inciampo in una storia diversa diventi un’alleanza strutturale, in grado di competere alle elezioni per vincere. Siamo appena all’inizio, perché pur sempre di forze molto diverse si tratta. E poi resta l’incognita Renzi, che in molti danno come mandante di un altro ribaltone per far cadere Conte subito dopo il voto finale sulla manovra. Restiamo ai fatti. Dovrà cambiare il Pd, dovranno diventare più simili a un partito tradizionale anche i 5 Stelle, se vogliono essere davvero fattore di cambiamento e non una meteora che si brucia nel giro di una tornata elettorale. Servirà, non mi stanco di ripeterlo, una forza nuova della sinistra italiana, che non si può considerare esaurita nel Partito democratico.
Piccoli segnali di questa necessaria evoluzione ci sono. Per quanto riguarda il Pd, la proposta di un nuovo statuto fa i conti con la realtà ed elimina l’automatismo segretario/premier. L’abbiamo importata dai sistemi anglosassoni, ma da noi, con un sistema politico multipolare, non funziona. Piano piano abbandoneranno anche l’illusione della vocazione maggioritaria. Che non si significa rinunciare a crescere, ma capire che si rappresenta un blocco sociale, non l’intero corpo elettorale.
Nei 5 Stelle cominciano a spuntare voci dissonanti. E anche questo è un bene. Perché un partito ha bisogno di discussione, di dissenso. Non può essere semplicemente espressione di un leader, altrimenti dura fin quando il leader stesso resta in auge. La lezione di Forza Italia dovrebbe insegnare qualcosa.
Resta sullo sfondo, al momento, la questione di una nuova forza della sinistra italiana. Che poi è paradossale: in quasi tutte le tornate elettorali a cui abbiamo assistito, regionali o amministrative, sono state presentate liste che, in un modo o nell’altro, provano a proseguire l’esperienza di Leu. Hanno funzionato quando rappresentavano un reale radicamento sociale e non una semplice accozzaglia messa insieme per eleggere qualche rappresentante. Hanno fallito miseramente quando era evidente il contrario. Non si capisce bene perché, avendone a quanto pare tutto il tempo, non si dovrebbe continuare a lavorare in quel senso anche a livello nazionale. Questione, come spesso è accaduto in questi anni, più di piccoli egoismi che di reali differenze.
Qualche notazione sul contenuto della manovra economica. Ci sono più tasse per chi le può pagare, un progetto che va oltre l’anno sulla lotta all’evasione, si comincia a intervenire sul cuneo fiscale premiando i lavoratori e non le aziende. Si parla di investimenti sulle infrastrutture, ci sono forme di tassazione sulle produzioni più inquinanti a partire dagli imballaggi di plastica. Del resto, perché stupirsi? Viviamo in un’economia di mercato e finché le confezioni ecologiche non saranno più convenienti della plastica continueremo a beccarci le fettine confezionate una a una in vaschette e pellicola. Sarà che io sono un nostalgico dei vecchi cartocci in cui una volta ti consegnavano tutta la spesa e anche del vuoto a rendere. Insomma, non mi dispiace, il green new deal non può essere solo uno slogan.
Una manovra che lancia segnali precisi, insomma. Certo, si poteva essere più coraggiosi accelerando su alcuni punti, penso ad esempio l’uso delle carte al posto del contante. Ma già che si introducano sanzioni per i commercianti che non ti fanno usare il bancomat mi pare un grande passo in avanti, in un Paese che da sempre apprezza chi fa comizi sul cambiamento, ma poi fa le barricate anche se cambi un senso unico in una strada di campagna.
C’è un generale processo di semplificazione sulle tasse, ad esempio per quanto riguarda il regime fiscale che riguarda la casa. C’è la prospettiva di ticket sanitari più giusti, che permettano a una platea più ampia di avere garantito il diritto alla salute.
Basterà a rilanciare il nostro Paese? Io credo che più del contenuto delle norme, i mercati, gli investitori, ma più in generale anche i cittadini, guardino alla capacità complessiva di governare che avrà l’esecutivo guidato da Conte. L’economia è anche un fatto psicologico. E così se gli investitori sono attratti sicuramente da un luogo che ha miglior infrastrutture, una giustizia rapida, un contenzioso minore, è anche vero che la nostra propensione a spendere aumenta se abbiamo la percezione che il nostro futuro può essere migliore. Si compra una casa nuova non tanto e non solo perché i mutui sono bassi, ma perché abbiamo la sensazione che il nostro lavoro è stabile e abbiamo la possibilità di migliorare la nostra posizione. Per anni siamo stati bloccati dalla percezione contraria. Per anni siamo stati impegnati a odiare chi aveva meno di noi e contro i più deboli abbiamo scaricato ansie e frustrazioni.
Questo è il grande compito che deve porsi questo governo. Cominciare a cambiare la percezione che i cittadini italiani hanno del loro futuro. Basterà una manovra economica? Sicuramente no, ma qualche passo nella direzione giusta lo abbiamo fatto.
Il taglio dei parlamentari, fuffa dannosa per le istituzioni
Il #pippone del venerdì/116
Intanto una nota auto celebrativa: in tanti hanno criticato il mio paragone fra Renzi e Bertinotti della settimana scorsa, ma a giudicare dalle cronache politiche di questi giorni era più che azzeccato. La strategia è la stessa, di questo si parlava, non dei temi portati avanti su cui c’è una certa distanza: tenere sulla corda il governo in maniera da acquisire visibilità, questo il tratto che accomuna i due. Del resto in Italia funziona così, sui giornali finiscono per lo più gli spunti polemici. E in questo Renzi è davvero bravo, una specie di tarlo che ti rosicchia i mobili di casa. Se non si interviene subito si rischia di trovarsi con un mucchietto di segatura in mano.
Detto questo, la notizia della settimana è sicuramente il taglio dei parlamentari. Con tanto di show dei cinque stelle, schierati in parata davanti a Montecitorio con forbici e striscioni. Una festa senza popolo, vale la pena sottolinearlo. A cosa serva eliminare 345 fra senatori e deputati non è ben chiaro. Non si velocizza l’iter delle leggi, non si garantisce maggior funzionalità alle Camere. Si realizza un modesto risparmio annuo, penalizzando al tempo stesso la rappresentanza. Pd e Leu hanno dovuto inghiottire il boccone e hanno detto sì, dopo aver fatto il contrario per ben 3 votazioni di fila.
Ora, niente di male, in politica si accettano compromessi per raggiungere i propri scopi. Chi dice il contrario mente spudoratamente. Anzi, spesso quelli che appaiono duri e puri sono i primi a brigare sottobanco per avere qualche strapuntino in più. Andrebbe ammesso che si tratta del prezzo pagato per arrivare alla formazione del Governo. Invece si assiste ad affannose arrampicate sugli specchi per cercare improbabili motivazioni al cambio di rotta. Ho letto perfino qualcuno che spiega come fosse giusto tagliare i parlamentari perché rispetto a quando furono decisi gli attuali assetti le distanze si sono ridotte e quindi ora servono meno rappresentanti. Se questo fosse il ragionamento tanto vale allora riunire le camere in videoconferenza, si risparmia anche di più.
