Contro la politica della noia serve una sinistra modello Schlein.
Il #pippone del venerdì/129
Ecco, secondo me, uno dei male peggiori della politica italiana è proprio questo: la noia. Ci sono settimane in cui è perfino complicato trovare un argomento su cui ragionare. Il confronto non avviene mai o quasi mai sui temi decisivi per il nostro Paese, ma soltanto sulle tattichette che si reputano necessarie per garantire visibilità, ovviamente a sé stessi. Renzi in questo caso è un po’ un caso di scuola: non fa mai nulla con sincero slancio, tutto è in funzione del suo sviluppatissimo io che non ama stare lontano dal centro dei riflettori.
La stessa vicenda di questi giorni è esemplare: ci si scontra su un tema, quello della prescrizione, che sarà anche importante, ma del quale al 99 per cento degli italiani non frega assolutamente nulla. La prescrizione, i tanti paroloni usati spesso a sproposito, il garantismo contrapposto al giustizialismo: tutte scuse. E’ evidente che lo scopo è un altro: Renzi non crede – non ci ha mai creduto – che questa maggioranza possa diventare un’alleanza strutturale. Anche perché in quello schema non c’è posto per lui, altra cosa abbastanza evidente: una coalizione fra Pd e 5 stelle ha bisogno semmai di una copertura sul fronte sinistro. Di moderati ne abbiamo a bizzeffe. E allora che si fa? Si usa il “trattamento Letta”, quello altrimenti detto della goccia cinese: si logora il presidente del Consiglio con una dichiarazione al giorno, con le trattative infinite che quando sembrano arrivate a un punto di equilibrio vengono fatte saltare e si ricomincia da capo. Poi si sussurrano i nomi delle possibili alternative, senza che ovviamente gli interessati ne siano informati.
Potrebbe sembrare un paradosso perché Renzi di questo governo è stato uno dei principali sponsor. Ricordate quanto Zingaretti fosse inizialmente contrario? Fu proprio il bullo di Rignano a convincerlo, lo ha dichiarato lui stesso in una lunga intervista al direttore del Tempo. Ma Zingaretti, da politico scaltro quale è, ha fiutato l’aria e si è messo a lavorare per fa trasformare un incidente momentaneo in una possibile alleanza di lungo respiro. Le difficoltà, Renzi a parte, non mancano comunque, ma difficile dar torto al segretario democratico.
A Renzi il Conte bis, invece, serviva soltanto a prendere tempo. Doveva organizzare la sua scissione, per mettersi in salvo insieme ai fedelissimi che, in caso di elezioni anticipate, di certo non sarebbero tornati in Parlamento. Subito dopo sono cominciati i distinguo, i veti alle misure più innovative proposte nella legge di stabilità, quel lavoro di logoramento che vorrebbe condurre il governo alla paralisi in maniera da poterne proporre un altro più comodo per i disegni del rignanese.
Il tutto, su questo credo ci sia davvero ampio consenso nel Paese, è una noia mortale. Non appassiona manco i peggiori conduttori di talk show. Le elezioni, in realtà, secondo me le vogliono in pochi. A maggior ragione in una situazione di incertezza, aggravata dal taglio dei parlamentari senza aver ridisegnato i collegi né tanto meno aver messo mano alla legge elettorale.
Mi sembrano scene di una politica che non capisce più la situazione che stiamo vivendo. Per di più si applicano i trucchi e le astuzie di un mondo che non c’è più a un mondo che si muove a velocità impensabili in passato. Tanto per dire: Conad annuncia 5mila nuovi cassintegrati. E non si tratta di una notizia isolata, sono decine ogni giorno le situazioni di questo tipo. L’Italia è ferma, non ne può più di una politica inconcludente che fa solo annunci e non riesce a essere concreta.
In questo panorama scialbo, fa piacere la notizia di Elly Schlein che viene nominata vicepresidente della nuova giunta in Emilia Romagna. La ragazza, lo confesso, mi piace molto e non da adesso. Intanto è stata la candidata più votata. E con quel cognome complicato ha fatto una vera impresa. Ci sarebbe da chiedersi perché. Da sola ha portato il 25 per cento dei voti dati a tutta la lista “Coraggiosa”. La risposta è semplice, quasi banale se volete: è una che, al contrario di tanti suoi colleghi, non insegue il consenso, lo raccoglie.
La sinistra dovrebbe andare a lezione da lei, servirebbe un corso intensivo. Ecco: il tema non è tanto replicare l’esperienza di “Coraggiosa” a livello nazionale, che poi sarebbe nient’altro che una riedizione di Leu. Il tema è replicare la Sclhein, ovvero crescere una generazione di dirigenti che non inseguono il consenso ma lo generano. E come si fa? Non la conosco di persona, ma mi sembra una persona semplice, competente, che dice quello che pensa in maniera comprensibile, diretta, senza politichese.
E’ stata fantastica dalla Bignardi, un’intervista in cui ha parlato di un tema delicato come la sua bisessualità in una maniera così bella da renderla una cosa naturale, scontata, sulla quale non ci deve essere nulla da eccepire. In un minuto ha spezzato un tabù ben radicato in noi italiani. Ho amato uomini, ho amato donne. Adesso sto con una ragazza che ha il pregio di sopportare i miei difetti. Semplice, diretta, senza fronzoli, senza retorica di alcun tipo.
Ecco, a me piacerebbe una sinistra così, modello Schlein, non modello Renzi.
Ma dobbiamo per forza dare mazzate ai lavoratori?
Il pippone del venerdì/125
Intanto ben trovati. Probabilmente più che di un pippone, dopo i bagordi natalizi, di capodanno e della Befana, avreste bisogno di una robusta dieta e di qualche corsetta. Me compreso, che me ne sto invece qui davanti al computer, bolso come un cavallo spompato.
Tant’è, accontentatevi di qualche considerazione di inizio anno, tanto per riprendere l’abitudine. Sulla situazione internazionale c’è poco da dire. Anzi ci sarebbe parecchio, a partire dal ruolo sempre più marginale dell’Onu, mai come adesso in balia dei capricci delle grandi potenze e, in particolare, di un Trump che sembra sempre più usare i missili e i droni per far aumentare la sua popolarità in vista delle elezioni. Nelle ultime ore pare che possano prevalere le colombe sui falchi, ma si sente sempre nell’aria odore di polvere da sparo. Sono giorni complicati, nei quali basta un nulla perché alle diplomazie che si muovono in silenzio e lentamente possano sovrapporsi i generali pronti con il dito sul grilletto. Personalmente sento un grande senso di impotenza, come mi successe nelle ore precedenti alla guerra del Golfo. Che fare? Servirebbe la politica, una grande iniziativa europea. E invece assistiamo soltanto alle gaffe di Conte e di un ministro che di Esteri sa ben poco.
