Questa volta non mancano le risorse.
Il pippone del venerdì/149
Quante volte abbiamo sentito dire “mancano le risorse” quando si tratta di finanziare un progetto o un’opera? Ho perso il conto. Ora, mediamente si tratta di una balla, viviamo in uno dei paesi più ricchi del mondo e le risorse le abbiamo, si tratta sempre di decidere a cosa destinarle, quali sono le priorità. E negli ultimi 20 anni almeno, non si sono mai trovati soldi per la sanità, per la scuola, per la ricerca. Ma anche facendo finta di credere a chi ti ha sempre risposto che “mancano i soldi”, adesso le risorse ci sono. Con l’accordo sul fondo europeo per la ripartenza l’Italia avrà a disposizione oltre 200 miliardi, escludendo il Mes sul quale il dibattito pare ancora lontano dall’arrivare a una conclusione. In parte, come è noto, si tratta di un contributo a fondo perduto, il resto è un prestito a tasso molto conveniente per un Paese come il nostro che ha scarsa credibilità sui mercati finanziari e che quindi quando emette titoli paga il denaro molto caro.
E 200 miliardi sono una bella dotazione. A patto che non vengano dispersi in mille rivoli, con le solite mance all’italiana.
Nelle settimane scorse il governo ha presentato alle parti sociali il suo piano per rilanciare il Paese. Un piano che contiene molti spunti condivisibili, altri meno (penso al sempre verde ponte sullo stretto di Messina).
Io credo che serviranno investimenti mirati, non ad esempio una generale riduzione delle tasse, che non portebbe a un automatico aumento dei consumi, ma al massimo del risparmio. Provo a dire alcuni ambiti di possibile investimento.
Intanto le opere pubbliche. Che sono da sempre il più grande moltiplicatore di investimenti. Lo diceva Keynes, un liberale, non un pericoloso comunista. Non credo che servano grandi opere in senso classico, ma investimenti mirati sul trasporto pubblico su ferro, sulla manutenzione del territorio, sulla digitalizzazione del Paese. Opere che servono a renderci più competitivi.
Poi ci sono istruzione, sanità e ambiente. Su questi tre filoni credo che debba andare la massima attenzione del governo. In sostanza, per essere breve, sono le chiavi per garantire un futuro all’Italia senza doversi sempre affidare al classico stellone nostrano.
Da non dimenticare tutto il capitolo delle riforme. Ora, dopo la stagione che va da Monti a Renzi fino al primo governo Conte, gli italiani quando sentono parlare di riforme tendono a blindare il didietro. Sarebbe il caso di farli ricredere. Di dimostrare che una seria riforma del mercato del lavoro può essere fatta a partire dai diritti, che vanno attualizzati ed estesi a tutti, non contro i lavoratori, che una seria riforma della pubblica amministrazione non deve per forza generare norme cervellotiche che vanno ad arricchire le agenzie di servizi e che causano nella miglior delle ipotesi un gran mal di testa al cittadino comune.
Per non parlare della giustizia. L’indeterminatezza del diritto in Italia è uno degli aspetti che più allontana gli investitori stranieri insieme all’instabilità del sistema politico. Perché chi investe ha bisogno di avere certezze, di sapere cosa è consentito e cosa è vietato. E soprattutto ha bisogno di sapere che in caso di contenzioso l’esito arriverà in un tempo compatibile con la sua aspettativa di vita. Quindi norme semplici, che, lo ripeto, non vuol dire assenza di regole, ma l’esatto contrario e applicazione rigorosa delle stesse norme.
Sono soltanto alcuni titoli, mi rendo conto. Ma faccio il giornalista e posso soltanto indicare i temi. Serve un lavoro collettivo per passare dai titoli ai contenuti. Un lavoro che coinvolga le forze sociali, alle quali non si può semplicemente presentare un documento finito, devono partecipare all’elaborazione del piano.
E serve sopratutto il coinvolgimento di tutte le forze politiche. I Paesi seri, nei momenti di emergenza fanno così. Lavorano tutti insieme. Non credo basti un semplice vertice fra maggioranza e opposizione. Il confronto deve essere pubblico e ampio. Un luogo dove possa aver luogo c’è, è quello naturale, il Parlamento. A patto che il passaggio dall’esecutivo all’assemblea non rappresenti il classico assalto alla diligenza a cui si assiste da sempre in occasione delle manovre economiche. Al contrario deve essere un’assunzione collettiva di responsabilità. E un passaggio parlamentare non soltanto è necessario per ridare centralità alla democrazia dopo il lungo stop imposto dall’emergenza. E’ necessario anche per rafforzare la posizione italiana nei confronti dei partner europei.
Al di là della eccessiva consuetidine con la polemichetta quotidiana che affligge la nostra classe politica, va ammesso che Conte ha portato a casa un risultato che in pochi avrebbero pronosticato. Averla spuntata sugli eurobond, ovvero sulla ripartizione fra tutti i paesi delle spese necessarie alla ripresa, è una svolta epocale, perché mette chi è più debole dal punto di vista dei mercati al riparo dagli affamati speculatori che già pregustavano di fare man bassa dei pezzi pregiati della nostra economia. Vuol dire in sostanza che il debito italiano, almeno in parte, diventa un debito europeo.
Non è poco, ma adesso dobbiamo dimostrare che questa apertura di credito non è un salto nel buio. E questo si fa a partire da un piano solido sostenuto da un ampio consenso, sociale e politico.
La finisco qui. Questo dovrebbe essere l’ultimo pippone prima delle vacanze, scritto con gli occhi stanchi di chi ha bisogno di staccare la spina dalle preoccupazioni di ogni giorno. E quindi dovrei dirvi: ci vediamo a settembre, ricaricatevi. Ma lascio la questione in sospeso, c’è una storiella di voucher e di rimborsi che solletica il mio istinto predatorio. Non disperate.
Le autostrade e i monopoli privati da scardinare.
Il pippone del venerdì/148
Quello della gestione delle autostrade e del ruolo della famiglia Benetton è stato sicuramente il tormentone della settimana, se non degli ultimi mesi. La conclusione non è ancora arrivata, quando si conosceranno i dettagli e l’accordo diventerà operativo se ne potranno valutare costi, rischi e benefici. Di certo si può dire che si è trovata una soluzione che, in apparenza, raggiunge il risultato voluto, riportare una buona parte delle autostrade italiane sotto il controllo pubblico, evitando gli effetti negativi che una eventuale revoca avrebbe provocato. Intanto si sarebbe mandata gambe all’aria una società che avrà anche tutte le colpe del mondo, ma non ha come unico azionista la famiglia Benetton, famiglia che in questo periodo, nell’immaginario collettivo, è diventata un po’ il simbolo del capitalista cattivo, che guadagna dalle debolezze dello Stato e poi se ne approfitta pure. Ci sono fondi di investimento, fondi pensione, migliaia di riparmiatori che avrebbero avuto la peggio, questa volta senza alcun omblrello protettivo.
Altra certezza è che il crollo del ponte Morandi, con il suo carico di vittime, doveva portare necessariamente a un cambio di gestione.
Si è arrivati a una soluzione in apparenza indolore, dove il pubblico entrerà grazie a un aumento di capitale e quindi senza nessun guadagno automatico per i vecchi proprietari, senza i traumi che una eventuale revoca della concessione avrebbe inevitabilmente provocato. Per garantire sicurezza e al tempo stesso continuità nella gestione di infrastrutture nevralgiche e complesse come le autostrade senza una società preparata e dotata delle professionalità necessarie. Poteva essere Anas Sicuramente ne avrebbe avuto le capacità tecniche, ma sarebbe servito un periodo di rodaggio che forse non avremmo potuto sopportare.