In realtà, quel numero di deputati e senatori garantiva allo stesso tempo la rappresentanza di tutti i territori e delle minoranze. Se si voleva risparmiare forse sarebbe stato meglio tagliare i compensi a parlamentari e consiglieri regionali, il segnale sarebbe stato decisamente più forte. Invece così una riforma che passa per essere anticasta rischia di ottenere l’effetto contrario: collegi più grandi e liste bloccate restringono ancora di più il campo di chi può davvero puntare all’elezione. Le alternative sono due: o sei molto popolare o hai tanti fondi. Insomma avremo una supercasta blindata da campagne elettorali complicatissime.
Da qui, almeno, l’esigenza di rimettere mano alla legge elettorale. Si discute molto anche di questo, pur essendo argomento che interessa all’uno per cento del Paese. Con i numeri attuali dovrò rivedere anche le mie convinzioni, il doppio turno alla francese che da sempre prediligo rischia di diventare un bagno di sangue e portare in parlamento soltanto i tre schieramenti principali.
E questo è l’altro equivoco che viviamo dalla fine degli anni ’90 del secondo scorso. Da quando, cioè, si cerca di modificare il sistema politico con leggi elettori che garantiscano – nelle intenzioni di chi le teorizza – governabilità o meno frammentazione. Il risultato è che i governi continuano a cambiare e i cosiddetti partitini sono addirittura aumentati. Anche quando abbiamo sperimentato sistemi più o meno maggioritari sono nate coalizioni dentro le quali hanno trovato spazio liste e listarelle varie. Dai pensionati, ai cacciatori, al movimento delle casalinghe. Tutti poi a rivendicare, una volta vinte le elezioni, almeno un sottosegretario in forza del loro contributo, minimo ma essenziale.
Segno che il tentativo di modificare il quadro politico attraverso sbarramenti vari funziona fino a un certo punto. Io resto convinto che – del resto lo stabilisce anche la costituzione – la legge elettorale debba garantire una rappresentanza parlamentare il più possibile vicina alle percentuali ottenute dai partiti nelle urne. E’ fondamentalmente giusto che uno possa votare il partito in cui si riconosce senza bisogno di turarsi il naso. Il Parlamento, secondo me, dovrebbe essere una fotografia il più possibile particolareggiata della situazione del Paese.
E’ ovvio allora che, data la situazione attuale e la riduzione del numero dei rappresentanti, l’unica strada per ottenere questo risultato sarebbe il proporzionale puro. Senza sbarramenti: anche chi prende il 3 per cento ha diritto a un seggio in parlamento. Si tratta pur sempre di un milione di persone. E la governabilità? La stabilità? Io credo sia un falso mito. Lo ripeto: abbiamo sperimentato negli ultimi vent’anni, tutte le leggi elettorali possibili, ma i governi cambiano, le maggioranza si modificano e si capovolgono nel giro di qualche mojito.
Altro ragionamento sarebbe modificare la forma di governo. E quindi pensare al superamento della Repubblica parlamentare per arrivare a un cancellierato o a un sistema semi-presidenziale. Temo però che sia meglio soprassedere: non mi pare che nell’attuale classe dirigente ci siano gli statisti in grado di ridisegnare il sistema costituzionale così in profondità. Quando ci abbiamo provato negli anni scorsi, con la riforma del titolo V, ad esempio, non è andata proprio bene, diciamo. E allora meglio un proporzionale classico, magari con circoscrizioni non enormi, che garantisca il diritto dei cittadini a scegliere i propri rappresentanti. Meglio una riforma soft, che lasci spazio alla politica e alle alleanza costruite sugli effettivi pesi elettorali, che i sistemi traballanti di cui si sente parlare. Meno fanno, meno danni si producono.
Se Renzi si mette a fare il Bertinotti.
Il #pippone del venerdì/115
Si respira da qualche settimana una strana aria di normalità. Dopo i 14 mesi di eccessi salviniani, compreso l’uso del ministero dell’Interno come fosse una clava da brandire contro gli avversari, l’Italia si è svegliata in un clima da anni ’80 del secolo scorso. Tratta con i partner europei, invece di alzare i toni e poi cercare di raccogliere i frutti dell’alzata di capo, il governo compone le sue differenze in maniera direi quasi democristiana. Le tirate di Di Maio sono più a uso e consumo dei social-seguaci che ultimatum veri e propri.
Si sonnecchia, apparentemente, ma qualche risultato comincia anche ad arrivare. Vedremo se agli annunci corrisponderà una manovra economica che finalmente rimetta qualche soldo in tasca agli italiani, punti sullo sviluppo e faccia fare passi in avanti nella lotta all’evasione. Tema da sempre evocato da tutti i governi, ma mai preso di petto seriamente. Con l’eccezione forse dell’odiatissimo quanto bravo Vincenzo Visco nel governo Prodi.
Bene, intanto, il ministro Speranza che si fa valere in maniera discreta senza troppi proclami altisonanti e intanto, a quanto viene anticipato, porta a casa un sostanzioso aumento del Fondo sanitario regionale e la progressiva eliminazione del superticket. Una vera e propria tassa sulla povertà. Bene anche l’idea di modulare i ticket in base al reddito: è giusto – e tra l’altro segue alla lettera il dettato costituzionale – che chi può permetterselo contribuisca anche a garantire la salute a chi non ha i mezzi. Tra l’altro tornare a instillare pillole di solidarietà interclassista in un Paese incattivito e rancoroso non può che far bene. Sperando serva a ridurre la percentuale di italiani che deve rinunciare a curarsi perché non può permetterselo.
Bene anche le mosse di Roberto Gualtieri, che sta facendo valere i suoi trascorsi in Europa per portare a casa limiti meno rigidi per quanto riguarda il deficit. Stiamo tornando ai fondamentali dell’economia classica: in una fase di crisi – e quella che stiamo vivendo lo è a pieno titolo, basta guardare i fondamentali della Germania – non si può andare troppo per il sottile, servono interventi espansivi per far ripartire il Paese. E, come è noto, gli interventi pubblici fanno sempre da volano agli investimenti privati. Chi mastica un po’ di economia sa che in questi casi l’effetto moltiplicatore è molto alto. Se saremo in grado di proporre misure serie nella manovra economica, questa non potrà che avere una ricaduta positiva per tutti, dagli imprenditori ai lavoratori. Ai quali bisogna venire incontro con una riduzione netta del cuneo fiscale. Un vero e proprio furto che va, sia pur progressivamente, eliminato.
Se a tutto questo si aggiunge che il costo del denaro, grazie all’accorta politica della Bce guidata da Mario Draghi, è praticamente zero, ci sono tutte le condizione per provare a superare il dosso della crisi e ripartire questa volta davvero. Non leggo, al momento, di interventi previsti per quanto riguarda i diritti dei lavoratori. E credo sia uno sbaglio. Se la sinistra vuole riguadagnare i voti persi deve mettere mano al jobs act e a una legge sulla rappresentanza sindacale. Ci sarà tempo per parlarne, spero subito dopo l’approvazione della manovra economica.