Sulla situazione interna italiana, mi pare che siano giorni di attesa. Si aspetta il voto dell’Emilia per capire se davvero questa esperienza un po’ raffazzonata possa costituire il fulcro di una possibile alleanza da contrapporre alla destra. Io credo che non sia sufficiente. Perché il Conte Bis mi pare una fotocopia del Conte Uno. Sono cambiati i programmi, abbiamo recuperato un po’ di credibilità internazionale (ma ci voleva poco), sia a livello politico che sui mercati. Ma resta un difetto di fondo: quando si alleano forze di natura differente si deve cercare una linea comune. Invece, in questi anni, abbiamo assistito a coalizioni che non si sono mai fuse, cercando la via più facile ma meno redditizia in termini di risultati: ognuno punta sui suoi cavalli di battaglia. Il risultato è che manca un progetto, una visione. E questo lo paghiamo tutti i giorni in termini di minore competitività, di decadenza di un Paese che, al contrario, avrebbe bisogno come il pane di seguire una indicazione precisa, di sapere dove si vuole arrivare e muoversi di conseguenza.
Capisco che è chiedere tanto. Ma se davvero si punta al green new deal, servono i provvedimenti necessari, senza titubanze. Non si può, ad esempio, obiettare che gli imballi in plastica li producono in Emilia e dunque va tutto rinviato in attesa delle regionali. Sarà bene che qualcuno dica con chiarezza a quegli imprenditori che sarebbe il caso che producessero altro, semplicemente perché tutta questa plastica ci sta uccidendo.
Gli esempi sarebbero tanti. E ci vorrebbe, non mi stancherò mai di dirlo, una sinistra in grado di rinnovare il suo campo di valori e muoversi di conseguenza. Visto che non è alle porte, mi accontenterei almeno di una sinistra che la finisca di dare mazzate in faccia ai lavoratori.
Lo dico con affetto al segretario del Pd: caro Nicola, non è che per tenere insieme il tuo partito devi per forza continuare a sposare i provvedimenti che hanno portato il partito stesso a un passo dall’irrilevanza elettorale. Perché ostinarsi a difendere il jobs act, che non ha prodotto nulla e ha eliminato diritti fondamentali dei lavoratori e perché ostinarsi a voler eliminare quota 100, che sarà anche una misura parziale, ma ha avuto un riflesso positivo sulle vite di decina di migliaia di persone, quelle – tra l’altro – che a parole consideri il tuo elettorato di riferimento? Credi davvero che diminuire appena un po’ la pressione fiscale sia sufficiente a far respirare i lavoratori dipendenti?
Ho l’impressione che, come troppo spesso è successo nella breve storia del Pd, il feticcio dell’unità a tutti i costi porti a cedimenti inaccettabili, che manchi quella chiarezza di linea politica che è essenziale per tornare a essere un punto di riferimento per i più deboli. Si possono anche perdere le elezioni, ma non si può perdere la propria anima, altrimenti si viene travolti dagli eventi. Il Partito democratico, malgrado tutti i suoi limiti, è ancora oggi, l’unica grande organizzazione di massa che esiste in Italia. Le altre forze politiche sono partiti del leader, legati indissolubilmente al destino del capo. E questo rende tutto il sistema Paese più debole, troppo legato ai sondaggi, troppo attento a creare bisogni e paure fittizi per evitare di dover affrontare i nodi veri che da troppo tempo abbiamo attorno al collo.
Un sistema scolastico che è stato cambiato talmente tante volte da essere ridotto ai minimi termini. L’istruzione da noi è ormai una specie di collage scombinato, in cui gli studenti annaspano e gli insegnanti sono sempre meno motivati. Le infrastrutture cadono a pezzi, letteralmente. L’amministrazione della giustizia cambia a seconda del Tribunale. Se sei a Roma hai meno diritti di chi sta a Milano. Ora sarà anche un problema grandissimo quello della prescrizione, ma sarà forse il caso di investire in strutture più efficienti, dotate di tecnologie adeguate? Quando si entra nel tribunale civile di Roma, non di un paesino ma della Capitale d’Italia, si piomba di botto nel medioevo, tutto si regge sulla buona volontà di cancellieri, avvocati e giudici. Per non parlare della sanità, dove gli squilibri territoriali sono ancora più evidenti. Negli ultimi dieci anni è stata amministrata con lo spirito dei ragionieri. L’unico obiettivo è stato quello di riportare i conti in ordine. Con il risultato che il servizio pubblico sta morendo per asfissia.
Ho indicato solo quattro temi, che secondo me sono però, un po’ la carta di identità con cui un paese si presenta. Del resto non è questo il luogo per scrivere un programma compiuto.
Sarebbe bello però avere finalmente un governo che faccia cose non dico di sinistra, ma almeno diverse dal liberismo sfrenato della destra italiana. Sono soltanto speranze di inizio decennio?
Bologna, Emilia: dateci un bel segno.
Il #pippone del venerdì/120
Dopo la divagazione “personale” della settimana scorsa, mi pare il caso di tornare a occuparsi della politichetta italiana. Fra il disastro di Venezia e la paventata chiusura dell’Ilva questa è sicuramente la settimana di Bologna. Si concentra tutto lì, dalla manifestazione di apertura della campagna elettorale di Salvini al PalaDozza (sigh) alla tre giorni che dovrebbe dare il via alla rifondazione del Pd (sob). Con in mezzo la piacevole sorpresa dei quindicimila bolognesi che hanno riempito come altrettante sardine piazza Maggiore per far vedere che sono più dei leghisti, che hanno dovuto cammellare truppe dalla Lombardia per riempire lo storico palazzo dello sport. In piazza, altra piacevole sorpresa, anche il padre della candidata leghista alla presidenza della Regione.
L’Emilia-Romagna, diciamolo subito, non è una Regione qualunque. Insieme alla Toscana ha sempre rappresentato un baluardo insormontabile dal dopoguerra a oggi. Più della Toscana rappresenta l’epicentro di un sistema non solo politico, ma anche economico, che ha sempre rappresentato un’alternativa possibile. Una sorta di palestra in cui le idee della sinistra hanno avuto modo di innervare profondamente il tessuto sociale. E quindi si è spesso parlato negli anni di modello emiliano in economia, con la crescita dei grandi colossi cooperativi, dalle mense, alle assicurazioni, alle costruzioni, di modello emiliano nella sanità e nell’istruzione. Gli asili nido emiliani, andrebbe risposto a chi straparla del caso di Bibbiano, li venivano a studiare da tutto il mondo fin dal secolo scorso.