Restano alcuni punti da chiarire. Intanto, di fatto, lo Stato diventato concessionario di se stesso. In pratica investe, probabilmente attraverso Cassa depositi e prestiti, in una società che è titolare di una concessione pubblica. E questa situazione sicuramente ha dei lati oscuri. Intanto il sistema dei controlli. Nel crollo del ponte di Genova avrà sicuramente le sue responsabilità la società di gestione, ma anche chi non ha controllato a dovere. Cambierà qualcosa avendo il controllo pubblico della gestione?
Ora, non è che un sistema pubblico funziona automaticamente meglio o peggio di uno privato. Si tratta semplicemente di stabilire i ruoli che gli attori economici e lo Stato devono avere. Nel mio piccolo, con le poche reminiscenze di economia che mi derivano dall’ormai lontana università, resto convinto che le situazioni di monopolio naturale debbano essere saldamente in mano al pubblico. Per due ragioni. Intanto perché il sistema privato, in una società di natura capitalistica, può funzionare soltanto in regime di concorrenza. E anche in quel caso, per un socialista come me, sarebbe bene che, almeno, si muovesse dentro un sistema di regole certe e controlli ferrei.
Ma poi perché, lo ribadisco ancora una volta, le reti strategiche di una nazione non possono essere soggette al mercato. Si dice, beh ma in realtà le autostrade non sono neanche un monopolio perché sono soggette alla concorrenza di treni, aerei e navi. In realtà di tratta di sistemi di mobilità di natura profondamente differente e in molti casi neanche alternativi, complementari semmai. E poi bisogna anche valutare l’enorme quantità di mobilità che, in Italia almeno, si svolge su gomma. Non che questo sia un dato immutabile sul quale non si possa intervenire, ma la situazione data è questa.
Speriamo, dunque, che una grande tragedia possa portare a ridefinire la strategia pubblica nei confronti delle reti.
Ultimo punto: Goffredo Bettini, autorevole dirigente del Pd che in molti indicano come l’ispiratore della linea di Zingaretti, ha detto con parole chiare che questa vicenda segna un deciso cambio di atteggiamento della sinistra che non si piega più di fronte ai poteri forti, che poi in Italia sono poche grandi famiglie che continuano a dominare lo scenario economico. Non so se sia semplicemente un modo elegante per capitalizzare politicamente questa vicenda. Né è ben chiaro chi fosse il bersaglio della critica di Bettini. Di certo si tratta, al di là della semplificazione necessaria in un’intervista, di un’evoluzione importante nel pensiero del principale partito della sinistra moderata. Sarebbe il caso che questa linea si applicasse a tutti i campi, a partire dal mercato del lavoro.
Speriamo che si segua su questa strada, quella del ritorno del ruolo dello Stato come attore economico nei settori che si ritengono strategici per lo sviluppo del Paese.
Certo, questo comporta anche un ritorno alla definizione di una strategia a lungo termine, non soggetta agli umori dei sondaggi settimanali. E su questo permettetemi di mantenere, diciamo così, almeno qualche dubbio. Si potrebbe ripartire, ad esempio, con il dare seguito al referendum sull’acqua pubblica o sarebbe chiedere troppo?
Nell’attesa la finisco qui, un pippone estivo non può prescindere dalle gocce di sudore che, anche all’alba, tendono ad annebbiare le idee e la vista. Un’altra settimana è passata: si va verso le vacanze, seppur con mascherina e amuchina al seguito.
Berlusconi santo subito.
Il pippone del venerdì/147
Ora, diciamolo, le temperature di questi giorni invitano più ad andare al mare che a mettersi di fronte a un computer per ragionare. E la tentazione di rinviare ulteriormente questo appuntamento settimanale è stata forte. Del resto, succede sempre arrivati a questo punto dell’anno, si comincia a provare un bisogno di distaccarsi dalle vicende quotidiane, che dal canto loro, nella pochezza della vita politica nostrana, non aiutano davvero. Quest’anno, malgrado l’emergenza coronavirus, non fa eccezione. La scarsa qualità complessiva della nostra classe dirigente emerge forse ancor di più proprio in virtù della situazione eccezionale. Che ci si metta a discutere delle presidenze delle commissioni parlamentari a metà luglio, con il Paese in mezzo a una crisi senza precedenti, la dice lunga. Ma questa è un’altra storia, che, diciamolo, non vale la pensa di una sudata davanti al pc.
Una riflessione, secondo me, vale la pena di farla su questa storia della persecuzione contro Berlusconi. Sarà breve, non temete. La vicenda è nota, ma la sintetizzo per dovere di cronaca. Spunta fuori dal cilindro di un prestigiatore mediocre una registrazione di una conversazione tra un magistrato della Cassazione e Berlusconi stesso. E’ di qualche anno fa. Il tema è la condanna del leader di Forza Italia. In sostanza il magistrato parla di una sorta di grande complotto che sarebbe stato ordito per pilotare quella sentenza (in realtà sono tre, una per ogni grado di giudizio) ed eliminare lo scomodo personaggio dalla vita politica italiana. Quella registrazione, sostengono i legali di Berlusconi, viene fatta trapelare soltanto ora per rispetto verso il giudice, allora ancora in servizio, che sarebbe stato sicuramente danneggiato da quelle parole. Viene da chiedersi perché farla uscire adesso allora: soltanto per amore di verità? Quella vicenda è ormai conclusa, Berlusconi è sempre al suo posto, non è stato nelle aule parlamentari per qualche anno, ma alla fine non pare che ne abbia risentito più di tanto. Il suo declino è dovuto più all’età che avanza anche per lui, che al lavoro dei magistrati del quale gli italiani non hanno mai tenuto gran conto nel dare il loro voto.
Viene il sospetto che sia stata tirata fuori adesso soltanto perché si tratta del momento più basso per la credibilità della magistratura italiana. E’ come un incastro perfetto nel puzzle che si sta costruendo con un processo di demolizione non dell’autorevolezza di un singolo magistrato, ma di tutto il sistema. Già che ci siamo, sembra di leggere tra le righe, avviamo anche il processo di santificazione del Berlusconi. Almeno per Craxi hanno aspettato che passasse qualche anno dalla morte, qua invece si parte con il protagonista ancora in vita. Meglio portarsi avanti con il lavoro, visto che il momento è propizio. Ora, si potrebbe ribaltare il ragionamento parlando di tutte le sentenze di prescrizione ottenute dall’anziano leader grazie al certosino lavoro di stuoli di avvocati, ma non è questo il livello di ragionamento che mi interessa affrontare. Berlusconi non può essere santo né ora, né fra vent’anni, non tanto per le sue vicende giudiziarie, sulle quali evito come sempre di intervenire, ma per quello che ha rappresentato nella storia d’Italia negli ultimi decenni.
Per la cultura del disprezzo delle regole, per l’opera di destrutturazione che ha sapientemente avviato e portato a termine nella nostra società, per aver governato questo nostro Paese facendo leva sulle divisioni, aizzando i poveri contro i più poveri, disprezzando la Costituzione e agendo da motore primo di quel populismo che alla fine ha finito addirittura per travolgerlo. L’eliminazione prima dei partiti, poi di tutti i corpi intermedi, l’avversione per le regole democratiche, nasce tutto da lì, da quella discesa in campo che già nella libreria di cartone alle sue spalle non prometteva davvero nulla di buono.
