Il pippone del venerdì/14
Di tatticismo si muore, Articolo Uno rompa gli indugi

Giu 9, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì






Mentre in Gran Bretagna i laburisti, con un programma di sinistra, guadagnano seggi per la prima volta dal 1997, in Italia quelli che sono sempre stati in vita loro in un partito del 3 per cento, spiegano a D’Alema come non fare un partito del 3 per cento. Sullo sfondo l’ennesimo disastro renziano: salta l’accordo sulla legge elettorale, il voto segreto fa emergere tutta la doppiezza dei grillini. Che saranno anche gli apriscatole del Parlamento, ma poi, quando si trovano a dover decidere, si comportano come la peggiore Democrazia cristiana: comandano le correnti. Succede nelle amministrazioni locali, dove non v’è traccia della trasparenza e della partecipazione dei cittadini. Succede alla Camera dove fanno finta di fare l’accordo e poi lo bruciano con manine che dovevano restare segrete e, invece, sono apparse sul tabellone elettronico di Montecitorio. Ma tutto questo è cinema. Torniamo al filone principale.

Ora, dicevamo la settimana scorsa: la sinistra guadagna voti quando fa il lavoro suo, difende i deboli, elabora programmi di riscatto sociale, parla ai lavoratori, agli studenti, ai pensionati. E’ successo in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Francia. Succede proprio in queste ore in Gran Bretagna. Il vecchietto Corbyn che tutti davano per defunto prende il 40 per cento. E allora come prendere voti e tornare a contare qualcosa anche in Italia? La risposta è facile. Copiamo dal resto del mondo. E invece no. Da settimane ci stiamo lambiccando sulla formula da adottare: rifare la sinistra, rifare il centro sinistra, no serve un sinistra centro. Ma poi ci mettiamo il trattino o no? Serve un centro-sinistra discontinuo. Sì, ma niente ammucchiate arcobaleno. E questa, lo dicevamo in apertura, è la più bella.

Andiamo con ordine. Che succede nel 2008? Caduto il governo Prodi, anche grazie ad alcune uscite improvvide sulla vocazione maggioritaria del Pd da parte del segretario Walter Veltroni, il Partito democratico decide che il centro-sinistra che aveva vinto le elezioni precedenti non serve più e che alle elezioni andrà da solo. Uno scontro frontale con Berlusconi. Bertinotti, allora leader di Rifondazione comunista, la principale formazione a sinistra dei democratici, dice che va bene e dà vita alla sinistra arcobaleno, raggruppando tutti i frammenti di quella variegata galassia: dai vari partiti comunisti, a quella parte dei vecchi Ds che non aveva aderito al Pd, ai verdi. Non aveva calcolato, il rivoluzionario dei salotti bene di Roma, due cose. La prima: andare alle elezioni con un simbolo nato dal nulla pochi mesi prima non era una grandissima idea. La seconda: il maggioritario tende a polarizzare lo scontro fra i due contendenti principali. Morale della favola la sinistra arcobaleno rimase fuori dal Parlamento e iniziò una lunga traversata nel deserto. Una batosta dalla quale, pur con risultati meno disastrosi,  non si è più ripresa: la diaspora è proseguita, le aggregazioni che si sono succedute negli anni sono sempre state accordi fra gruppi dirigenti, lontani dagli scontri veri in atto nel paese.

Che succede da qualche mese a questa parte? Qual è la vera novità? Che un pezzo di gruppo dirigente del Pd abbandona Renzi, dice che quella non è più la sua casa, troppo personalismo, troppi elementi di destra nell’azione del governo e dice: tocca ricostruire un soggetto politico plurale e unitario al tempo stesso, che possa dare rappresentanza a tutto quel popolo che non sa più chi votare. E si è rivolto perfino, negli ultimi anni, a un movimento populista e demagogico come i 5 stelle. Come fare? Ripartiamo dal basso. Insomma, le tesi che da qualche anno, non da solo, provo a sostenere. Chi ogni tanto legge le mie farneticazioni, lo sa bene cosa intendo: vedo la sinistra come tante isole disperse nell’oceano. Non parlo tanto delle tante (troppe) sigle di partiti e partitini, ma della sinistra diffusa, delle associazioni, dei movimenti. Di tutte quelle esperienze di resistenza sociale che, nel vuoto della politica, hanno tenuto duro in questi anni. E non hanno rappresentanza. Facile? Tutt’altro.

Non è per niente un compito facile. E diventa ancora più complicato se ci mettiamo a fare l’analisi del Dna a ciascuno di noi. A rispondere “no tu no” a chi dice “vengo anche io”. I veti reciproci, il rinvangare errori di vent’anni fa, non ci porterà da nessuna parte. Ora si parla di un nuovo Ulivo, di un nuovo centro sinistra, chi è stato protagonista della stagione della sinistra arcobaleno parla con terrore di quella esperienza. E lo venite a dire a noi? Guardate che abbiamo ben chiaro che non serve la somma delle siglette della sinistra. Non serve un’operazione di conservazione di ceto politico. Bisogna parlare a quelle mille isole disperse, bisogna dirgli che devono uscire dal guscio, che devono mettersi in gioco direttamente. Non delegare a una classe dirigente stanca e usurata dalle sconfitte, ma farsi classe dirigente in prima persona. Non aspettare che noi ricostruiamo una casa dove anche loro possano riconoscersi, ma costruirla insieme. Altro che sinistra arcobaleno, altro che somma di partitini inesistenti. Esperienze di questo genere, questa rincorsa minoritaria, non sono nel nostro Dna. Diciamolo una volta per tutte: non si prendono lezioni da chi in formazioni irrilevanti ha passato gran parte della sua storia politica. Che ognuno faccia i conti  con la sua storia, con le sue sconfitte e le sue vittorie.