Certo, il vento nazionale resta contrario. Le difficoltà del governo, acuite dall’egocentrismo di un Renzi che si considera un novello Macron, sono sotto gli occhi di tutti. E’ difficile andare avanti sulla normale attività, si va in tilt appena c’è una crisi. In più il sempre più rapido declino dei 5 stelle li porta a dei guizzi disperati, come il pesce preso all’amo che tenta l’ultimo vacuo tentativo di sottrarsi alla lenza.
Andiamo con ordine. Il fiorentino dice ormai apertamente quello che qualcuno “sospettava” già da anni. La sua lettura della famosa “vocazione maggioritaria”, che tanti danni ha portato alla sinistra italiana, era già evidente, bastava avere la capacità di guardare con occhi distaccati le sue azioni: trasformare il Pd in una novella Dc, capace di aggregare voti un po’ da tutte le parti, ma puntando decisamente a quel centro moderato che il declino di Berlusconi ha via via liberato. Che in tanti se ne se siano accorti a cose fatte è uno dei sintomi più evidenti della pochezza della nostra classe dirigente. E di fatti con c’è riuscito più per la sua incapacità strategica che per meriti altrui. E adesso ci riprova con la sua nuova creazione. Lo ha dichiarato apertamente: vuole fare come Macron, (che a casa sua sta riscuotendo evidenti successi!) ovvero svuotare il campo socialista come è successo, a suo dire, in Francia. Peccato che dimentichi come la crisi irreversibile del Psf ha portato sì consensi a Macron, ma parallelamente è cresciuta fino a raggiungere il 20 per cento l’esperienza della sinistra della France Insoumise. Devo ancora ripetere che in Italia manca, a oggi, una risposta da sinistra?
Di certo, comunque, il protagonismo renziano, sia sulla manovra economica, che sui temi più politici delle alleanze per battere la destra, alza il livello di conflittualità nella coalizione che sostiene il governo Conte e questo non fa bene. Sia per il blocco dell’azione del governo stesso che deriva dai veti contrapposti fra Italia Viva e i 5 stelle, sia perché tutto questo, come risultato finale, porta a un grande disorientamento fra gli elettori. La politica, mi prendo una riga per ricordarlo, è una cosa in fondo semplice: i voti si conquistano lanciando messaggi chairi al blocco sociale che si vuole rappresentare. La confusione, o il voler rappresentare tutti che in fondo è un po’ la stessa cosa, ti porta automaticamente a perdere.
Dall’altro lato il Movimento 5 stelle appare incapace di tornare alle origini, dopo la sbornia dei 14 mesi leghisti. Per cui quella che dovrebbe essere, almeno a guardare le rispettive carte di identità, la parte più vivace del governo, quella capace di lanciare proposte innovative, di dare risposte originali ai problemi che dobbiamo affrontare, si ritrova al contrario a guardare soltanto al proprio ombelico. Il centralismo poco democratico di Di Maio ha avuto come prima conseguenza l’imborghesimento di tutto il Movimento che è diventato nel giro di pochi anni un partito normale, con le sue correnti, le sue poltrone da difendere, senza però avere la struttura e le regole democratiche di un partito normale. E’ evidente, soprattutto, la distanza con le aspettative del suo corpo elettorale.
E allora cambiano linea due volte al giorno, vagano alla ricerca della purezza perduta, senza capire che la strada giusta sarebbe quella indicata da Zingaretti. Il M5s, sulla carta, potrebbe essere davvero la gamba indispensabile per provare a costruire un’alleanza in grado non solo di battere la destra, ma di governare il nostro Paese con la necessaria discontinuità rispetto al passato. Ma deve tornare a essere quello che difendeva l’acqua pubblica e predicava trasparenza in tutte le scelte. Servirebbe, forse, una presenza rinnovata di Beppe Grillo, che sarà anche un pazzo, ma è forse l’unica ancora di salvezza alla quale possono aggrapparsi.
Tutto questo per dire che a gennaio sarà dura anche in Emilia. Anche in una Regione da sempre governata bene dalla sinistra, che rischia però di piegarsi a un vento nazionale contrario che sembra sempre più forte. Per questo piazza Maggiore è un bel segnale. Un segnale che c’è ancora un tessuto sociale forte che non vuole “legarsi”, come dicono i ragazzi che hanno organizzato la manifestazione di ieri. Dobbiamo avere la capacità di partire da quella piazza e non dalle convention che si annunciano storiche e finiscono per essere un vetrina mediatica di basso profilo.
Emilia, a gennaio dacci un bel segno.
Una manovra economica da Paese normale. Ma basta? Il #pippone del venerdì/117
Al di là dei giudizi di merito, proverò a dire due o tre cose più avanti, la cosa che più balza agli occhi è che dopo i 14 mesi siamo tornati a essere un paese normale. Al di là dei tormentoni giornalistici sui vertici notturni, su presunte liti furibonde e valanghe di emendamenti in arrivo, la manovra economica questo dice. C’è una coalizione fra forze politiche che fino a pochi mesi fa stanziavano stabilmente su sponde opposte. Ma nelle pagine della manovra economica si intravede un disegno collettivo. Chi lo avrebbe detto appena ad agosto che non ci sarebbero stati scontri con l’Europa né piazze dove si annunciano provvedimenti epocali?
Zingaretti dice che “abbiamo fatto un mezzo miracolo”. E forse il miracolo è proprio questo. Essere tornati a essere un Paese normale, dove chi governa si prende le sue responsabilità senza troppa enfasi. E’ solo il primo passo. E bene fa il segretario del Pd a premere sull’acceleratore proponendo che quella che avrebbe dovuto essere un inciampo in una storia diversa diventi un’alleanza strutturale, in grado di competere alle elezioni per vincere. Siamo appena all’inizio, perché pur sempre di forze molto diverse si tratta. E poi resta l’incognita Renzi, che in molti danno come mandante di un altro ribaltone per far cadere Conte subito dopo il voto finale sulla manovra. Restiamo ai fatti. Dovrà cambiare il Pd, dovranno diventare più simili a un partito tradizionale anche i 5 Stelle, se vogliono essere davvero fattore di cambiamento e non una meteora che si brucia nel giro di una tornata elettorale. Servirà, non mi stanco di ripeterlo, una forza nuova della sinistra italiana, che non si può considerare esaurita nel Partito democratico.
Piccoli segnali di questa necessaria evoluzione ci sono. Per quanto riguarda il Pd, la proposta di un nuovo statuto fa i conti con la realtà ed elimina l’automatismo segretario/premier. L’abbiamo importata dai sistemi anglosassoni, ma da noi, con un sistema politico multipolare, non funziona. Piano piano abbandoneranno anche l’illusione della vocazione maggioritaria. Che non si significa rinunciare a crescere, ma capire che si rappresenta un blocco sociale, non l’intero corpo elettorale.