E’ stata la personificazione della parte peggiore del nostro Paese. Per arrivare al potere ha solleticato le nostre fobie, dato spazio alla nostra parte peggiore, quella che cerca sempre una scorciatoia e passa sopra le regole per arrivare al risultato desiderato. Detta in breve è stato la voce dell’Italia peggiore che ha finito per travolgere ed emarginare le energie migliori di questo Paese.
Per questo non può essere né santo né, tanto meno, uno statista. E il giudizio non può cambiare per una sentenza. Certo, il nostro sistema giudiziario fa acqua da tutte le parti, per la lentezza dei processi, perché le nostre aule di tribunale sono ferme all’800. Forse anche per la scarsa preparazione di parte della magistratura. Che ci siano maneggioni anche fra i magistrati, del resto, non dovrebbe essere una sorpresa per nessuno. Non si vede proprio perché, dopo decenni in cui è stata esaltata la furbizia al posto dell’intelligenza, la capacità di arrangiarsi al posto del merito, la magistratura dovrebbe essere un’isola felice, avulsa dal contesto del Paese. Un contesto di cui, non da solo, è responsabile in primis proprio Berlusconi, quello che oggi taluni vorrebbero dipingere come vittima di un sistema che ha contribuito a creare con la sua opera culturale e politica. Ma del resto, non ho dubbi, in questo Paese a memoria ultracorta passerà anche la nuova immagine del Berlusconi immacolato e santo. Meglio il mare.
Due o tre cose che vorrei dire al signor Ichino.
Il pippone del venerdì/146
Per fortuna che scrivo questo mio pippone una volta a settimana e quasi sempre mi guardo bene dall’entrare nella stretta attualità, altrimenti sarebbe spesso pieno di imprecazioni. Quelle che ho pensato quando ho letto l’ennesima sparata del signor Pietro Ichino contro i lavoratori. In un’intervista recente con Libero, l’esimio giuslavorista, politico eccetera eccetera, ha sentenziato che il lavoro agile per i dipendenti pubblici è stato “nella maggioranza dei casi una vacanza pressoché totale, pagata al 100 per cento”. Ora, intanto, se io fossi stato l’intervistatore – mestiere molto difficile – avrei magari provato a chiedere spiegazioni, su quali dati si basasse questa sua sentenza così definitiva. E, magari gli avrei anche chiesto spiegazioni sul perché parlasse soltanto dei dipendenti pubblici e non di quelli privati. Perché detta così farà anche effetto, ma si tratta di un’affermazione basata sul nulla.
Del resto il prode Ichino non è nuovo a simili intemerate, che hanno come unico risultato quello di alimentare una sorta di odio sociale nei confronti di chi lavora nel pubblico, un odio ben sedimentato nella società italiana. Era ancora il 2008 quando Ichinò definiti con l’amabile termine “nullafacenti”, i lavoratori pubblici, seguito a ruota dall’allora ministro Brunetta che non aspettava altro. Ne derivò, va ricordato, una riforma della pubblica amministrazione che non solo ha smantellato pezzi importanti della stessa, ma ha dato, in molti campi, meno diritti ai lavoratori pubblici rispetto a quelli privati. Ma questa è un’altra storia. Procediamo con ordine.
In premessa, ricordiamo che la pubblica amministrazione durante tutta la fase di emergenza ha continuato a lavorare. Non si è mai fermata mai, garantendo servizi essenziali per i cittadini. E se ci sono stati rallentamenti non hanno nulla di differente rispetto a quello che è successo nell’intera società itlaiana.
Ancora in premessa, va detto che questa divisione del mondo dei lavoratori dipendenti che mette in contrapposizione il pubblico cattivo contro il privato buono pare anche un po’ datata. Anche perché, Ichino lo sa benissimo ma fa finta di nulla, dei circa 3 milioni di lavoratori pubblici che abbiamo in Italia, circa due terzi lavorano in sanità, forze armate e scuola. Sono stati in vacanza, signor Ichino?
L’altro terzo ha garantito ai cittadini quei servizi che svolge quotidianamente, spesso con un sovraccarico rispetto al normale, anche affrontando una situazione del tutto inedita: il lavoro agile nel nostro Paese è stato introdotto di recente, nell’ultimo contratto, se non ricordo male, e fino alla chiusura totale è stato applicato in maniera assai ridotta. E allora i dipendenti pubblici, ma anche quelli privati, si sono trovati a lavorare da casa, senza capire bene i loro compiti e i loro orari, con connessioni internet spesso instabili, usando i loro strumenti informatici, perché l’amministrazione non era davvero in grado di provvedere. Sottoposti a norme farraginose e procedure bizantine acuite dalla distanza con i dirigenti, diventati figure mitiche e a volte irraggiungibili.
Non sono stati pagati al 100 per cento, perché, in lavoro agile non sono stati riconosciuti loro buoni pasto e straordinari, che spesso, vista l’eseguità degli stipendi pubblici, costituiscono una voce non irrilevante nel bilancio di una famiglia. In molti casi sono stati, inoltre, costretti dall’amministrazione a riempire la quarantena usando permessi e ferie. Una bella fregatura, visto che non potevano neanche uscire di casa.
Non va dimenticato, poi, che questa “vacanza”, come la chiama il signor Ichino, è stata la principale arma che ci ha permesso di limitare la diffusione del virus. Solo per fare un esempio, Roma è stata una delle poche metropoli a livello mondiale a rimanere sostanzialmente non toccata dall’epidemia. I casi di Covid 19 che abbiamo riscontrato nella capitale non sono neanche confrontabili con quelli di altre grandi città. E Roma, va ricordato, è uno snodo fondamentale, in Italia: ha il più grande aeroporto internazionale, è la città con più turisti, da Roma passano tutti i treni che viaggiano da nord a sud. Non solo: proprio qui sono stati trovati e subito isolati i primi due casi che si sono verificati nel nostro Paese. Se siamo riusciti a tenere l’epidemia fuori dal Raccordo anulare – facendo tutti gli scongiuri possibili – è anche merito dell’immediata risposta che la Pubblica amministrazione ha dato applicando lo smart working come regola generale. Dove si è continuato a lavorare come nulla fosse è successo il disastro.
Ma al di là di queste considerazioni di merito, ce ne sono altre di carattere più generale, che vale la pena di chiarire.
Intanto, basta con le generalizzazioni. Di tutti i tipi. Nella pubblica amministrazione, come accade in tutti i luoghi di lavoro, ci sono persone che si fanno un mazzo tanto e persone la cui unica occupazione è quella di cercare tutte le maniere per non fare un tubo. E i primi a non sopportare questa situazione sono proprio i loro colleghi, se non altro perché, proprio per questo, si trovano a sgobbare il doppio.
La criminalizzazione del dipendente pubblico ha portato negli anni allo smantellamento di interi settori essenziali che sono stati affidati al privato. Il risultato è stata la precarizzazione dei rapporti di lavoro, criteri di assunzione meno trasparenti e, in ultima analisi, un peggioramento del servizio stesso. Senza entrare nel merito, ma ci sono ampi studi che dimostrano questa tesi, basta pensare alla sanità: funziona meglio il privato del pubblico? Proviamo a chiedere ai cittadini lombardi?
