Il taglio dei parlamentari, fuffa dannosa per le istituzioni
Il #pippone del venerdì/116
Intanto una nota auto celebrativa: in tanti hanno criticato il mio paragone fra Renzi e Bertinotti della settimana scorsa, ma a giudicare dalle cronache politiche di questi giorni era più che azzeccato. La strategia è la stessa, di questo si parlava, non dei temi portati avanti su cui c’è una certa distanza: tenere sulla corda il governo in maniera da acquisire visibilità, questo il tratto che accomuna i due. Del resto in Italia funziona così, sui giornali finiscono per lo più gli spunti polemici. E in questo Renzi è davvero bravo, una specie di tarlo che ti rosicchia i mobili di casa. Se non si interviene subito si rischia di trovarsi con un mucchietto di segatura in mano.
Detto questo, la notizia della settimana è sicuramente il taglio dei parlamentari. Con tanto di show dei cinque stelle, schierati in parata davanti a Montecitorio con forbici e striscioni. Una festa senza popolo, vale la pena sottolinearlo. A cosa serva eliminare 345 fra senatori e deputati non è ben chiaro. Non si velocizza l’iter delle leggi, non si garantisce maggior funzionalità alle Camere. Si realizza un modesto risparmio annuo, penalizzando al tempo stesso la rappresentanza. Pd e Leu hanno dovuto inghiottire il boccone e hanno detto sì, dopo aver fatto il contrario per ben 3 votazioni di fila.
Ora, niente di male, in politica si accettano compromessi per raggiungere i propri scopi. Chi dice il contrario mente spudoratamente. Anzi, spesso quelli che appaiono duri e puri sono i primi a brigare sottobanco per avere qualche strapuntino in più. Andrebbe ammesso che si tratta del prezzo pagato per arrivare alla formazione del Governo. Invece si assiste ad affannose arrampicate sugli specchi per cercare improbabili motivazioni al cambio di rotta. Ho letto perfino qualcuno che spiega come fosse giusto tagliare i parlamentari perché rispetto a quando furono decisi gli attuali assetti le distanze si sono ridotte e quindi ora servono meno rappresentanti. Se questo fosse il ragionamento tanto vale allora riunire le camere in videoconferenza, si risparmia anche di più.
In realtà, quel numero di deputati e senatori garantiva allo stesso tempo la rappresentanza di tutti i territori e delle minoranze. Se si voleva risparmiare forse sarebbe stato meglio tagliare i compensi a parlamentari e consiglieri regionali, il segnale sarebbe stato decisamente più forte. Invece così una riforma che passa per essere anticasta rischia di ottenere l’effetto contrario: collegi più grandi e liste bloccate restringono ancora di più il campo di chi può davvero puntare all’elezione. Le alternative sono due: o sei molto popolare o hai tanti fondi. Insomma avremo una supercasta blindata da campagne elettorali complicatissime.
Da qui, almeno, l’esigenza di rimettere mano alla legge elettorale. Si discute molto anche di questo, pur essendo argomento che interessa all’uno per cento del Paese. Con i numeri attuali dovrò rivedere anche le mie convinzioni, il doppio turno alla francese che da sempre prediligo rischia di diventare un bagno di sangue e portare in parlamento soltanto i tre schieramenti principali.
E questo è l’altro equivoco che viviamo dalla fine degli anni ’90 del secondo scorso. Da quando, cioè, si cerca di modificare il sistema politico con leggi elettori che garantiscano – nelle intenzioni di chi le teorizza – governabilità o meno frammentazione. Il risultato è che i governi continuano a cambiare e i cosiddetti partitini sono addirittura aumentati. Anche quando abbiamo sperimentato sistemi più o meno maggioritari sono nate coalizioni dentro le quali hanno trovato spazio liste e listarelle varie. Dai pensionati, ai cacciatori, al movimento delle casalinghe. Tutti poi a rivendicare, una volta vinte le elezioni, almeno un sottosegretario in forza del loro contributo, minimo ma essenziale.
Segno che il tentativo di modificare il quadro politico attraverso sbarramenti vari funziona fino a un certo punto. Io resto convinto che – del resto lo stabilisce anche la costituzione – la legge elettorale debba garantire una rappresentanza parlamentare il più possibile vicina alle percentuali ottenute dai partiti nelle urne. E’ fondamentalmente giusto che uno possa votare il partito in cui si riconosce senza bisogno di turarsi il naso. Il Parlamento, secondo me, dovrebbe essere una fotografia il più possibile particolareggiata della situazione del Paese.
E’ ovvio allora che, data la situazione attuale e la riduzione del numero dei rappresentanti, l’unica strada per ottenere questo risultato sarebbe il proporzionale puro. Senza sbarramenti: anche chi prende il 3 per cento ha diritto a un seggio in parlamento. Si tratta pur sempre di un milione di persone. E la governabilità? La stabilità? Io credo sia un falso mito. Lo ripeto: abbiamo sperimentato negli ultimi vent’anni, tutte le leggi elettorali possibili, ma i governi cambiano, le maggioranza si modificano e si capovolgono nel giro di qualche mojito.
Altro ragionamento sarebbe modificare la forma di governo. E quindi pensare al superamento della Repubblica parlamentare per arrivare a un cancellierato o a un sistema semi-presidenziale. Temo però che sia meglio soprassedere: non mi pare che nell’attuale classe dirigente ci siano gli statisti in grado di ridisegnare il sistema costituzionale così in profondità. Quando ci abbiamo provato negli anni scorsi, con la riforma del titolo V, ad esempio, non è andata proprio bene, diciamo. E allora meglio un proporzionale classico, magari con circoscrizioni non enormi, che garantisca il diritto dei cittadini a scegliere i propri rappresentanti. Meglio una riforma soft, che lasci spazio alla politica e alle alleanza costruite sugli effettivi pesi elettorali, che i sistemi traballanti di cui si sente parlare. Meno fanno, meno danni si producono.
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