I sondaggi, sia pur con tutte le cautele del caso, sembrano dar ragione a chi si è battuto per formare questa “strana” alleanza. Riuscendo a mettere insieme tutto il centro sinistra e i 5 stelle si va oltre il 50 per cento dei consensi. Anche nella martoriata Umbria, dove si va a votare in seguito allo scandalo che ha coinvolto i vertici del Pd locale, la partita sembra tutta da giocare, anche lì l’alleanza “civica” rosso-gialla può competere davvero. E rispetto alle ultime débacle alle regionali anche partecipare per vincere rappresenta una novità. Tutto bene dunque? Manco per niente.
Da questo quadro, che al momento mi sembra abbastanza positivo, si distacca l’atteggiamento di Matteo Renzi. Perdonate il paragone, ma a me sembra che ambisca a stare nella maggioranza e fare un po’ il Bertinotti della situazione. Quello che la sera ti dice “va bene, siamo d’accordo su tutto” e poi la mattina ti convoca una bella conferenza stampa per dire che “proprio non ci siamo”.
L’altra sera l’ex segretario del Pd, ha sentenziato: “Se Conte vuole stare sereno non alzi le tasse”. Tutto questo mentre la maggioranza discuteva di una possibile rimodulazione di alcune aliquote Iva, con un meccanismo di bonus/malus per chi paga con strumenti tracciabili e chi invece usa i contanti. Un meccanismo, dal governo giurano a saldo zero, che avrebbe fatto fare qualche serio passo contro gli evasori. I maligni potrebbero pensare che il fiorentino tende a tutelare il suo supposto elettorato, fatto di professionisti e piccoli imprenditori, quelli a cui la lotta all’evasione fa venire le bolle in faccia.
Più semplicemente Renzi cerca di giocare la carta dei distinguo per accreditarsi presso l’opinione pubblica come il difensore delle tasche degli italiani. E per fare questo mette in crisi la traballante pax che regna nella maggioranza. Scherza con il fuoco, ma rischia di essere un “pierino” molto dannoso. Di tutto abbiamo bisogno fuorché dell’immagine di una maggioranza litigiosa. Si spendesse piuttosto, insieme agli altri, contro i dazi imposti da Trump sui prodotti europei, che rischiano di mettere ko le nostre eccellenze a partire dal parmigiano. Usasse la sua indubbia capacità mediatica per rintuzzare gli attacchi del centro destra che, dopo un comprensibile sbandamento, cerca di riprendere centralità nella scena politica.
Ora, so che Renzi ha una profonda avversione per la storia, sia recente che antica. Lui preferisce parlare di futuro. Ma alla vigilia della Leopolda sarebbe bene che qualcuno gli ricordasse la fine che ha fatto Bertinotti, passato da leader nazionale a vecchia comare della politica italiana nel giro di pochi mesi. Pierino può anche stare simpatico per qualche tempo, ma poi stufa. Cambi personaggio, finché è in tempo.
Non basta allargare il campo, serve una alternativa al capitalismo.
Il #pippone del venerdì/114
Mentre il nuovo governo va avanti verso la definizione della manovra economica, apparentemente senza troppi scossoni, il quadro politico continua a cambiare di giorno in giorno. Colpa (o merito) della scissione di Renzi da un lato e dell’attivismo di Salvini dall’altro.
L’ex presidente del Consiglio continua la sua campagna acquisti a destra e a sinistra, fino ad arrivare a lambire gli odiati (e la cosa era reciproca fino a poche settimane fa) 5 stelle. C’è da aspettarsi che le adesioni continuino in preparazione e soprattutto dopo la Leopolda. Il Pd cerca di tamponare l’emorragia (a quanto dichiarano solo di dirigenti), con le new entry Lorenzin e Boldrini e persevera così a voler essere un partito omnibus che può contenere tutto e il contrario di tutto, la cosiddetta vocazione maggioritaria. La Lega, da parte sua, cerca di capitalizzare il momento facendo man bassa di quel che resta di Forza Italia.
Insomma, niente di appassionante. Niente in grado di smuovere davvero le coscienze. In mezzo ci sono state la vergognosa risoluzione del Parlamento europeo che ha messo sullo stesso piano nazismo e comunismo dando un sonoro schiaffone alla storia, e l’appassionato intervento di Greta al vertice Onu sul clima. Questo sì davvero in grado di smuovere le coscienze. Proprio oggi ci sarà l’ennesima giornata di grandi mobilitazioni in tutto il mondo. Segno che questo è il tema su cui costruire il futuro, non altri.
Si è riaperto, nel frattempo, un interessante dibattito su cosa serva davvero per arginare la destra di Salvini e soci. Lo ha fatto con un lungo e interessante intervento Goffredo Bettini sul Foglio, nel quale dopo una lunga analisi sulla nostra società, arriva sostanzialmente alla conclusione che l’antidoto sia il rinnovamento del Pd e l’allargamento del campo. So che si tratta di una sintesi brutale, ma in fondo questo è proprio il mio lavoro. Per cui sono certo che Bettini mi perdonerà della brutalità.
La cosa che trovo curiosa è come partendo dalla stessa analisi (perfino dalle stesse letture direi) si possa arrivare a conclusioni opposte. Provo a procedere per punti, per essere più chiaro.
- Siamo d’accordo sul fatto che non ci troviamo più nella società del novecento dove c’era un popolo, nel senso classico della parola. Un popolo organizzato nei partiti, nei sindacati, nell’associazionismo. La nostra società liquida ha teso via via a cancellare tutto questo e il popolo è diventato (o meglio tornato) a essere plebe, uno sciame indistinto pronto a infatuarsi per chi gli propone la scorciatoia più a portata di mano. Io continuo a essere convinto, però, che in altre parti del mondo una risposta la sinistra abbia cominciato a darla, non solo in termini di mera resistenza. Se in Italia questo non è successo non è un accidente della storia. Al contrario: abbiamo pensato di immergerci nella società liquida smantellando il nostro sistema sociale e cercando di nuotare nella corrente. Pensavamo di essere squali, eravamo solo lucci. Pesce famoso per abboccare all’amo. Dobbiamo trovare il modo di navigare nella società liquida oppure costruire isole e farle diventare continenti? Io sono per la seconda ipotesi.
- Se partiamo da questo presupposto non basta dire che dobbiamo tornare dal popolo e stare “nel” popolo” soprattutto quello brutto e cattivo. Questa ovviamente è una precondizione. Se ci ostiniamo a pensare che abbiamo ragione noi e tutti gli altri sbagliamo ci ritroveremo a essere sempre meno, perfino negli argentati salotti romani. Quella che un tempo si chiamava “la proletarizzazione” delle classi dirigenti, però, non è la soluzione, ma solo il primo passo nell’individuazione del male.