Infine, questo lavoro agile, è poi proprio da buttare? Io faccio notare che, in un istante, ci ha risolto il problema del traffico e ha ridotto l’inquinamento. La butto lì, due cosette da nulla. Certo, va inquadrato meglio reso davvero agile e non una mera replica casalinga di quanto si fa in ufficio, ma è una strada che vale la pena percorrere con decisione, per riorganizzare davvero una società che non funzionava. E la pubblica amministrazione può essere un campo di sperimentazione ampio. Ichino e soci permettendo.
La smetto qui, anche se il discorso potrebbe andare avanti a lungo. E comincio la mia giornata di lavoro agile.
I magnifici anni ’80 del capitano smemorato.
Il pippone del venerdì/145
Nei giorni scorsi, aspettando che intervenisse un dirigente politico di cui mi interessava ascoltare il parere e le proposte, mi è capitato di imbattrmi nelle dichiarazioni di Matteo Salvini, detto il capitano, anno di nascita 1973. Ora, sintetizzo e quindi brutalizzo un po’ le sue parole, ma il senso è più o meno questo: l’Italia deve tornare a essere la grande nazione degli anni ’80 del secolo scorso, periodo in cui contava eccome a livello internazionale, cresceva impetuosamente, mica come adesso. Dei giornalisti presenti soltanto il direttore della Stampa, Massimo Giannini, ha provato, in maniera forse po’ blanda, a spiegargli due o tre cosette su quel periodo. Ma il capitano aveva la faccia un po’ scocciata di quelli che hanno già capito tutto e non sopportano le lezioncine.
Permettetemi una considerazione che non c’entra nulla su questo modello di talk show, che va di moda da qualche tempo, in cui i politici e gli imbonitori alla Salvini fanno una sorta di staffetta e non si confrontano mai. A parte che a me piace il confronto diretto e non a distanza. Perché non è attrattiva una trasmissione in cui quello che viene dopo ribatte all’ospite precedente che non ha la possibilità di alcuna replica, non c’è ritmo. Ma il format potrebbe anche essere interessante, perché dà, forse, più la possibilità di argomentare con calma. Solo a una condizione però: che in studio ci siano giornalisti in grado di incalzare l’ospite e non gente accondiscendente. Altrimenti non sono interviste, ma comizi. Suggerirei ai conduttori di studiare le tribune politiche condotte da Jader Jacobelli, a cui, mediamente partecipavano i direttori dei giornali schierati contro il protagonista della trasmissione e non amici indicati dallo stesso con cui, a volte viene anche questo “sospetto”, magari si concordano anche le domande.
Veniamo alla questione anni ’80. Ora Salvini aveva 7 anni nel 1980, io cinque in più, ma al contrario del capitano qualche libro l’ho frequentato e lo aggiungo ai ricordi personali. Quelli sono stati gli anni dell’inflazione in doppia cifra, del referendum sulla scala mobile, che abolì definitivamente il meccanismo di adeguamento automatico dei salari al costo della vita. Sono stati gli anni dei mutui con tassi che spesso sfioravano il 20 per cento. Salvini magari ricorda i cartoni animati di Mila e Shiro, le prime cotte adolescenziali, la disco-music, il periodo del ginnasio trascorso evidentemente con scarso profitto. Quelli con qualche anno in più sulle spalle ricordano la svalutazione continua della lira, che ci ha portato non soltanto a dover pagare i debiti di quel periodo in cui abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ma anche a una bolletta energetica che di giorno in giorno saliva alle stelle. Si faceva il pieno di benzina alla macchina perché dopo qualche ora il prezzo dell’oro nero sarebbe salito ancora di più. Ricordano i mutui in Ecu (per i più giovani: una sorta di predecessore virtuale dell’euro) che proprio grazie alla svalutazione continua della lira portarono sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie. Ricordano anche la svendita del patrimonio pubblico, le aziende di proprietà dello Stato regalate ai capitalisti “d’assalto” nostrani, l’Alfa Romeo che passa alla Fiat per un tozzo di pane, solo per fare uno degli esempi più clamorosi. Ora, forse in quegli anni lo Stato metteva anche troppo le mani sull’economia, ma controllava i settori strategici, si poteva fare una politica industriale: il polo siderurgico, quello chimico, le telecomunicazioni. Gioielli svenduti ben al di sotto del loro valore per aiutare le solite potenti famiglie italiane. Tutto svanito grazie alla sbornia liberista che proprio negli anni ’80 del nostro capitano nostalgico cominciava a gettare le basi del futuro disastro. Che poi, va ricordato, le famose grandi famiglie italiane quel capitale immenso lo hanno usato per fare cassa. Il risultato è che adesso quei settori strategici sono controllati da grandi multinazionali.
Sì, dice Salvini, ma l’Italia era forte e aveva un grande prestigio internazionale. Su una cosa concordo con lui: di sicuro la classe politica di allora aveva un’altra autorevolezza, lui al massimo avrebbe fatto il segretario di una sezione locale di un partito della destra. Ma fu anche una classe politica miope, che ha caricato di debiti i nostri nipoti. Saranno stati anche autorevoli ma hanno sbagliato quasi tutto. Del 1985, tanto per fare un altro esempio, è stato il primo condono edilizio, con talmente tante domande che gli uffici comunali le stanno ancora esaminando. Certo, venivamo dagli anni del cosiddetto abusivismo di necessità. Quelli in cui i poveracci si tiravano su da soli la casetta in borgata. Ma c’era anche la grande speculazione. E comunque la soluzione non era certo quella di monetizzare gli abusi, legalizzando cementificazioni assurde. Paghiamo ancora anche il prezzo di quelle scelte, in termini di dissesto idrogeologico, di quartieri senza logica né servizi, dove le strade girano intorno alle case messe qua e là a caso e le fogne sono arrivate, non sempre, decenni dopo.
Sarebbe il caso, insomma, che tutti parlassimo di cose che conosciamo, ma mi rendo conto che anche questo è davvero un obiettivo troppo ambizioso. Certo, l’operazione che prova il capitano, in grande difficoltà in questo periodo, è chiara: punta sulla nostalgia di un tempo in cui, un po’ ciecamente, molti si illudevano che il progresso ci avrebbe, alla fine, fatto stare tutti meglio. Quell’illusione, però, l’abbiamo caricata sulle spalle delle generazioni future. Fa comodo contrapporre la nostalgia della lira all’euro cattivo. I bei tempi in cui giravamo con le banconotone fieramente italiche nel portafoglio. I bei tempi in cui alle brutte si stampavano più soldi. Peccato che quei soldi valevano ogni giorno di meno. E dopo gli anni ’80 è partito lo smantellamento del sistema pensionistico, dello stato sociale, del servizio sanitario pubblico. Insomma una sbornia che alla fine ha pesato sulle condizioni di vita dei più deboli. Peccato che a Salvini gli effetti di quella o di altre ubriacature non sembrano ancora passati.
Ripartire davvero: lo Stato torni a fare lo Stato.
Il pippone del venerdì/144
L’Italia in questi giorni è in piena fibrillazione per la fine dell’epidemia. Siccome siamo un popolo a memoria ultracorta, i dati relativamente confortanti degli ultimi tempi hanno fatto in modo che la stragrande maggioranza degli italiani consideri il coronavirus come un fatto del passato. Non per fare l’uccello del malagurio, ma temo che avremo nei prossimi mesi amari risvegli. Di sicuro ci sono alcuni fatti incontestabili: intanto, il lungo periodo passato in clausura ha diminuito la circolazione del virus, poi, un po’ a macchia di leopardo, abbiamo imparato ad affrontarlo meglio. Si fanno tamponi più rapidamente, si tracciano e si individuano i casi sospetti. E trovare i contagiati subito provoca in automatico meno affollamento negli ospedali. Infine, anche in assenza di una cura specifica, i medici hanno acquisito maggiori conoscenza sulla malattia e sul come affrontarla.