Il punto da cui partire, la base comune, non può che essere, a mio avviso che uno: applicare la Costituzione italiana. Io credo che dire il nostro riferimento è il no al referendum del 4 dicembre, sia insufficiente. Intanto perché chi ha votato sì con molti mal di pancia, per mera disciplina di quello che all’epoca era il suo partito, non può essere crocifisso nei secoli a venire. Ma anche perché non si parte da un no, non ci si definisce per contrarietà. “Noi siamo quello che non vogliono”. Capite la debolezza di questa frase? Noi siamo quelli che, dopo un referendum che ha salvato la Costituzione da un attacco senza precedenti, ora vogliono farla vivere, vogliono che i principi scritti nella prima parte della Carta diventino azione politica quotidiana. Credo sia una prospettiva più solida, più attrattiva.

Punto secondo: le diseguaglianze. Io resto convinto della necessità di superare il capitalismo. Sarò vintage, ma sono rimasto legato alla prospettiva indicata da Togliatti prima e Berlinguer poi. Le libertà democratiche, i diritti civili e sociali, dicevano, sono nulla, diventano parole vuote, se non ci si aggiunge una libertà più importante, la libertà dal bisogno, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nel paese che ha accumulato negli ultimi vent’anni più diseguaglianze che nel resto d’Europa messa insieme, queste frasi sono fondamentali, la parola “uguaglianza” assume una valenza rivoluzionaria. E quindi lavoro, investimenti, sanità di qualità per tutti, una scuola pubblica più forte e più democratica. Non so se sono parole vecchie, antiche dice qualcuno. A me sembra che siano di gran moda in tutto il mondo.

Ultima notazione, la vicenda del leader di questo schieramento. Un sondaggio apparso nei giorni scorsi sul Fatto Quotidiano, attribuisce a una forza unita della sinistra percentuali intorno al 10 per cento. Con punte del 16 a seconda del leader. Saviano, per dirne uno, è quello che attira più consensi, a seguire Rodotà e Bersani. Io credo sempre che, più che sulla ricerca di una figura carismatica, dovremmo concentrarci di più su cosa vogliamo fare e metterci a farlo. Casa per casa. Poi le formule verranno da sole e i leader cresceranno. Alcuni errori, però, vanno evitati con accuratezza.

1) Basta con i tatticismi politicanti. Non ci capisce nessuno se ci definiamo in maniera differente a seconda del modello elettorale in voga durante la settimana. Credo che sia persino insufficiente e fuorviante definirsi come forza “alternativa” al Pd. Perché una forza non si definisce in relazione ad altri. Quella che dobbiamo costruire non è una forza alternativa a qualcuno, ma una sinistra autonoma, dal punto di vista culturale innanzitutto.

2) No al raggruppamento dei reduci. In queste settimane abbiamo dato tutti un’occhiata ai nomi che girano e che garantirebbero, nella mente di chi li fa filtrare, un profilo del tipo ulivista alla nuova formazione politica. Da Prodi, a Tabacci, a Letta. Fino a De Mita che le cronache danno in fase di grande attivismo. Tutte figure significative che hanno avuto un ruolo importante nella nostra storia. Ed è positivo sapere che ci guardano con attenzione. Ma non possono essere il nostro riferimento. Anche perché poi lo stesso Prodi ci fa sapere che si è accampato con la tenda e aspetta. Non si sa bene cosa. Noi di tutto abbiamo bisogno meno che di gente che aspetta.

3) Nessuno pensi che basta definirsi leader per esserlo. Lo dicono proprio i sondaggi. Non basta avere il via libera da parte di qualche salotto buono. Neanche se di quel salotto fanno parte editori, capitani d’industria e importanti intellettuali. Quando si va a votare, il loro voto sempre uno conta. Il leader, o meglio il gruppo dirigente si sceglie con un processo di partecipazione. Primarie, assemblee diffuse, decidiamolo insieme.

4) Basta con le posizioni dette a metà. Dobbiamo essere netti. Diritti: bisogna reintrodurre l’articolo 18. Punto, senza mediazioni a monte. Scuola: abolire questa vergogna dell’alternanza scuola lavoro. Tasse: paghino i ricchi, noi abbiamo già dato. Guardate che i Melenchon, i Corbyn i voti lo hanno presi così. Fra i giovani, mica fra i sessantenni.

5) Basta con le convocazioni in contrapposizione: prima si fa l’assemblea di quelli del No, poi si fa quella di Pisapia e soci. Articolo uno, che nasce proprio con la vocazione di riannodare i fili spezzati, non può essere semplice spettatore, infrastruttura a disposizione come dicono alcuni con un’espressione orribile. No, tutt’altro. Dobbiamo essere noi il motore della barca. Dobbiamo fare il giro delle isole, non aspettare che si spostino da sole.

 








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