Nei 5 Stelle cominciano a spuntare voci dissonanti. E anche questo è un bene. Perché un partito ha bisogno di discussione, di dissenso. Non può essere semplicemente espressione di un leader, altrimenti dura fin quando il leader stesso resta in auge. La lezione di Forza Italia dovrebbe insegnare qualcosa.
Resta sullo sfondo, al momento, la questione di una nuova forza della sinistra italiana. Che poi è paradossale: in quasi tutte le tornate elettorali a cui abbiamo assistito, regionali o amministrative, sono state presentate liste che, in un modo o nell’altro, provano a proseguire l’esperienza di Leu. Hanno funzionato quando rappresentavano un reale radicamento sociale e non una semplice accozzaglia messa insieme per eleggere qualche rappresentante. Hanno fallito miseramente quando era evidente il contrario. Non si capisce bene perché, avendone a quanto pare tutto il tempo, non si dovrebbe continuare a lavorare in quel senso anche a livello nazionale. Questione, come spesso è accaduto in questi anni, più di piccoli egoismi che di reali differenze.
Qualche notazione sul contenuto della manovra economica. Ci sono più tasse per chi le può pagare, un progetto che va oltre l’anno sulla lotta all’evasione, si comincia a intervenire sul cuneo fiscale premiando i lavoratori e non le aziende. Si parla di investimenti sulle infrastrutture, ci sono forme di tassazione sulle produzioni più inquinanti a partire dagli imballaggi di plastica. Del resto, perché stupirsi? Viviamo in un’economia di mercato e finché le confezioni ecologiche non saranno più convenienti della plastica continueremo a beccarci le fettine confezionate una a una in vaschette e pellicola. Sarà che io sono un nostalgico dei vecchi cartocci in cui una volta ti consegnavano tutta la spesa e anche del vuoto a rendere. Insomma, non mi dispiace, il green new deal non può essere solo uno slogan.
Una manovra che lancia segnali precisi, insomma. Certo, si poteva essere più coraggiosi accelerando su alcuni punti, penso ad esempio l’uso delle carte al posto del contante. Ma già che si introducano sanzioni per i commercianti che non ti fanno usare il bancomat mi pare un grande passo in avanti, in un Paese che da sempre apprezza chi fa comizi sul cambiamento, ma poi fa le barricate anche se cambi un senso unico in una strada di campagna.
C’è un generale processo di semplificazione sulle tasse, ad esempio per quanto riguarda il regime fiscale che riguarda la casa. C’è la prospettiva di ticket sanitari più giusti, che permettano a una platea più ampia di avere garantito il diritto alla salute.
Basterà a rilanciare il nostro Paese? Io credo che più del contenuto delle norme, i mercati, gli investitori, ma più in generale anche i cittadini, guardino alla capacità complessiva di governare che avrà l’esecutivo guidato da Conte. L’economia è anche un fatto psicologico. E così se gli investitori sono attratti sicuramente da un luogo che ha miglior infrastrutture, una giustizia rapida, un contenzioso minore, è anche vero che la nostra propensione a spendere aumenta se abbiamo la percezione che il nostro futuro può essere migliore. Si compra una casa nuova non tanto e non solo perché i mutui sono bassi, ma perché abbiamo la sensazione che il nostro lavoro è stabile e abbiamo la possibilità di migliorare la nostra posizione. Per anni siamo stati bloccati dalla percezione contraria. Per anni siamo stati impegnati a odiare chi aveva meno di noi e contro i più deboli abbiamo scaricato ansie e frustrazioni.
Questo è il grande compito che deve porsi questo governo. Cominciare a cambiare la percezione che i cittadini italiani hanno del loro futuro. Basterà una manovra economica? Sicuramente no, ma qualche passo nella direzione giusta lo abbiamo fatto.
L’unico governo possibile, sperando che basti
Il pippone del venerdì/111
Insomma, abbiamo il governo, che non sarà un dream team, ma del resto in giro tutti questi fenomeni della politica non ci sono. Dicono che sia il governo più di sinistra nella storia d’Italia. Ora, non so se sia vero, quello che è certo è che la sinistra, ancora una volta si fa carico del Paese in un momento molto difficile.
Difficile resistere alla tentazione di dire che ve lo avevo detto, che ad agosto era meglio andare in vacanza e dimenticarsi della politica. Una lezione che farebbe bene ad apprendere il capitano Salvini, che ha messo insieme le due cose, arrivando a perdere nel giro di pochi giorni non solo tutto il potere faticosamente accumulato nel giro di anno, ma – cosa per lui ben più grave – perde il mito di invincibile che si era costruito inanellando una vittoria elettorale dopo l’altra. Regione dopo Regione, per arrivare al picco delle Europee, Salvini aveva trasformato la Lega da movimento locale a partito in grado di vincere ovunque, perfino nel profondo sud da cui, fino a pochi mesi prima, avrebbe voluto addirittura la secessione. Devono essere stati fatali i troppi cocktail.
Ha vinto troppo, si potrebbe chiosare, e si è montato la testa. Ora lo aspetta una – speriamo lunga – traversata nel deserto da cui potrebbe anche uscire come un pollo spennato. Ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza. Bisogna tornare a governare l’Italia dopo un anno vissuto più sugli annunci, sui manifesti politico-ideologici trasformati in leggi bandiera, che sui provvedimenti in grado di incidere davvero sulla crisi del nostro Paese. Ha ragione Zingaretti, compito di questo nuovo esecutivo è chiudere la stagione dell’odio.
Sulla nuova alleanza Pd-M5s non voglio tornare neanche troppo a lungo. Da tempo – posso quasi vantare una primogenitura dopo l’intuizione di Bersani (se gli dessimo retta qualche volta…) – vado in giro dicendo che la sinistra e il Pd potevano tornare a concorrere per la vittoria soltanto spaccando a martellate l’asse fra Di Maio e Salvini e riportando il movimento fondato da Grillo alle sue origini. Origini che, pur con tinte miste di populismo e democrazia elitaria, non potevano che essere nella lunga crisi vissuta dalla sinistra italiana. La tematica dei beni comuni, i diritti sociali e civili, una nuova stagione di sviluppo legata al rispetto e alla conservazione dell’ambiente, solo per citare alcuni degli argomenti che i grillini delle origini agitavano come loro bandiera esclusiva, sono i temi con cui la sinistra in tutto il mondo sta facendo i conti. E solo uscendo dall’equivoco bastardo della mitigazione del neo liberismo si torna a essere percepiti come punto di riferimento.