Poi, ma questo è un altro capitolo, c’è anche chi dice che lo stesso virus si sia un po’ rincoglionito e contagi di meno. Un fatto del quale manca la pur minima evidenza scientifica, ma al quale credono ciecamente milioni di italiani. Il ragionamento è sempre lo stesso: la natura umana ci porta a credere con più facilità alle tesi che si allineano alle nostre speranze. In pratica: dopo la paura abbiamo tutti bisogno di un’iniezione di fiducia e basta il primo medico di provincia per farci esultare.
Facciamo finta che sia così, anche se resto convinto che serva mantenere alta la guardia per fare in modo che i nuovi, inevitabili, piccoli focolai non diventino per la seconda volt focolai di massa. Certo, per stare un po’ più tranquilli, bisognerebbe anche interdire il presidente della Lombardia, ma questa è un’altra storia.
Facciamo finta che l’epidemia sia davvero alle spalle, dicevo, e proviamo a buttare giù due o tre ragionamenti sulla fase che ci troviamo ad affrontare. Partendo da una domanda, essenziale: è possibile considerare la fase di grande difficoltà del sistema economico come una enorme opportunità per il nostro Paese e non necessariamente come la fine del mondo? Siccome a me questo sistema turbocapitalistico non è mai piaciuto, sarei propenso a sostenere la prima tesi.
Una prima considerazione: saremo anche in una fase di grande crisi, ma avremo, speriamo presto, anche una notevole quantità di risorse a disposizione: fra i vari fondi che l’Unione europea ha messo in campo o si appresta a varare, nei prossimi mesi il Governo si troverà fra le mani una cifra superiore ai 200 miliardi di euro. Se consideriamo che le ultime manovre finanziarie raramente hanno superato i 30, si può capire la portata della sfida che abbiamo di fronte.
La dico brutalmente: abbiamo la concreta possibilità di cambiare tutto. La debolezza del sistema economico fa sì che torni a essere importante la capacità della politica di modellarlo secondo quello che conviene al Paese e non agli imprenditori. Non sono mai stato un sostenitore della tesi di Agnelli che sosteneva un po’ sfacciatamente “ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia”. Direi semmai il contrario: un Paese che funziona, che si rinnova, che punta alla sostenibilità, che ha infrastrutture competitive, va bene anche agli imprenditori.
E allora la prima condizione per ripartire davvero è che lo Stato torni a fare il suo mestiere, ovvero dettare le linee dello sviluppo che ritiene utile ai cittadini. Altro che mani libere per l’economia. Il liberismo sfrenato degli ultimi anni ci porta, in ultima analisi, dritti dritti alle pandemie. Detto questo, il problema è avere un’idea di quello che si vuol fare. Vedremo se nelle prossime settimane, questa eterogenea maggioranza riuscirà a dare un indirizzo preciso alla sua azione. L’idea di Conte di coinvolgere tutti gli attori del sistema politico, economico e sociale per una sorta di stati generali funziona se ci si presenta già con linee di fondo ben delineate, altrimenti diventerà il classico assolto alla diligenza con tanto di distribuzione a pioggia, dove i privilegiati sono sempre quelli in grado di fare la voce più grossa.
Io darei priorità alla cosiddetta rivoluzione green, che deve essere il filo che unisce tutti gli interventi: una sorta di cartina di tornasole, un investimento si fa soltanto se ci porta a fare passi in avanti sulla strada della sostenibilità. Porto come esempio virtuoso proprio uno degli ultimi interventi decisi, il superbonus sulle ristrutturazioni delle abitazioni. Bisognerà aspettare i decreti applicativi (a proposito, quello di scrivere norme chiare e applicabili da subito deve essere uno degli obiettivi principali), ma sembra chiaro che verranno premiati non tanto gli interventi ad alta efficienza energetica, ma quelli che permettono un aumento dell’efficienza energetica: la dico semplice, se hai una casa in classe A++ anche se prendi l’ultimo modello di caldaia perché è più fico, non ti do una lira, se hai una casa in casse G e l’intervento proposto di permette di arrivare alla A, allora sì, ti finanzio.
Non voglio dilungarmi troppo, anche perché qualche cosa sui temi da affrontare (riforme istituzionali e semplificazione) ho già accennato nelle scorse settimane. Credo che però la vera partita sia su chi tiene in mano il pallino. Se questo torna in mano allo Stato che non solo programma lo sviluppo, ma mette mano direttamente nei settori che ritiene strategici, abbiamo davvero la possibilità di avere non soltanto un cambiamento, ma un cambiamento positivo. Se, al contrario, prevarrà la linea di Confidustria (che ha scelto per l’occasione di farsi rappresentare dalla sua parte più conservatrice) per la quale è bene che lo Stato lasci fare l’imprenditore a chi sa farlo, allora resteremo nella situazione melmosa in cui ci troviamo. Anche perché, da noi, tutti questi capitani d’industria coraggiosi e innovativi non ci sono mai stati. Si contano sulla punta delle dita. Il nostro capitalismo è sempre stato coraggioso con i soldi nostri. E di questi soldi ha restituito ben poco. E poi perché la logica non può essere quella del massimo profitto in breve tempo. Perché con questa logica ci siamo ridotti a dover persino elemosinare le mascherine in mezzo mondo. Non conveniva produrle in Italia, dicevano. E, invece, conveniva eccome.
Semplificare va bene, ma con regole chiare e sanzioni certe.
Il pippone del venerdì/143
Dopo i decreti che complessivamente hanno stanziato più di 80 miliardi di euro per sostenere l’economia disastrata da questi mesi di chiusura, il governo pare voler mettere mano con una certa fretta a una lenzuolata di semplificazioni.
E di certo ce n’è davvero bisogno, in un Paese sommerso da leggi, decreti, circolari e via dicendo. Basti pensare al meccanismo usato all’inizio dell’epidemia per accedere alla cassa integrazione: le Regioni esaminano le domande delle imprese, poi le inviano all’Inps, poi vengono girate alle sedi provinciali dell’Inps medesima che danno il via libera definitivo. Se c’è un errore, sia pur minimo, in tutto questo giro di pratiche, si torna alla casella iniziale. Ancor più tortuoso il meccanismo per gli altri aiuti previsti a livello nazionale, che poi si sono intrecciati con gli interventi delle Regioni e dei Comuni in un groviglio di norme che ha generato confusione e ha spesso azzerato l’efficacia degli interventi. Ora, se si fa un provvedimento in emergenza, la principale caratteristica che deve avere è quello di essere rapido. In Italia, molti delle decisioni prese non hanno ancora prodotto alcun effetto.
Ora, uno sano di mente, potrebbe anche sostenere una regola semplice: siccome siamo in emergenza, intanto ti do il contributo, poi faccio i controlli. Sembra facile, ma siccome non siamo in un paese di sani di mente, un principio di questo tipo avrebbe forse scatenato speculazioni di ogni genere.
Se c’è una cosa sicura, però, è che di semplificare una macchina pubblica a dir poco ingessata ne abbiamo davvero bisogno. Fra il dire e il fare, però, non c’è di mezzo un tratto di mare di agevole traversata.