- La prima soluzione offerta da Bettini è quella di una risposta alla crisi della società in termini di proposte innovative. Il dirigente democratico individua nella giustizia la prima forma di protezione sociale e su quella punta. E poi servono risposte sui temi più “caldi”, quale famiglia, quale sistema di formazione, quale idea di patria e di Europa, quale piano per il mezzogiorno. Questo per lui è il compito che deve svolgere il Pd, partito che una volta tolta la zavorra renziana, avrebbe tutte le carte in regola per essere alla guida di questo sforzo programmatico che vada oltre la quotidianità e contribuisca a definire insieme quelli che Bettini stesso ha più volte definito il “cielo” e la “terra”, ovvero un quadro culturale e ideale in cui muoversi per affondare le proprie radici.
- La seconda, che ne dovrebbe essere la diretta conseguenza, è l’allargamento del campo. Sostanzialmente andare oltre lo steccato di un nuovo Ulivo da Fratoianni a Calenda, mischiare gli elettorati di centrosinistra (senza trattino) e dei 5 stelle e prepararsi allo scontro elettorale. Un campo largo (uso non a caso la definizione cara a Bettini) in grado di costituire l’antidoto al populismo e al sovranismo che con la crisi di governo e la successiva soluzione sembra vivere una provvisoria battuta d’arresto.
- Secondo il mio modesto avviso si tratta di un’analisi, credo che nessuno si offenderà, intrisa di quell’umanesimo tipico dell’ultimo periodo di Ingrao, affascinante ma senza soluzioni. Si tratta, infatti, di una corrente di pensiero in grado spesso di disegnare un quadro ampio, di vedere ben oltre l’oggi, ma purtroppo piuttosto sterile quando si tratta di passare alla proposta.
Cosa manca in tutto questo? Una constatazione che credo sia il punto vero da cui ripartire: il capitalismo, nelle forme in cui si è realizzato, è incompatibile non soltanto con l’idea di giustizia che abbiamo tutti in comune nella sinistra. No, è incompatibile – o almeno lo sta diventando – con l’esistenza stessa del genere umano. Non solo si acuiscono intollerabili differenze sociali, si sta mettendo a rischio la “casa terra”. Se la sinistra partisse da questo punto e provasse non a dare le pur necessarie soluzioni al problema del mezzogiorno, ma a disegnare un orizzonte ideale in cui la necessità di superare l’attuale sistema di produzione sia il punto centrale, forse sarebbe più facile sedersi a un tavolo e discutere con quali forme possiamo tornare a parlare a quel popolo che ci vede non solo distanti, ma nemici. E allora anche la questione del campo largo o meno, avrebbe una rilevanza minore. Perché non ci sarebbe più a unirci soltanto la ricerca della vittoria elettorale, ma una nuova società da costruire. Solo allora potremo archiviare i vari Renzi che non sono accidenti capitati per caso, ma frutto della nostra resa degli anni ’90 del secolo scorso.
Rientrare nel Pd non serve a nessuno.
Il pippone del venerdì/113
I commentatori, ma anche diversi leader politici a partire dallo stesso Renzi, danno per scontato che l’uscita dell’ex segretario dal Pd coincida con il rientro delle truppe “rosse” di Bersani e D’Alema. Ora a parte che dipingerli come pericolosi estremisti pare un’operazione davvero eccessiva. Stiamo parlando sempre dell’ex presidente del Consiglio che, per primo in Italia, sposò le tesi di Blair e dell’ex ministro famoso per le lenzuolate di liberalizzazioni. Due leader che nella loro carriera politica sono stati ampiamente criticati proprio da quella sinistra cosiddetta radicale che li ha a lungo osteggiati. Anche con qualche ragione. Due riformisti doc, insomma. Se poi cantano bandiera rossa (anche se l’immagine di D’Alema che canta non regge un granché) lo fanno magari per ricordare la gioventù, forse anche con qualche nostalgia, ma di sicuro per loro quella del comunismo non è una prospettiva politica. Ma questo è un altro discorso, sapete come la penso.
Detto questo, al momento, l’unica che ha annunciato la sua adesione al Pd è l’ex Forza Italia Beatrice Lorenzin. Affascinata dal carisma di Franceschini, dicono, interessata comunque a rafforzare la componente di centro che, malgrado quello che appare all’esterno, è sempre più la vera pietra attorno alla quale ruota tutto il partito. Senza Franceschini, mi pare ormai evidente, non si governa quel partito e non si vincono le primare.
Il vero ragionamento che si dovrebbe fare – qualcuno timidamente ci prova – è se l’attuale offerta politica presente in Italia rappresenti l’elettorato. E qui si può aprire un ragionamento serio. Al momento, e gli ultimi partiti nati o nascenti rappresentano bene questa situazione, vanno di moda i leader più che i partiti. E’ un po’ la rappresentazione plastica di quello che scrivevo nell’ultimo pippone la settimana scorsa. La conseguenza della vittoria della cultura berlusconiana che ha scassato i corpi intermedi si riflette nella costituzione di forze politiche in cui conta solo il leader. In suo nome nascono, dopo di lui muoiono. Il partito di Renzi, quello di Calenda, quello di Toti, ma anche se vogliamo Fratelli d’Italia della Meloni e ancor più la Lega di Salvini, contano per quello che dice il leader. All’estremo opposto stanno i 5 stelle, dove, almeno a parole, si vorrebbe praticare una sempre più spinta forma di democrazia diretta che travalica il concetto stesso di partito. Poi, alla fine, comanda sempre Grillo, ma la teoria di Casaleggio (padre) andava proprio a colpire l’essenza stessa della democrazia rappresentativa che, a suo dire, andava sostituita da una consultazione continua del corpo elettorale, rendendo superflue le forze politiche tradizionali. Semplifico, ma alla fine il concetto è questo.
Il Pd stesso, lo ha spiegato bene Renzi nell’intervista dell’addio, nasce con il presupposto del partito carismatico, dove il leader viene scelto attraverso le primarie aperte e il ruolo dei militanti viene declassato a meri cuocitori di salsicce nelle feste estive. Portatori d’acqua senza alcun diritto di scelta in più rispetto ai semplici elettori. E infatti gli iscritti calano e le feste non si fanno quasi più.
La domanda da porsi allora non è se la sinistra di Speranza e Bersani rientrerà o meno nel Pd. Anche perché non si capisce bene, in termini meramente numerici, quale spostamento a sinistra potrebbero determinare in un partito dominato dai centristi alla Franceschini, uno che con i numeri ci sa fare e parecchio. La vera domanda da porsi è se questo schema basato sui partiti personali sia la conseguenza ineluttabile del nostro modello sociale (del resto avviene un po’ in tutto il mondo) oppure se ci sia un mare aperto da navigare a patto di attrezzarsi con la barca giusta. E qui l’esperienza di D’Alema una mano vera la potrebbe dare.