Certo, si poteva fare un anno e mezzo fa. Non sto a dire è colpa di questo o di quello. Certo, dopo la disfatta elettorale delle politiche, il Pd c’ha messo troppo a metabolizzare il nuovo quadro politico. Ci si è baloccati con qualche zero virgola in più in qualche tornata elettorale, ma per tornare in campo davvero c’è voluta la cantonata agostana di Salvini. Solo quando si è aperto lo spiraglio, e anche in questo caso con tempi di reazione davvero troppo lenti, si è riusciti ad aprire lo sguardo e a capire che davvero le elezioni in questa fase era l’ultima cosa che si poteva concedere.
Del resto la politica è una cosa semplice: se il tuo avversario vuole una cosa è il caso di cercare di fare l’esatto contrario. Per capire questo principio elementare, per arrivare a quella conclusione che fra i comuni mortali era data per ovvia, c’è voluta la discesa in campo di tutti o quasi i padri nobili del Pd. E c’è voluto il via libera preventivo di Renzi, che al contrario si muove sempre con grande rapidità anche nelle conversioni a U, per mettere in moto le diplomazie e riaprire la partita.
Ora, dicevo, il Conte bis non sarà il governo dei sogni, ma segna alcuni punti secondo me molto interessanti. Il primo è il ritorno dopo tempo immemorabile di un politico puro all’Economia. Un professore di Storia, che però ha presieduto una commissione economica al Parlamento europeo e proprio per questo può essere in grado di far tornare l’Italia a quel tavolo delle decisioni europee da dove siamo stati esclusi per troppo tempo e in una fase davvero cruciale. Del resto l’Europa non potrà che guardare con occhio benevolo e attento al nostro ritorno fra i paesi che considerano l’Unione come l’unico approdo possibile. Togliere un grande paese, come siamo nostro malgrado, dalla lista di chi rema contro e si muove con minacce e ritorsioni, aiuta il processo di crescita di tutta la Ue.
Avrei voluto, lo confesso, un politico puro anche al Viminale. Ma del resto sono comprensibili le apprensioni del presidente Mattarella che ha avvertito e credo “caldeggiato” (diciamo così) la necessità di riportare alla normalità democratica un ministero delicato che in quest’anno e mezzo è diventato un po’ coatto, come diciamo a Roma. Una macchina che è andata spesso fuori giri deve tornare a lavorare normalmente. Nulla di meglio, dunque, che un prefetto esperto come Lamorgese, nota tra l’altro per le sue vere e proprie battaglie per difendere i diritti dei migranti dalle sparate leghiste, che sarà in grado di tranquillizzare i dirigenti del ministero, riportando la situazione sotto controllo senza essere vista come un corpo estraneo.
Bene anche il ritorno in campo di Leu: faccio notare che si era rotta l’alleanza sul no di Sinistra italiana a un rapporto organico con il Pd, ma appena si è intravista l’opportunità di un governo nuovo tutti i no sono spariti d’incanto. Sarebbe il caso di riprendere il percorso, ma temo che le ambizioni personali saranno ancora una volta un macigno inamovibile. Bene, ovviamente, il ministero della Salute assegnato a Roberto Speranza. Quello del rilancio della sanità pubblica era uno dei nodi centrali del nostro programma, potremo provare a fare qualcosa da attori protagonisti.
Mi lascia qualche dubbio, anche visti i suoi precedenti, lo spostamento di Di Maio agli Esteri. Sembra più che altro un premio di consolazione. Speriamo che resti ingabbiato nelle rete che si potrà costruire fra Amendola, inviato da Zingaretti agli Affari Europei, Gentiloni, che andrà a fare il commissario dell’Unione europea probabilmente con responsabilità proprio degli affari economici, e, appunto, Gualtieri che dal Mef avrà una posizione privilegiata per poter incidere sulla nostra politica estera.
Ultima considerazione su Zingaretti che, dopo aver toppato l’avvio, si è rimesso in carreggiata e ha preso pian piano il centro della scena da segretario vero. Ha delegato agli esperti (Franceschini in primis) la conduzione quotidiana della trattativa, intervenendo puntualmente per eliminare le mine che si sono presentate via via in questo travagliato mese di tira e molla continuo. Ha ceduto su alcuni punti mirando al bersaglio grosso: riuscire a costruire questo governo non con un contratto fra estranei ma con un programma comune che fa ben sperare. E ha portato a casa ministeri di sicuro rilievo. Ora si tratta di procedere giorno per giorno verso un’alleanza strutturale e non più imposta dalle circostanza.
Insomma, a Salvini gli eccessi sulle spiagge italiane potrebbero davvero costare cari. Sta al nuovo governo Conte lasciarlo a rodersi il fegato. Del resto a settembre si torna dal mare e gli stabilimenti si apprestano a chiudere. Lasciamoci alle spalle anche quest’anno e mezzo che ha spezzato le coscienze, aumentato le fratture nella nostra società e cominciamo a ricostruire. Si può fare. A patto che sia davvero il governo della discontinuità, ma non solo con il passato recente.
Primo: imparare di nuovo a fare l’opposizione.
Il pippone del venerdì/109
Da più parti, nelle svariate formazioni che si definiscono di sinistra, sento levarsi appelli a “costruire l’alternativa”. E sicuramente questa esigenza c’è. Sarebbe interessante discutere su questi temi con chi sta al 20 per cento e parla di vocazione maggioritaria, ma su questo abbiamo scritto e dibattuto a lungo. Sapete come la penso: per me la partita per governare questo Paese si può riaprire soltanto ridefinendo il campo della sinistra e disgregando l’alleanza di governo: se non si scioglie l’abbraccio Salvini-Di Maio siamo condannati a lottare per il secondo posto. E un campionato dove si sa già chi vince non è interessante, soprattutto se non sei la Juventus.
L’alternativa dunque per me si costruisce così. Un segnale interessante, in questo senso, è arrivato dall’Europa, dove i 5 stelle hanno votato insieme a popolari, socialisti e macroniani contro i sovranisti. Sarebbe bene mettere un cuneo dentro questa crepa e amplificare ogni giorno le contraddizioni nella maggioranza di governo, ma mi pare che siamo ancora ai pop corn di Renzi che, non a caso, interviene subito per spegnere ogni flebile fiammella: l’ipotesi di un’alleanza Pd-5 Stelle che torna a farsi strada sulle pagine dei giornali, per lo statista di Rignano “non è un colpo di genio, ma un colpo di sole”. Linea del resto subito sposata da Zingaretti e soci che hanno paura di fare la parte di quelli troppo intraprendenti. Restano possibilisti i vecchi democristiani alla Franceschini, altra scuola va riconosciuto.
Ma, dicevo, per me questo discorso è archiviato. Molto più banalmente in questo pippone di metà luglio, volevo parlare della necessità di imparare di nuovo a fare l’opposizione. Perché per poter essere percepiti come alternativa credibile a qualcosa, bisogna prima essere in grado di dare battaglia anche da posizioni di minoranza. Fare squadra, innanzitutto. Mettere insieme un po’ di parole d’ordine credibili, individuare il blocco sociale a cui ci si vuole rivolgere. Aprire un dialogo. Cosette semplici, in apparenza.