Intanto chiariamoci sul cosa vuol dire semplificare. La destra liberista, da Reagan in poi, ha sempre inteso la semplificazione come eliminazione delle regole pura e semplice. I vecchietti come me ricorderanno, solo per fare un esempio, il disastro prodotto dal presidente-attore con uno dei primi provvedimenti, la famosa deregulation dei cieli. Azzerando, di fatto, il sistema di norme che regolava il settore del trasporto aereo si produsse non tanto un nuovo slancio per le imprese, ma un gran caos e, soprattutto, una drastica riduzione della sicurezza e delle garanzie per i cittadini.
Ecco, allora cominciamo con il dire che semplificare significa l’esatto contrario della deregulation globale che vorrebbe la destra. Vuol dire, al contrario, meno regole, ma chiare e con sanzioni certe.
Semplificare vuol dire, ad esempio, che quel sacrosanto principio che dice “l’amministrazione non può chiederti un documento già in suo possesso” deve diventare effettivo. Faccio un esempio legato alla mia attività professionale. Non so come sia la situazione adesso, ma fino a qualche anno fa registrare una testata al tribunale civile di Roma era impresa da far tremare i polsi. Ricordo che, simpaticamente, chiamavo la dirigente della sezione Nonna Papera, nel senso di una funzionaria che sembra amichevole, ma che quando si intestardisce non ti fa passare neanche una virgola fuori posto o una marca da bollo apposta leggermente al di fuori degli spazi. La dichiarazione antimafia che le aziende devono produrre, ad esempio: dovevi andare in camera di commercio, fare un’autocerficazione e ti davano un pezzo di carta dove risultavi pulito da procedimenti pendenti presso il tribunale sia di carattere penale che amministrativo. Insomma, dovevi presentare al tribunale un documento in cui la Camera di commercio certificava la tua firma su un atto in cui dichiaravi che non avevi problemi con il tribunale. Potrebbe sembrare comico, ma una roba del genere vuol dire almeno una giornata di lavoro persa.
Altro esempio: l’urbanistica. In Italia vuol dire stanzoni pieni di faldoni, leggi che cancellano altre leggi, circolari esplicative che paiono libri di filosofi incomprensibili. Tradotto nella pratica, un esercito di persone che interpreta e studia come fregare la legge. Io non credo, mi limito all’esperienza di Roma, che negli ultimi vent’anni sia stato costruito un solo edificio che rispetti al cento per cento le norme esistenti.
Insomma, ridurre il numero delle leggi è un’altra delle questioni. Meno norme, magari scritte anche in maniera comprensibile e non interpretabile.
La terza riflessione da fare riguarda il personale della pubblica amministrazione. Sempre per esperienza personale, adesso la situazione è più o meno questa. Abbiamo dipendenti con un’età media molto alta, frutto avvelenato degli anni del blocco del famoso turn over, ovvero il mancato ricambio di chi va in pensione. E questo non solo vuol dire una pubblica amministrazione che spesso ha difficoltà persino ad accendere un computer, ma anche dipendenti che sono arrivati alla conclusione della loro carriera, non hanno più ambizioni di miglioramento e il famoso “questo non è di mia competenza” è diventato la regola aurea di tutti gli uffici pubblici. Se all’interno di questo sistema hai un’iniziativa originale diventi una specie di gatto nero da evitare con cura e mettere in quarantena. Non serve meno pubblico, non bisogna ridurre la quantità dei burocrati. Serve che la pubblica amministrazione si apra a una generazione che porti innovazione positiva, una mentalità diversa.
Quarto e ultimo punto: la certezza della pena. Serve un sistema di sanzioni davvero effettivo, che faccia pagare chi froda non fra dieci anni, ma adesso. Da noi succede l’esatto contrario, la frode è certa, la punizione è talmente aleatoria che conviene fare i furbi.
Semplificare, insomma, e la finisco qui, vuol dire rendere la vita più facile ai cittadini, non “fate un po’ come vi pare”. Perché la seconda ipotesi la vita ce la rende più difficile, non migliore.
E se abolissimo del tutto le Regioni?
Il pippone del venerdì/142
Per una volta non faccio la parte del giornalista che si informa da fonti esterne, ma parlo di un argomento che conosco direttamente: le Regioni, le funzioni che hanno acquisito con la riforma del titolo V della Costituzione e come hanno funzionato in questi anni. Ora, visto che dal 2001, in vesti di volta in volta differenti, ho lavorato nel Consiglio regionale del Lazio, posso ben dire di essere testimone diretto di un periodo che va dalla prima applicazione della riforma a oggi. Non vi aspettate ovviamente una disamina approfondita, non può essere questa la sede, mi limito a qualche spunto di riflessione.
Intanto una considerazione di carattere generale: le Regioni sono per lo più costruzioni artificiali, l’Italia è il Paese dei Comuni, al massimo i cittadini riconoscono la loro appartenenza alla Provincia. Basta pensare, per avere un’idea, che lo stemma della Regione Lazio non è altro che la somma dei simboli delle cinque province che la compongono. Del resto, altra notazione a carattere storico-sociologico, anche la formazione stessa dello stato unitario avvenne come somma, avvenuta in vari modi, degli stati locali preesistenti, che quasi mai coincidevano con i confini delle attuali Regioni italiane.
Dunque sono una costruzione artificiale, con confini spesso e volentieri del tutto arbitrari, a volte sono addirittura sbagliati.
Eppure, fin dagli anni ’70, questo ente di governo ha assunto via via più centralità nell’architettura dello Stato, fino a diventare un vero contropotere rispetto a quello centrale. Anche perché, e questa è una notazione di carattere più politico, spesso le Regioni sono usate, da chi si trova all’opposizione a livello nazionale, più come megafono politico contro il governo che per amministrare territori vasti e complessi. Anche durante questa situazione di emergenza abbiamo avuto, ne parlavo giusto qualche settimana fa, casi in cui i presidenti delle Regioni si sono mossi per logiche di propaganda politica invece di dare risposte alle reali esigenze dei loro territori. Certo, poi ci sono differenze rilevanti, ma non ci si può affidare alle capacità dei singoli presidenti se il sistema stesso genera confusione e inefficienza. In più, e passiamo alla seconda considerazione politica, la maggiore assunzione di poteri negli anni è avvenuta più come risposta a mode del momento che per vere esigenze di governo del territorio. La riforma del titolo V della Costituzione, ad esempio, avviene in piena battaglia secessionista della Lega di Bossi.
Il risultato di quegli anni, secondo me, è un pateracchio istituzionale che, come prima conseguenza, rende diversi i cittadini e, in ultima analisi, funziona anche male. Basta guardare ai conflitti che si sono prodotti di fronte alla Corte Costituzionale per avere un’idea della confusione che regna nel nostro sistema di governo.
Le Regioni, infatti, sono una strana via di mezzo fra un ente che produce leggi e un ente che amministra. Dal punto di vista del loro funzionamento interno hanno prodotto una moltiplicazione di apparati, spesso usata soltanto per piazzare ai posti di comando pezzi dei partiti di governo che i partiti stessi non erano più in grado di sostenere. Non è una critica a un’amministrazione in particolare. Qui nel Lazio ha aperto la strada Storace negli anni che vanno dal 2000 al 2005 e poi su quella strada si sono incamminati un po’ tutti, fino ad arrivare agli eccessi della giunta Polverini che tutti conoscete. Non è, a dire il vero, che la situazione sia cambiata di molto: basta pensare che in consiglio regionale a oggi i dipendenti dei gruppi consiliari sono più o meno equivalenti, come numero, ai dipendenti regionali.