Ovvero: nel mondo di oggi siamo destinati a dare unicamente la fiducia a leader che manco ci dicono cosa vogliano fare, oppure c’è una strada alternativa? Sarà anche vero che destra e sinistra non esistono più, ma rimangono – e sono sempre più drammatiche – quelle diseguaglianza che sono alla base della nascita stessa della sinistra. E’ una domanda alla quale occorre dare una risposta anche in tempi rapidi. L’argine all’avanzata delle destre estreme che in questo momento è rappresentato dal governo Conte2 regge se gli si dà un orizzonte culturale, una mission. Altrimenti, a maggior ragione dopo la scissione di Renzi, sarà un governo in balia dei voti parlamentari, una scialuppa alla mercé delle onde bizzose del leader di turno.
E in questo quadro sta alla sinistra, sia pur socia minoritaria nella maggioranza, provare a dare un timone certo alla scialuppa. Altrimenti non arriveremo mai alla terra ferma.
Quindi la domanda, alla fine, non è se valga la pena rientrare o meno nel Pd. Ma se Zingaretti riuscirà a smarcarsi dal suo ruolo di tacchino designato e diventare il protagonista di un cambiamento vero nel campo politico nazionale, aprendo una vera fase costituente. Non di un nuovo partito che rimescoli un po’ le carte esistenti. Bisogna aprire un cantiere vero che metta al centro non tanto le idee sul da farsi quotidiano, ma la costruzione di un nuovo orizzonte culturale. In questo quadro sì, allora sarebbe suicida per i vari Speranza, ma anche Fratoianni e spezzatini vari, stare alla finestra e non partecipare. Io non credo che ci siano le forze necessarie. Lo dico senza eufemismi. E francamente non me la sento di mettermi al servizio di un progetto che non abbia questa ambizione: interrompere la stagione dei partiti carismatici da nascono e muoiono in funzione del capo e riaprire un percorso di elaborazione culturale ancor prima che politica. Una grande stagione che ponga al centro i temi del socialismo e dell’ecologia che non possono essere più trattati su piani differenti e che abbia come scopo quello della costruzione di una grande forza laburista in Italia. Se si parte da questo e non dalla ricerca del leader a tutti i costi forse una speranza ce l’abbiamo anche noi. Staremo a vedere.
Siamo stati a un passo dai pieni poteri. Ricordiamolo.
Il pippone del venerdì/112
Finita la sbornia del totoministri, del totoviceministri e del totosottosegretari, una roba che al confronto il calciomercato sembra un film avvincente, sarà il caso di prendersi un attimo di pausa, riaccendere il cervello e capire la fase drammatica che abbiamo vissuto e quello che serve per lasciarsela alle spalle.
Lo diceva benissimo in un editoriale su Repubblica Ezio Mauro giusto ieri. Anche se va considerato una voce isolata in un gruppo editoriale che, giorno dopo giorno, non manca di manifestare tutta la sua contrarietà al patto fra Democratici e Cinque stelle. Lo stesso Mauro, del resto, avverte fino in fondo la fragilità di un accordo che fatica a diventare alleanza stabile. Ci vorrà del tempo per capire quale delle due strade prenderanno: accordo occasionale o strutturale? Ci vorrebbe la palla di vetro. Le regionali in Umbria, Emilia e Calabria, ma anche un possibile allargamento della maggioranza nel Lazio, saranno il primo vero banco di prova.
La cosa certa è che il Conte 2 nasce per reciproche convenienze occasionali. I 5 stelle, pur avendo provato da vicino quanto sia scomodo il Salvini di governo, hanno baciato il rospo Pd solo per paura di vedersi più che dimezzati da uno scontro elettorale ravvicinato. I renziani idem. Zingaretti, al contrario, ha dovuto cedere alla maggioranza del suo partito che, malgrado i proclami del segretario, di affrontare le urne in questa situazione non ne voleva proprio sapere.
Il punto fermo da cui partire deve quindi essere chiarito: non abbiamo solo rinviato le elezioni facendo nascere questo governo un po’ rabberciato e fatto da presunti alleati che si insultavano fino a due minuti prima. Abbiamo bloccato o quanto meno messo una zeppa nelle ruote di un meccanismo che Salvini ha evocato benissimo parlando di “pieni poteri”. Ovvero lo svuotamento di quel sistema liberale sancito dalla Costituzione con la sua architettura di pesi e contrappesi fra i poteri, per arrivare a una democrazia apparente, dove il Parlamento sia soltanto un orpello da convocare quando serve per ratificare decisioni prese altrove. E dove gli altri poteri siano assoggettati all’esecutivo. Quanto è successo in quest’anno nei rapporti fra il ministro dell’Interno e la magistratura dovrebbe insegnare qualcosa. Fino all’elezione diretta del Capo dello Stato che, senza una architettura costituzionale appositamente costruita, vorrebbe dire una roba tipo la Russia di Putin, dove alle elezioni si eliminano direttamente i candidati delle opposizioni.
Quello che Mauro non dice, ma credo lo abbia ben chiaro, è che Salvini non è un incidente di percorso della storia, una specie di guappo che furbescamente ha cercato di capovolgere un sistema solido e in salute. Al contrario, il Capitano è la faccia ultima, forse la peggiore, di un lungo percorso. Si parte da Tangentopoli che, è evidente al di là del giudizio di merito, travolse una intera classe dirigente. Non si tratta di dire se fu giusto o no. I processi si fanno nelle aule dei tribunali e si sono conclusi da tempo. Ma il risultato fu un che un Paese ingessato dal dopoguerra agli anni ’90 del secolo scorso, si scoprì all’improvviso bisognoso di un cambiamento totale.
Al di là del fatto che la sinistra sia arrivata più o meno al governo per lunghi anni nella fase successiva, il vero protagonista di quella fase è stato Berlusconi. Non tanto e non solo il personaggio, ma per quello che ha rappresentato e che ha finito anche per sconvolgere il sistema di valori a cui la sinistra aveva affidato le sue speranze. Il berlusconismo ha rappresentato in Italia una vera e proprio rivoluzione culturale caratterizzata dalla repulsione per i riti della democrazia e per i corpi intermedi. Siamo come tornati indietro agli anni 20, quelli della confusione e del miraggio dell’uomo forte come risposta ai problemi. “Ci vuole ordine”, dicevano i capitalisti di inizio ‘900 rispondendo alle istanze che arrivavano dal proletariato (parliamo di un secolo fa, il termine è più che legittimo, non datemi del vecchio comunista).
Questa rivoluzione culturale, dicevamo, ha profondamente cambiato la nostra società: alla fine del percorso i partiti sostanzialmente non ci sono più, i sindacati sono in gran parte ridotti a patronati per l’assistenza fiscale, tutto quel mondo ricco dell’associazionismo che tanta linfa aveva dato al rinnovamento della nostra democrazia, si è rinchiuso nella asfittica dimensione del volontariato. Siamo una società più povera, più divisa, fatta di “isolati” spesso anche rancorosi.