In realtà a me sembra che i gruppi dirigenti della sinistra dispersa siano un po’ come i pugili suonati, quelli che non riescono a riprendere lucidità tra un cazzotto e l’altro e si possono salvare soltanto se suona la campana per tempo. Peccato che qui i pugni arrivano senza soluzione di continuità e i Ko, malgrado ogni volta si trovi qualche motivo per esultare, si susseguono, elezione dopo elezione, regione dopo regione, comune dopo comune. Forse sono soltanto io che li vedo così, ma mi sembra che non ne azzecchiamo una manco per sbaglio. Intanto scegliamo sempre il campo che l’avversario preferisce: immigrazione, difesa dei diritti civili. Tutti temi che non possiamo lasciare alla propaganda leghista, ci mancherebbe, ma non possiamo parlare e fare manifestazioni solo sugli sbarchi dei clandestini o scandalizzarci per gli sgomberi delle case occupate (sempre dai nostri salotti, ci mancherebbe).
Un esempio lampante della nostra incapacità ormai conclamata di fare opposizione è stato l’incontro fra Salvini e le forze sociali. A me sembra evidente che quando ti convoca il vicepresidente del Consiglio tu ci vai, ascolti e poi ovviamente dici la tua. Non sta al sindacato stare a sindacare sulla qualifica che ha Salvini e sulla legittimità della convocazione. Per te è il numero due del governo e il leader del primo partito in Italia, non puoi sfuggire al confronto. Poi devi avere la schiena dritta, ma questo non mi pare possa essere contestabile a Landini. A sembra evidente anche che si trattava di una occasione ottima per sparare a pallettoni su un governo dove manco si capiscono più i ruoli e il ministro dell’Interno fa anche le parti di quelli del Lavoro e dell’Economia. Un’opposizione attenta avrebbe colto la palla al balzo per aprire ancora di più quelle crepe di cui parlavo sopra. E invece no: tutti a sparare su Landini che non doveva andare all’incontro. Pura follia. Se non ci fosse andato gli stessi avrebbero sentenziato su quanto era vecchio e barricadiero questo sindacato che rifiuta il confronto. Accetto scommesse.
Io capisco che non sia facile perché l’alleanza Lega-5 Stelle mi sembra una specie di tutto compreso: fanno benissimo sia la parte del governo che quella dell’opposizione, a giorni alterni. Si scannano pubblicamente e intanto trattano fra di loro. Alla fine, dopo aver magari trovato qualche tema su cui sviare l’attenzione, si accordano e vanno oltre. E noi abbocchiamo. Oppure rinviano il tema a tempi migliori. Intanto l’Italia continua il suo declino inesorabile e le tensioni sociali non scoppiano. O meglio: non c’è un’opposizione in grado di incanalare le tensioni che pur esistono e trasformarle in un movimento di protesta vero. Questa sarebbe la fase due, dopo aver ripreso a fare l’opposizione. Noi siamo ancora al punto zero. Quello del meglio stare zitti.
Altro esempio: la vicenda Alitalia. Ora, a parte l’inversione a U alla quale è stato costretto Di Maio per il quale una quindicina di giorni fa era impensabile la partecipazione dei Benetton perché Atlantia era un’azienda decotta che avrebbe trascinato verso il baratro anche Alitalia e adesso, invece, è diventato un partner industriale essenziale nella cordata guidata da Fs, a parte questo dicevo, ma qualcuno sta provando a capire cosa succede davvero, ad esempio dal punto di vista dell’occupazione? Di quale piano industriale si parla? I lavoratori non dovrebbero essere una componente essenziale del nostro blocco sociale? Stessa cosa succede all’Ilva, dove salvo sporadiche eccezioni i leader della sinistra non mettono più piede.
Basterebbe tutto questo? Come accennato l’opposizione andrebbe fatta vivere nelle tensioni sociali, usata come propellente per ricostruire quella base di consenso che adesso ci manca. Si preferiscono sparute assemblee nei teatri romani. Che poi, essendo metà luglio passata, anche la scelta delle location è significativa della nostra collettiva capacità di farci del male. Ecco, in questo non ci batte nessuno davvero.
L’arroganza del potere e l’impotenza di Zingaretti.
Il pippone del venerdì/108
Torno rapidamente sulla questione morale, perché due notizie di questi giorni mi hanno convinto ancor di più che il tema del rapporto fra partiti e istituzioni resti quello centrale.
Primo fattarello, le intercettazioni del’ex ministro dello Sport Luca Lotti. Una sorta di miniera inesauribile dalla quale, giorno dopo giorno, si potrebbe trarre una specie di manuale di quello che non deve fare la politica. L’ultima è forse la più irritante. Perché l’interferenza sulle nomine, la volontà di sostituire un procuratore scomodo con uno amico, sono fatti gravissimi, forse al limite del codice penale, ma fanno comunque parte di un certo modo di intendere la politica. Che non condivido e contro cui lotto, ma fa parte comunque dell’agire politico. Che un ex ministro dello Sport, invece, dica candidamente che spera di guadagnare 200mila euro trattando non si capisce bene per conto di chi, i diritti tv del calcio, mi sembra davvero assurdo. Si tratta della stessa persona che ha lavorato sulle regole per attribuire quei diritti. Ora, a sentire quanto dice a cena con gli amici, a tempo perso farebbe il lobbista, sempre in ambito sportivo.
Il secondo fatto sono le dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini sul giudice di Agrigento che ha scarcerato la capitana Carola: “Togliti la toga e candidati con la sinistra”, le scrive senza mezzi termini su facebook. Si sa, io sono uno all’antica, per cui il linguaggio di cui il leader leghista continua a far sfoggio malgrado il ruolo di ministro mi urta pesantemente i nervi. Ma che il responsabile della polizia (scusate la semplificazione) passi all’intimidazione nei confronti di un magistrato mi sembra intollerabile.
Sono due episodi che apparentemente non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. E invece, secondo me, rappresentano perfettamente quello che provavo a spiegare alcune settimane fa con il pippone sulla questione morale applicata alla politica, che non è questione di rispetto della legalità, ma di rispetto nei confronti delle istituzioni. E quindi eccolo il legame: l’esercizio del potere sempre più arrogante, sempre più lontano dal quel rispetto quasi religioso che aveva Berlinguer nei confronti dello Stato e che esprimeva con tanta forza nella famosa intervista con Scalfari. Sono noioso ma lo ripeto: o ripartiamo da qui, stabilendo la giusta distanza fra partiti e Stato, oppure tutto il resto sono soltanto parole vuote. Forse anche una parola del presidente Mattarella, in questi giorni, non sarebbe inopportuna.