Dal punto di vista del funzionamento esterno i guasti si vedono soprattutto nel sistema sanitario. Che funzioni peggio di quello che avveniva all’inizio del nuovo millennio è sotto gli occhi di tutti. Ma anche se funzionasse meglio di adesso, resta alla base una profonda ingiustizia: è sbagliato che cittadini dello stesso Stato abbiano diritti diversi a seconda della Regione in cui nascono, soprattutto se parliamo del diritto alla salute.
E’ profondamente sbagliato che un residente a Napoli abbia diritto a livelli di assistenza differenti da un residente in Trentino. La pandemia ha portato sotto gli occhi di tutti quanto il sistema sia stato devastato da decenni in cui l’unica bussola sono stati i bilanci da tenere in equilibrio tagliando posti letto e servizi territoriali. La rete dei medici di famiglia, un tempo vero e proprio strumento di monitoraggio continuo della salute di una comunità, in pratica non esiste più: i medici di base sono ridotti, vista la quantità di assistiti, a meri scribacchini che firmano ricette di farmaci spesso prescritti da altri, gli specialisti, quasi sempre privati.
A parte che va proprio cambiato il nostro modo di concepire il servizio sanitario che deve essere più diffuso e deve cercare di limitare l’accesso agli ospedali, ma per me è anche evidente che deve tornare a essere competenza esclusiva del governo nazionale. Attualmente, salvo dare linee guida generali, il potere del ministro della Salute è pressoché nullo. Si è visto chiaramente anche durante la pandemia.
E quello della sanità è solo il caso più eclatante. Lo stesso succede per l’urbanistica, per la gestione dei rifiuti, per il trasporto locale.
A complicare il tutto c’è anche l’elezione diretta del presidente della Regione: si è creato un sistema che ha, di fatto, un signore assoluto mentre le assemblee legislative sono ridotte a comparse istituzionali.
Sperando, insomma, che questa emergenza abbia messo una pietra tombale sul concetto stesso di autonomia differenziata che tanto ha fatto discutere negli anni scorsi, va ripensata l’architettura complessiva della nostra organizzazione. Io, da sempre, sono per dare poteri amministrativi veri alle Province, che devono tornare a essere elette dai cittadini. Mi sembra questo l’ente intermedio fra Stato e Comuni che può avere la dimensione giusta per poter essere efficace.
Certo, non è così semplice: bisognerebbe rimettere mano a una vera riforma costituzionale, ripensare profondamente il nostro sistema politico, avendo una visione complessiva e, soprattuto, avendo chiari gli obiettivi da raggiungere. Negli anni si è preferito procedere a pezzi, andando a toccare una volta i poteri delle Regioni, l’altra quelli delle Province, la volta dopo il sistema elettorale. Ne è venuta fuori una specie di guazzabuglio che ha, non solo mandato all’aria il sistema di equilibri pensato nel dopoguerrra, ma anche, in ultima analisi, complicato la vita di tutti noi. Ora, non sarà questo il momento di metterci mano, ma la prossima legislatura deve avere questo obiettivo. Un sistema istituzionale coerente e funzionale è la prima condizione per avere un Paese competitivo, sia dal punto di vista economico che sociale.
L’Italia riapre tutto senza aver imparato nulla.
il pippone del venerdì/141
Da lunedì, ormai manca soltanto l’ufficialità ma già si sa tutto, si riapre praticamente l’intero Paese. E malgrado i continui appelli alla prudenza del ministro della Salute, c’è già da settimane un clima quasi di festa. Nei parchi, almeno a Roma, sono ricominciate addirittura le partitelle a pallone, disturbate più dall’erba alta che dai controlli dei vigili, inflessibili fino a qualche giorno fa, ora tornati distratti. Quasi offesi per il potere di veto sulle nostre vite che gli è stato tolto man mano. Che poi è anche paradossale: da un lato atleti ipercontrollati devono stare a dieci metri di distanza l’uno dall’altro, mentre stormi di ragazzini scatenati dai due mesi di clausura scorrazzano indisturbati dietro la palla. Stranezze.
Non è che i dati sull’epidemia ci diano tutta questa tranquillità. Siamo stabilmente intorno al migliaio di contagiati al giorno, cifre che, quando si sono presentate nei mesi scorsi ci avevano portato a chiudere tutto e in gran fretta. Certo il verso della curva non è più verso l’alto, anzi tende a una graduale diminuzione. Ma soprattutto è un fatto psicologico.
Con buona pace sia dei prudenti che dei pasdaran, quelli che avrebbero messo l’obbligo della mascherina anche per andare dal salotto alla cucina, l’italiano medio ha deciso che l’epidemia è finita. O che almeno, visto che l’ha scampata fino ad ora, non gli toccherà neanche in futuro. C’è già la fila di prenotazioni dai parrucchieri, le mascherine per molti sono poco più che un oggetto ornamentale da portare al collo.
Il sintomo di questa normalità ritrovata è rappresentato in pieno dal ritorno in patria di Silvia Romano. Ora, non vi tedierò per troppo tempo. Ma il fatto che gli odiatori social si siano scatenati contro questa ragazza è un chiaro segnale del rompete le righe: stanchi di prendersela con il governo cattivo che non ci fa uscire, con i runner, le mamme con i bambini, i proprietari dei cani, siamo tornati a bersagli più classici. Ora, non vi tedierò neanche con ragionamenti astrusi: per me ognuno è libero di fare quello che vuole e le convinzioni religiose di una ragazza non sono affar mio. Vorrei soltanto mettere in evidenza che negli ultimi mesi ci sono stati altri ostaggi liberati, alcuni dei quali a loro volta si sono convertiti e si sono presentati senza le nostre consuete uniformi da occidentali per bene. Non mi risulta che siano stati investiti della stessa ondata di odio sociale. Ma qui stiamo parlando di una donna, per di più non andata in vacanza ma per aiutare gli africani. Ci sono tutti gli elementi, insomma, per uno scandalo vero e proprio.
Siamo tornati al nostro consueto mondo fatto di pregiudizi e razzismo. Il maschilismo neanche tanto nascosto di questi giorni lo dobbiamo inquadrare così.
E’ chiaro, almeno per me, che questa epidemia non ci ha insegnato molto. Lo scrivevo qualche settimana fa, con il mio sano pessimismo, che non ne saremmo usciti migliori. Non che voglia usare il classico “ve l’avevo detto”, non ci voleva certo un veggente per capire quello che avevamo di fronte.
Non siamo stati cambiati dal virus, siamo semplicemente gli stessi di prima. Magari avremo più paura degli innocenti pipistrelli, ma poco altro, Sarebbe da augurarsi, ma anche su questo il dubbio è quasi una certezza, di aver capito qualche lezione, almeno sulle grandi scelte che ci attendono.
Intanto: la sanità non è un costo, ma un investimento. Finiamola di trattare tutto come se fosse un’azienda. E finiamola anche con il mantra del “servono nuovi ospedali o almeno bisogna riaprire quelli vecchi”. Fatta eccezione per la Lombardia, ma lì i danni sono proprio cerebrali e quindi pressoché irreversibili, gli ospedali italiani hanno retto bene l’urto della Covid-19. I posti in terapia intensiva, pressoché raddoppiati in poche settimane non sono stati mai occupati con un tasso maggiore del 70 per cento dei letti disponibili. Abbiamo punte di assoluta eccellenza, l’istituto Spallanzani innanzitutto, che sono una garanzia assoluta. E vanno non soltanto preservate, ma rinforzate.