Mettiamoci anche che, allo stesso tempo, paghiamo anche il prezzo di una globalizzazione che non abbiamo saputo né comprendere, né, tanto meno, governare e arriviamo alla conclusione che Salvini è la prosecuzione in forme differenti di questo processo, non la sua negazione. Solo partendo da questo ragionamento e quindi dalla consapevolezza di quanto sia complicato il compito che abbiamo davanti (abbiamo in senso lato), si può provare a ragionare su come si esce da questo “loop” e come si torna a pensare di costruire un modello sociale differente, io direi anche socialista. Ma di questo parliamo le prossime settimane. Per il momento fermiamoci qui, sperando che nei partiti della nuova maggioranza (mi rifiuto di chiamarla giallorossa, anche perché, sportivamente parlando, porta anche un po’ male) si diffonda questa consapevolezza sul delicato momento storico che stiamo vivendo e ci si attrezzi di conseguenza. Nutro qualche speranza residua sul Pd, un po’ meno sui 5 Stelle che, negli anni passati, sono stati anzi acceleratori della deriva autoritaria. Ma, avendola subita sulla loro pelle per un tratto di strada, magari anche loro potranno avere qualche sussulto democratico.
L’unico governo possibile, sperando che basti
Il pippone del venerdì/111
Insomma, abbiamo il governo, che non sarà un dream team, ma del resto in giro tutti questi fenomeni della politica non ci sono. Dicono che sia il governo più di sinistra nella storia d’Italia. Ora, non so se sia vero, quello che è certo è che la sinistra, ancora una volta si fa carico del Paese in un momento molto difficile.
Difficile resistere alla tentazione di dire che ve lo avevo detto, che ad agosto era meglio andare in vacanza e dimenticarsi della politica. Una lezione che farebbe bene ad apprendere il capitano Salvini, che ha messo insieme le due cose, arrivando a perdere nel giro di pochi giorni non solo tutto il potere faticosamente accumulato nel giro di anno, ma – cosa per lui ben più grave – perde il mito di invincibile che si era costruito inanellando una vittoria elettorale dopo l’altra. Regione dopo Regione, per arrivare al picco delle Europee, Salvini aveva trasformato la Lega da movimento locale a partito in grado di vincere ovunque, perfino nel profondo sud da cui, fino a pochi mesi prima, avrebbe voluto addirittura la secessione. Devono essere stati fatali i troppi cocktail.
Ha vinto troppo, si potrebbe chiosare, e si è montato la testa. Ora lo aspetta una – speriamo lunga – traversata nel deserto da cui potrebbe anche uscire come un pollo spennato. Ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza. Bisogna tornare a governare l’Italia dopo un anno vissuto più sugli annunci, sui manifesti politico-ideologici trasformati in leggi bandiera, che sui provvedimenti in grado di incidere davvero sulla crisi del nostro Paese. Ha ragione Zingaretti, compito di questo nuovo esecutivo è chiudere la stagione dell’odio.
Sulla nuova alleanza Pd-M5s non voglio tornare neanche troppo a lungo. Da tempo – posso quasi vantare una primogenitura dopo l’intuizione di Bersani (se gli dessimo retta qualche volta…) – vado in giro dicendo che la sinistra e il Pd potevano tornare a concorrere per la vittoria soltanto spaccando a martellate l’asse fra Di Maio e Salvini e riportando il movimento fondato da Grillo alle sue origini. Origini che, pur con tinte miste di populismo e democrazia elitaria, non potevano che essere nella lunga crisi vissuta dalla sinistra italiana. La tematica dei beni comuni, i diritti sociali e civili, una nuova stagione di sviluppo legata al rispetto e alla conservazione dell’ambiente, solo per citare alcuni degli argomenti che i grillini delle origini agitavano come loro bandiera esclusiva, sono i temi con cui la sinistra in tutto il mondo sta facendo i conti. E solo uscendo dall’equivoco bastardo della mitigazione del neo liberismo si torna a essere percepiti come punto di riferimento.
Certo, si poteva fare un anno e mezzo fa. Non sto a dire è colpa di questo o di quello. Certo, dopo la disfatta elettorale delle politiche, il Pd c’ha messo troppo a metabolizzare il nuovo quadro politico. Ci si è baloccati con qualche zero virgola in più in qualche tornata elettorale, ma per tornare in campo davvero c’è voluta la cantonata agostana di Salvini. Solo quando si è aperto lo spiraglio, e anche in questo caso con tempi di reazione davvero troppo lenti, si è riusciti ad aprire lo sguardo e a capire che davvero le elezioni in questa fase era l’ultima cosa che si poteva concedere.
Del resto la politica è una cosa semplice: se il tuo avversario vuole una cosa è il caso di cercare di fare l’esatto contrario. Per capire questo principio elementare, per arrivare a quella conclusione che fra i comuni mortali era data per ovvia, c’è voluta la discesa in campo di tutti o quasi i padri nobili del Pd. E c’è voluto il via libera preventivo di Renzi, che al contrario si muove sempre con grande rapidità anche nelle conversioni a U, per mettere in moto le diplomazie e riaprire la partita.
Ora, dicevo, il Conte bis non sarà il governo dei sogni, ma segna alcuni punti secondo me molto interessanti. Il primo è il ritorno dopo tempo immemorabile di un politico puro all’Economia. Un professore di Storia, che però ha presieduto una commissione economica al Parlamento europeo e proprio per questo può essere in grado di far tornare l’Italia a quel tavolo delle decisioni europee da dove siamo stati esclusi per troppo tempo e in una fase davvero cruciale. Del resto l’Europa non potrà che guardare con occhio benevolo e attento al nostro ritorno fra i paesi che considerano l’Unione come l’unico approdo possibile. Togliere un grande paese, come siamo nostro malgrado, dalla lista di chi rema contro e si muove con minacce e ritorsioni, aiuta il processo di crescita di tutta la Ue.
Avrei voluto, lo confesso, un politico puro anche al Viminale. Ma del resto sono comprensibili le apprensioni del presidente Mattarella che ha avvertito e credo “caldeggiato” (diciamo così) la necessità di riportare alla normalità democratica un ministero delicato che in quest’anno e mezzo è diventato un po’ coatto, come diciamo a Roma. Una macchina che è andata spesso fuori giri deve tornare a lavorare normalmente. Nulla di meglio, dunque, che un prefetto esperto come Lamorgese, nota tra l’altro per le sue vere e proprie battaglie per difendere i diritti dei migranti dalle sparate leghiste, che sarà in grado di tranquillizzare i dirigenti del ministero, riportando la situazione sotto controllo senza essere vista come un corpo estraneo.
Bene anche il ritorno in campo di Leu: faccio notare che si era rotta l’alleanza sul no di Sinistra italiana a un rapporto organico con il Pd, ma appena si è intravista l’opportunità di un governo nuovo tutti i no sono spariti d’incanto. Sarebbe il caso di riprendere il percorso, ma temo che le ambizioni personali saranno ancora una volta un macigno inamovibile. Bene, ovviamente, il ministero della Salute assegnato a Roberto Speranza. Quello del rilancio della sanità pubblica era uno dei nodi centrali del nostro programma, potremo provare a fare qualcosa da attori protagonisti.