Lego questi avvenimenti con l’ennesima sconcertante intervista che il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, rilascia oggi sul Foglio. Nel consueto vuoto delle parole del leader democratico, ribadisce alcuni tratti distintivi del suo partito. Il primo è la vocazione maggioritaria. Certo, en passant parla della necessità di costruire una coalizione ampia, ma è una dichiarazione di maniera, di quelle che si fanno per non irritare chi ti gira intorno. Il Pd viene visto come unico elemento di alternativa a questo governo e anche a quello – probabile – che verrà dopo le prossime elezioni. Ci si compiace della propria sopravvivenza, arrendendosi quasi all’ineluttabilità della sconfitta.
Per il resto, come d’abitudine, Zingaretti riesce a dire tutto e il contrario di tutto. Sul jobs act lima le parole – quelle erano state chiare – di Peppe Provenzano, responsabile lavoro della sua segreteria, quasi trasformandole in un apprezzamento nei confronti del lavoro di Renzi. Sull’immigrazione dice che ha ragione Minniti, ma che oggi è stato giusto votare contro la prosecuzione dell’assistenza alle motovedette libiche. Sulle prospettive politiche si limita a spiegare che ritiene che il consenso, di cui almeno riconosce l’entità, riportato da Salvini negli ultimi appuntamenti elettorali, non sia stabile. Quasi una specie di atto di fede.
Non una parola sui temi di fondo, su come la sinistra possa ricostruire una sua credibilità, una sua presenza fra le classi sociali più deboli. A meno che non ci si illuda che sia sufficiente riaprire qualche circolo del Pd nella periferia romana o che serva a qualcosa il giro nelle fabbriche programmato da Zingaretti. Siamo al vuoto assoluto. Anche uno come me convinto che un leader bravo non sia sufficiente da solo, resta basito di fronte all’abilità del segretario dem di non entrare mai nelle questioni importanti, di tenersi alla larga dai temi su cui, al contrario, servirebbe una parola chiara. Quelle parole di cui, azzardo, il popolo di quelli che come sta stanno nel bosco ma hanno orecchie attente, avrebbe un gran bisogno.
Zingaretti, insomma, non è un segretario di partito. Almeno non quello che servirebbe in tempi straordinari. Può essere un bravo amministratore, forse. Può essere uno in grado di mediare fra le correnti, tenendo in piedi quella federazione di diversi che si trova a dirigere, quasi controvoglia. Non è il timoniere in grado di portare la sinistra italiana fuori dalle secche in cui Renzi (e non solo lui) ci hanno cacciato. Ne è talmente consapevole lui stesso che alla prossima assemblea nazionale proverà a eliminare dallo statuto l’identità fra segretario e candidato premier. Tocca solo capire su chi potremo puntare. Il panorama mi sembra scarsino.
Sarebbe ora che tutti se ne facessero una ragione, anche le vedove bianche che non riescono a pensare se stessi se non in funzione del Pd. Per il resto, cari ragazzi, fa caldo: se anche la politica andasse in vacanza, forse faremmo meno danni. Temo che, al contrario, sarà una lunga estate.
Il bisogno di porre una nuova questione morale.
Il pippone del venerdì/106
Il caso Lotti-Palamara ha riempito le pagine dei giornali nelle settimane scorse negli stessi giorni in cui, coincidenza davvero singolare, la sinistra ricordava la morte di Enrico Berlinguer, il dirigente politico che con più forza pose il tema della questione morale. Un ricordo, lo dico subito, che molti farebbe meglio a evitare, per non cadere nel ridicolo. Quando si parla dell’esempio di Berlinguer sarebbe bene averlo presente quell’insegnamento e non declamarlo una volta l’anno. Ma passiamo oltre, tra l’altro a me i santi non sono mai piaciuti, tanto meno i santi laici.
Chiariamo subito, quando si parla di questione morale non si pone semplicemente un problema di rispetto della legalità. Non è questo un tema di cui si deve occupare la politica, spetta alla magistratura che deve essere messa nelle condizioni di fare il suo lavoro. Berlinguer intendeva un’altra cosa quando parlava di questione morale. Intendeva il rispetto che i partiti devono avere per le istituzioni che non devono essere sottomesse a interessi di parte, ma devono restare terze, poste su un livello superiore.
Per questo fa quasi sorridere che la difesa (politica) di Lotti e soci sia tutta basata su due pilastri: il primo è “così fan tutti”, il secondo è “non hanno commesso alcun reato”. Sul secondo, proprio per il ragionamento che facevo prima, non spetta a noi valutare eventuali profili penali. A me il comportamento dell’allegra combriccola proprio al di sopra di ogni sospetto non sembra, ma è una mia opinione e vale zero. E’ sul primo postulato che mi si accappona la pelle. Perché la sinistra italiana, almeno quella che viene dalla tradizione comunista, aveva fatto della sua diversità su questi temi la sua bandiera grazie a Berlinguer. E Berlinguer poneva con grande forza comunicativa un tema molto chiaro fin da Gramsci e Togliatti.
Ecco, questo secondo me è uno dei punti su cui rifondare una cultura di sinistra nel nostro Paese. Torniamo a insegnare ai giovani il rispetto della sacralità laica delle istituzioni che non devono entrare nelle beghe di partito. Capisco che quello di Berlinguer è un mondo che non c’è più. Ma forse anche per questo gli elettori non ci danno più fiducia.
E allora, proprio in questi giorni in cui si torna con forza a parlare di unità del centrosinistra mi sento di porre questa esigenza che sento molto forte, quella di una nuova questione morale. Io non mi sento di poter stare non solo nello stesso partito, ma neanche nella stessa alleanza, con personaggi che si giocano le istituzioni come fossero una partita di poker. Quello di Lotti è solo l’ultimo esempio, neanche il peggiore forse.
E guardate che non è un tema di regole. In questo Paese di regole ne abbiamo fin troppe. Tante che bloccano la nostra economia, il nostro sistema giudiziario. Ce ne sono anche per garantire la separazione tra i partiti e la magistratura, non facciamoci ingannare da chi ci spiega che un buona parte del Csm viene eletto dalle Camere. E’ vero, ma è anche vero che esistono quorum talmente elevati per l’elezione dei cosiddetti membri laici del Consiglio superiore da garantire la qualità e il prestigio degli stessi. Hanno provenienza di “parte”, ma i voti necessari li fanno diventare autenticamente espressione del sistema politico nel suo complesso e non dei partiti.