La sanità è innanzitutto un investimento. Per noi stessi, per la nostra sicurezza. Certo, poi gli investimenti vanno fatti nella direzione giusta. Mi chiedo ad esempio se non sia possibile un modello alternativo alle Residenze sanitarie assistenziali, le famigerate Rsa. Se non si debba puntare a servizi sanitari e socioassistenziali che puntino ad evitare l’accesso in ospedale. Anche qui, va ripetuto fino alla noia: dove la rete della medicina territoriale è stata gelosamente conservata, abbiamo retto meglio all’epidemia. Il disastro c’è stato dove la sanità è tutta centrata sugli ospedali. Un modello che non va bene in tempi normali, ma diventa addirittura pericoloso in tempi di emergenza. Perché si creano enormi potenziali focolai proprio nei luoghi dove ci sono i malati. Non sono un virologo, ma mi pare evidente che un’epidemia si limita isolando i contagiati, se li metti invece insieme agli altri malati diventa una strage.
Abbiamo imparato quanto è importante la ricerca pubblica? Senza condizionamenti del mercato? Abbiamo imparato che le università non si devono cercare gli sponsor ma devono essere finanziate dallo Stato? Non si tratta di una differenza da poco. Perché quando hai uno sponsor fai ricerca condizionata dal ritorno che il mecenate pretende di avere e quindi ti orienti su settori specifici che avranno anche una utilità immediata, ma spesso non portano a nulla dei veramente nuovo. Quello che fa andare avanti il mondo è la ricerca pura, non quella su come si migliora un detersivo.
Abbiamo imparato che il blocco del turn over nella pubblica amministrazione non ci porta né efficienza né uno stato più snello, ma semplicemente riduce il pubblico impiego a un esercito di pensionandi demotivato, che non solo non ne vuole sapere di usare le nuove tecnologie, ma le vive come un nemico ignoto? Solo soltanto spunti, si potrebbe continuare per ore.
Qualche passo compiuto dal Governo Conte in piena emergenza, penso all’aumento dei fondi destinati alla sanità ci fa anche ben sperare. Ma è adesso, che avremo a che fare con la cosiddetta nuova normalità, che vedremo se questa coalizione un po’ strampalata avrà le forze per mettere mano almeno a qualche correzione. Tornare ad esempio a una sanità uguale per tutti i cittadini sarebbe il minimo sindacale. L’importante è, lo ripeto ancora, dimenticare i sondaggi e governare davvero.
La fase 2 mi sembra peggio della fase 1.
Il pippone del venerdì/140
Francamente mi sarei aspettato che questa prima riapertura che viviamo ufficialmente da ormai una settimana portasse qualche giornata di sana “leggerezza”. Dico ufficialmente perché in realtà da quando il presidente del Consiglio aveva annunciato i provvedimenti che sarebbero entrati in vigore dal 4 maggio gran parte del popolo italiano ha saltato a piè pari la data e dal giorno dopo era tutto un via vai di persone.
Niente di male, per carità. Stare in casa per quasi due mesi è stato pesante e anche i controlli delle forze dell’ordine si sono gradualmente allentati.
Mi aspettavo però anche un altrettanto graduale allentamento di quella insana sorveglianza social (non è un refuso intendo proprio social, nel senso di sorveglianza che viene applicata attraverso un uso smodato della pubblica denuncia on line) che ci ha afflitto dall’inizio della quarantena. E invece no, cambiano gli obiettivi, perché ampliandosi la platea dei possibili bersagli si è un po’ attenuata la pressione sui proprietari di cani e sui runner, restano i toni apocalittici. Nel mirino adesso ci sono principalmente le famigliole che si permettono di portare i bambini a passeggiare, per giunta senza mascherina. Ci farete tornare tutti in quarantena rigida, dovete stare a casa. Questo il messaggio che gira di chat in chat, di gruppo in gruppo su Facebook. A parte il fatto che se ce ne restiamo tutti in casa non si capisce bene quale sia la differenza con la fase 1. A parte il fatto che su larghe fette (per fortuna) del territorio nazionale la mascherina va portata solo in ambienti chiusi come mezzi di trasporto e negozi. A parte tutto questo, dicevo, viene sempre da chiedersi come sia possibile che un popolo noto in passato per i suoi grandi slanci solidali sia diventato così cattivo e pronto allo schiaffo invece che a tendersi la mano. Per non parlare della facilità con cui si continua a dar credito alle teorie più strampalate.
Certo, c’è una base “sociologica” di questo comportamento. La paura, la tendenza ad aggrapparsi alle possibilità più assurde per allontanare il pensiero e l’immagine della morte, così presente in questo periodo: ci sta tutto. E non è che gli italiani siano un caso unico. Basta pensare che nella patria della tecnologia c’è chi ancora da retta alle teorie strampalate di Trump, per avere un’idea dell’estrema fragilità davvero globale del genere umano.
In Italia, però, ci mettiamo del nostro. Siamo l’unico paese al mondo dove nel pieno di una crisi davvero senza precedenti negli ultimi cento anni, sui giornali ci si diletta a parlare della possibilità di una crisi di governo. Ora, che alcuni ministri siano del tutto inadeguati si sa. Basta pensare alla confusione che causa ad ogni intervista sulla scuola l’ineffabile Azzolina per farsi un’idea. Ma per fortuna, almeno nei ruoli chiave per gestire l’epidemia ci sono politici – e sottolineo politici – preparati e con un altissimo senso delle istituzioni. Merce rara di questi tempi. L’ho già scritto ma vale la pena ripeterlo, basta ricordare che al posto di Conte potremmo avere Salvini per chiudere ogni discussione.
E, invece, no. Si continua di giorno in giorno nell’azione di logoramento continuo. Ecco, se una vera colpa questo governo ce l’ha, è quella di non aver vietato i sondaggi politici almeno fino alla conclusione dell’emergenza. Forse starebbe più tranquilla l’opposizione, farebbe il suo lavoro senza aizzare improbabili folle. Forse starebbe più tranquilla quella parte della maggioranza che ancora in questa settimana continua a cercare soltanto di avere più visibilità, preoccupata di qualche decimo di punto in meno nel potenziale consenso elettorale.
Ora, è solo una battuta, ma per chi come me sostiene da sempre che una classe dirigente non può governare con i sondaggi alla mano è logico pensare che in una grave situazione di crisi l’unico faro dovrebbe essere la Costituzione, dove è scritto chiaramente che la salute è al primo posto.
Ultimo punto, assai impopolare e poi vi lascio a questa calda giornata prefestiva. La burocrazia. Tutti, come al solito a tuonare contro. Senza accorgersi che il problema della gestione dell’emergenza non è la troppa burocrazia, ma l’aver smantellato sostanzialmente l’apparato statale nella foga liberista degli scorsi anni. Ora. Avremo anche procedure farraginose e complicate. Ma questo è dovuto al fatto che si è proceduto alla distruzione dell’apparato, assoggettandolo al potere politico, affidando al privato la gestione di servizi essenziali, distruggendo un sistema che aveva una sua funzionalità con il nulla.
Per questa settimana m fermo qui. E, per favore, se proprio dovete stare in casa, almeno evitate di sputare sentenze su chi sceglie di farsi una passeggiata al sole, a debita distanza gli uni dagli altri. Siete più contagiosi voi del coronavirus.
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