Mi lascia qualche dubbio, anche visti i suoi precedenti, lo spostamento di Di Maio agli Esteri. Sembra più che altro un premio di consolazione. Speriamo che resti ingabbiato nelle rete che si potrà costruire fra Amendola, inviato da Zingaretti agli Affari Europei, Gentiloni, che andrà a fare il commissario dell’Unione europea probabilmente con responsabilità proprio degli affari economici, e, appunto, Gualtieri che dal Mef avrà una posizione privilegiata per poter incidere sulla nostra politica estera.
Ultima considerazione su Zingaretti che, dopo aver toppato l’avvio, si è rimesso in carreggiata e ha preso pian piano il centro della scena da segretario vero. Ha delegato agli esperti (Franceschini in primis) la conduzione quotidiana della trattativa, intervenendo puntualmente per eliminare le mine che si sono presentate via via in questo travagliato mese di tira e molla continuo. Ha ceduto su alcuni punti mirando al bersaglio grosso: riuscire a costruire questo governo non con un contratto fra estranei ma con un programma comune che fa ben sperare. E ha portato a casa ministeri di sicuro rilievo. Ora si tratta di procedere giorno per giorno verso un’alleanza strutturale e non più imposta dalle circostanza.
Insomma, a Salvini gli eccessi sulle spiagge italiane potrebbero davvero costare cari. Sta al nuovo governo Conte lasciarlo a rodersi il fegato. Del resto a settembre si torna dal mare e gli stabilimenti si apprestano a chiudere. Lasciamoci alle spalle anche quest’anno e mezzo che ha spezzato le coscienze, aumentato le fratture nella nostra società e cominciamo a ricostruire. Si può fare. A patto che sia davvero il governo della discontinuità, ma non solo con il passato recente.
Salvini va, i 5 stelle arrancano, sinistra non pervenuta.
Il pippone del venerdì/110
Lo dicevo la settimana scorsa: fa caldo, meglio prendersi un mesetto abbondante di vacanze e lasciar perdere la politica. Basta leggere le cronache di questi giorni. Doveva essere la settimana in cui mettere Salvini sulla graticola per il cosiddetto russia gate. E invece, in un sol giorno il leader leghista incassa: una sostanziale assoluzione da parte del presidente del Consiglio in Senato, con qualche punta polemica ma nulla di più, il via libera dello stesso alla Tav, la fiducia della Camera sul decreto sicurezza bis, nel quale si inasprisce la battaglia contro le Ong, impegnate nel soccorso ai migranti. I cinque stelle sembrano un po’ un pugile suonato: prima hanno incassato a stento la botta sulla Tav, chiedendo a gran voce un voto in parlamento ben sapendo che lì c’è una solida maggioranza a favore dell’alta velocità. Fossi nell’opposizione – per inciso – diserterei il voto per protesta lasciando alle truppe di Di Maio la responsabilità della scelta. Poi hanno addirittura abbandonato il Senato durante l’intervento di Conte sul caso Russia. Non hanno capito bene neanche loro il motivo, tanto che poi hanno avuto bisogno di una lunga seduta di autocoscienza collettiva per sfogarsi un po’. Nel frattempo, il capo politico, sempre Di Maio, ha annunciato che i mandati a disposizione dei penta stellati eletti nelle istituzioni non saranno più due, ma tre. Ora la scelta è pienamente legittima, anche perché non si capisce bene come può reggere un partito in cui si cambia classe dirigente al di là dei meriti e del lavoro svolto. Ma il capo politico, per argomentare il tutto, si è inventato la supercazzola del “mandato zero”, ovvero il primo mandato svolto non conta, si comincia a contare dal secondo. Roba che manco la satira più cattiva poteva arrivare a concepire.
Ratificheranno comunque il pacchetto di proposte (che comprende anche l’alleanza con liste civiche alle amministrative) tramite la piattaforma Rousseau. Ormai decaduta a luogo della ratifica. Varrebbe la pena di riflettere su come un partito in cui il rapporto sia impostato unicamente sulla dialettica base-leader sia sostanzialmente una dittatura. E su come l’apporto degli strumenti digitali alla democrazia non possa limitarsi a un click di ratifica. Ma questa è un’altra storia, fa troppo caldo per ragionamenti di “sistema”.
In tutto questo i sindacati, con uno sciopero (infrasettimanale) dei trasporti che ha avuto adesioni altissime, denunciano il blocco totale delle infrastrutture praticato dal governo e dal ministro Toninelli in particolare. L’economia non cresce, tutti i dati confermano che alla fine dell’anno il segno positivo sarà forse di un paio di decimali. Ben lontani, comunque, dalla previsioni del governo di inizio anno. Alla fine della settimana, dopo fulmini e saette, è arrivata, come da copione, anche la attesissima tregua fra i due vicepremier, che fino al giorno prima si erano presi a sassate.
Insomma, a occhio doveva essere una bella settimana per chi si oppone. I 5 stelle in forte crisi, Salvini comunque alle prese per il suo presunto scandalo, Conte che appare sempre più come un presidente del Consiglio senza una maggioranza che lo segue. Pare una di quelle palle facili sotto porta dove c’è scritto “basta spingere”- Nulla di tutto questo. La sinistra nelle sue svariate forme tace. Il Pd, nel giorno in cui doveva mettere sulla graticola Salvini, non ha trovato di meglio che mettersi a litigare su chi doveva intervenire al Senato. Al di là del merito della lite (in realtà non si capisce bene perche a nome del Partito democratico doveva intervenire uno che il giorno prima aveva dichiarato che di quel partito non si occupa) la scenetta pare surreale.
Posto che, a quanto si legge nei sondaggi, del presunto scandalo dei rubli russi agli italiani non interessa più di tanto, viene da chiedersi da cosa derivi mai questa vena autolesionista. Anche in questo caso, a persone sane di mente, verrebbe da chiedersi se non ci sia una ragione di fondo quando un partito nel giro di pochi anni ha bruciato e prepensionato tutti i leader malgrado fossero tutti eletti con un robusto consenso popolare. Da Veltroni, a Bersani, a Renzi. Non se ne è salvato uno. Zingaretti, mi dispiace davvero per lui, al momento sembra più un amministratore di condominio che non riesce a far quadrare i bilanci di fine anno che un leader politico. Il prode Calenda, nel frattempo, incurante del pericolo si candida a essere il prossimo segretario. Quando si dice una missione suicida. Ma anche questa riflessione (su cui sapete come la penso), sarà bene rimandarla a fine estate.
Come bisognerà che qualcuno si interroghi sul motivo per il quale mentre, come detto, gli italiani se ne fregano dei rubli, paiono molto più sensibili al caso Bibbiano. Una questione senza dubbio molto grave, ma di stretta rilevanza locale è diventata un caso nazionale, fino a toccare i già non brillanti piazzamenti del Pd nei sondaggi. Sarà mica perché in fondo questo Paese ragione ormai soltanto alla “pancia”? Non sarà che in fondo se tocchi i bambini l’Italia insorge sempre, mentre su qualche presunto finanziamento estero siamo da sempre pronti a chiudere un occhio, quasi fosse un peccato veniale?
In tutto questo va segnalata la brillante campagna social lanciata dal presidente dell’Emilia-Romagna, territorio in cui tutto si è svolto: “Una Regione vicina alle famiglie”. Non è uno scherzo. Poi non facciamo pensose riunioni per analizzare i motivi delle sconfitte elettorali.
Sarebbe bene, almeno nel mese di agosto non fare danni. Qua fa caldo, gli animi diventano infuocati in un istante. Meglio un tè freddo sotto l’ombrellone. Oggi, in realtà c’è la direzione del Pd. Gli italiani sono in fremente attesa, immagino. Intanto, come tutti gli anni, almeno il pippone va in vacanza, ci vediamo a settembre.
Primo: imparare di nuovo a fare l’opposizione.
Il pippone del venerdì/109
Da più parti, nelle svariate formazioni che si definiscono di sinistra, sento levarsi appelli a “costruire l’alternativa”. E sicuramente questa esigenza c’è. Sarebbe interessante discutere su questi temi con chi sta al 20 per cento e parla di vocazione maggioritaria, ma su questo abbiamo scritto e dibattuto a lungo. Sapete come la penso: per me la partita per governare questo Paese si può riaprire soltanto ridefinendo il campo della sinistra e disgregando l’alleanza di governo: se non si scioglie l’abbraccio Salvini-Di Maio siamo condannati a lottare per il secondo posto. E un campionato dove si sa già chi vince non è interessante, soprattutto se non sei la Juventus.
L’alternativa dunque per me si costruisce così. Un segnale interessante, in questo senso, è arrivato dall’Europa, dove i 5 stelle hanno votato insieme a popolari, socialisti e macroniani contro i sovranisti. Sarebbe bene mettere un cuneo dentro questa crepa e amplificare ogni giorno le contraddizioni nella maggioranza di governo, ma mi pare che siamo ancora ai pop corn di Renzi che, non a caso, interviene subito per spegnere ogni flebile fiammella: l’ipotesi di un’alleanza Pd-5 Stelle che torna a farsi strada sulle pagine dei giornali, per lo statista di Rignano “non è un colpo di genio, ma un colpo di sole”. Linea del resto subito sposata da Zingaretti e soci che hanno paura di fare la parte di quelli troppo intraprendenti. Restano possibilisti i vecchi democristiani alla Franceschini, altra scuola va riconosciuto.
Ma, dicevo, per me questo discorso è archiviato. Molto più banalmente in questo pippone di metà luglio, volevo parlare della necessità di imparare di nuovo a fare l’opposizione. Perché per poter essere percepiti come alternativa credibile a qualcosa, bisogna prima essere in grado di dare battaglia anche da posizioni di minoranza. Fare squadra, innanzitutto. Mettere insieme un po’ di parole d’ordine credibili, individuare il blocco sociale a cui ci si vuole rivolgere. Aprire un dialogo. Cosette semplici, in apparenza.
In realtà a me sembra che i gruppi dirigenti della sinistra dispersa siano un po’ come i pugili suonati, quelli che non riescono a riprendere lucidità tra un cazzotto e l’altro e si possono salvare soltanto se suona la campana per tempo. Peccato che qui i pugni arrivano senza soluzione di continuità e i Ko, malgrado ogni volta si trovi qualche motivo per esultare, si susseguono, elezione dopo elezione, regione dopo regione, comune dopo comune. Forse sono soltanto io che li vedo così, ma mi sembra che non ne azzecchiamo una manco per sbaglio. Intanto scegliamo sempre il campo che l’avversario preferisce: immigrazione, difesa dei diritti civili. Tutti temi che non possiamo lasciare alla propaganda leghista, ci mancherebbe, ma non possiamo parlare e fare manifestazioni solo sugli sbarchi dei clandestini o scandalizzarci per gli sgomberi delle case occupate (sempre dai nostri salotti, ci mancherebbe).
Un esempio lampante della nostra incapacità ormai conclamata di fare opposizione è stato l’incontro fra Salvini e le forze sociali. A me sembra evidente che quando ti convoca il vicepresidente del Consiglio tu ci vai, ascolti e poi ovviamente dici la tua. Non sta al sindacato stare a sindacare sulla qualifica che ha Salvini e sulla legittimità della convocazione. Per te è il numero due del governo e il leader del primo partito in Italia, non puoi sfuggire al confronto. Poi devi avere la schiena dritta, ma questo non mi pare possa essere contestabile a Landini. A sembra evidente anche che si trattava di una occasione ottima per sparare a pallettoni su un governo dove manco si capiscono più i ruoli e il ministro dell’Interno fa anche le parti di quelli del Lavoro e dell’Economia. Un’opposizione attenta avrebbe colto la palla al balzo per aprire ancora di più quelle crepe di cui parlavo sopra. E invece no: tutti a sparare su Landini che non doveva andare all’incontro. Pura follia. Se non ci fosse andato gli stessi avrebbero sentenziato su quanto era vecchio e barricadiero questo sindacato che rifiuta il confronto. Accetto scommesse.
Io capisco che non sia facile perché l’alleanza Lega-5 Stelle mi sembra una specie di tutto compreso: fanno benissimo sia la parte del governo che quella dell’opposizione, a giorni alterni. Si scannano pubblicamente e intanto trattano fra di loro. Alla fine, dopo aver magari trovato qualche tema su cui sviare l’attenzione, si accordano e vanno oltre. E noi abbocchiamo. Oppure rinviano il tema a tempi migliori. Intanto l’Italia continua il suo declino inesorabile e le tensioni sociali non scoppiano. O meglio: non c’è un’opposizione in grado di incanalare le tensioni che pur esistono e trasformarle in un movimento di protesta vero. Questa sarebbe la fase due, dopo aver ripreso a fare l’opposizione. Noi siamo ancora al punto zero. Quello del meglio stare zitti.
Altro esempio: la vicenda Alitalia. Ora, a parte l’inversione a U alla quale è stato costretto Di Maio per il quale una quindicina di giorni fa era impensabile la partecipazione dei Benetton perché Atlantia era un’azienda decotta che avrebbe trascinato verso il baratro anche Alitalia e adesso, invece, è diventato un partner industriale essenziale nella cordata guidata da Fs, a parte questo dicevo, ma qualcuno sta provando a capire cosa succede davvero, ad esempio dal punto di vista dell’occupazione? Di quale piano industriale si parla? I lavoratori non dovrebbero essere una componente essenziale del nostro blocco sociale? Stessa cosa succede all’Ilva, dove salvo sporadiche eccezioni i leader della sinistra non mettono più piede.
Basterebbe tutto questo? Come accennato l’opposizione andrebbe fatta vivere nelle tensioni sociali, usata come propellente per ricostruire quella base di consenso che adesso ci manca. Si preferiscono sparute assemblee nei teatri romani. Che poi, essendo metà luglio passata, anche la scelta delle location è significativa della nostra collettiva capacità di farci del male. Ecco, in questo non ci batte nessuno davvero.
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