E’, invece, un tema di come si sta nel sistema politico e di come ci si comporta dentro un partito quando si hanno ruoli di responsabilità. Faccio sommessamente notare che, neanche tanti anni fa, mettemmo in croce Piero Fassino, allora segretario dei Ds, per una frase infelice su una fusione tra banche. Badate bene, non stava brigando, stava semplicemente informandosi, da dirigente di uno dei principali partiti italiani su un processo di concentrazione di gruppi di credito che avrebbe condizionato pesantemente il sistema economico italiano. Nulla di illegale, ma neanche di poco chiaro dal punto di vista etico, insomma. Eppure quel suo “abbiamo una banca”, suonò a molti, me compreso, come una frase sgrammaticata, sia pure in un contesto colloquiale e informale come quello di una chiacchierata telefonica.
I temi su cui ricostruire una sinistra popolare, forte e autorevole sono sicuramente tanti e differenti. Dal rapporto con i lavoratori, alla necessità di un patto con sindacati e associazioni per ricostruire un tessuto diffuso, sociale prima ancora che politico, alla questione ambientale e dei sistemi i produzione. Di sicuro, però, non si va da nessuna parte se non pratica un taglio netto, a colpi di accetta, con quella cultura politica che predica la sottomissione di qualsiasi istituzione agli interessi di parte. Interessi di lobby, neanche di partito. Diceva bene Bersani qualche anno fa, quando parlò di una eccessiva concentrazione di potere in pochi chilometri quadrati. Era una delle caratteristiche del renzismo, si decideva tutto fra fiorentini. Manco tutti interni al Pd. Basta pensare al potere acquisito in quel periodo da Verdini. Io credo che questa sia una delle caratteristiche peggiori di quella stagione.
Ecco quindi, ben venga l’unità, come la racconta anche oggi in una lunga intervista Massimo D’Alema. Anche se io mica ho ancora ben capito fra chi dovrebbe nascere questa unità, visto che le elezioni hanno stabilito che ormai esiste solo – e anche bello ammaccato – il Partito democratico (su questo sapete tutti come la penso e quindi non mi ripeto). Ben venga l’unità, dicevo, ma che almeno nasca da un bagno purificatore collettivo. Non si può soltanto sostituire un cerchio magico con un altro. Non basta cambiare la latitudine alla quale avviene la gestione del potere, occorre tenersi lontani da quelle pratiche nefaste che avranno anche permesso di entrare nei salotti che contano ma ci hanno portati lontani dai nostri elettori.
Che fare dopo il disastro? Ripartire da ecologia e socialismo.
Il pippone del venerdì/104
Ora, una volta che si sono abbassati i polveroni delle consuete dichiarazioni post elettorali, in cui ciascuno trova una ragione di vittoria, due dati sono evidenti. A livello europeo l’avanzata dei sovranisti, che pure c’è, non è sufficiente a garantir loro la maggioranza in parlamento. Ci sarà un asse ancora più spurio del passato, che vedrà insieme socialisti, popolari e liberisti dell’Alde. Per me è un male, sia chiaro, che comprometterà ancora di più la già scarsa credibilità del Pse. Non si capisce ancora bene quale ruolo possano giocare i verdi, forti di un risultato molto positivo in molti Paesi.
A livello italiano siamo arrivati al minimo possibile per tutte le componenti della diaspora della sinistra. La parte cosiddetta radicale, a forza di presentare nuove aggregazioni posticce e simboli sempre differenti, è passata a miglior vita. Gli altri, dopo proclami di autonomia e lanci di improbabili ricostruzioni, si sono acconciati al ruolo di comparse nel Pd. Aspettano che Renzi e Calenda si tolgano di mezzo per poter rientrare in qualche cantuccio di quella che continuano a considerare la loro casa comune. Chissà se succederà davvero.
Intanto varrebbe la pena segnalare che, oltre alle bacchettate che arrivano dall’Europa, sulle quali Salvini continua a costruire le sue fortune elettorali, in Italia la crisi ha ripreso a mietere vittime a pieno regime. Whirpool che chiude lo stabilimento di Napoli, gli indiani che puntavano al rilancio dell’Ilva annunciano oltre mille cassintegrati. Per non parlare di Mercatone Uno fallito di recente. Le piccole e medie imprese che chiudono non le contiamo neanche più. Centinaia di migliaia di lavoratori rischiano di andare a spasso.
Che si fa insomma? Ci si limita a qualche patetica assemblea (quelle che si fanno ormai in sale condominiali o poco più) nella quale verrà annunciata sicuramente l’ennesima finta fase costituente dell’ennesimo tentativo di costruire l’ennesimo soggetto politico. Ci sarà sicuramente una qualche Falcone che scenderà dal suo salotto e verrà a spiegare come fare, un qualche professore che darà una presunta base culturale al tutto e avanti fino alla prossima batosta.
Ma possibile che non ci sia il modo di rompere questo cerchio vizioso in cui le uniche strade per l’impegno politico sono un antagonismo parolaio dei gruppi dirigenti “radicali” o l’assorbimento fra i moderati del Pd? Hanno detto bene Bersani e D’Alema: non c’è bisogno di nuove rincorse al centro, perché quei voti stanno già nel portafoglio dei democratici. E allora sarebbe il caso, per una volta, di andare fino in fondo a quello che si dice.
Io sono uno di quelli che aveva davvero creduto alla svolta ecosocialista che aveva annunciato Roberto Speranza a dicembre. Il coordinatore nazionale di Articolo Uno spiegò che questo era il paradigma sul quale costruire la nuova sinistra, contemporanea, in grado di affrontare le sfide che abbiamo di fronte. Non uno sterile laburismo in stile ‘900, né un terzomondismo di pura facciata. La sfida era tornare a una critica radicale del capitalismo, un sistema di produzione che ha nel suo dna non solo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma addirittura la scomparsa stessa della specie umana, grazie al riscaldamento globale che porterà a rendere la Terra inabitabile per tutti noi. Le stesse elezioni europee ci hanno segnalato una grande avanzata delle forze ecologiste in gran parte del continente. Anche in Italia, nel loro piccolo, i Verdi hanno aumentato i loro consensi. Non possono essere loro la risposta, ma possono essere parte della risposta.
Avevo creduto a quella svolta, dicevo. Avevo creduto all’annuncio di una fase costituente vera, aperta e innovativa nelle forme. In cui non ci si ponesse il problema dei gruppi dirigenti, ma dei contenuti. Perché una volta stabilità la bussola, ecologia e socialismo insieme, serviva un grande progetto per l’Italia che traducesse i valori in atti concreti. Un progetto radicale. Cosa direbbero, ad esempio, gli ecosocialisti sull’Ilva? La chiudiamo? O il lavoro per la sinistra resta valore che passa sopra la salute, posto che abbia senso un’affermazione del genere?
Tutto si è risolto in un congressino di Articolo Uno, ormai esanime. Hanno deciso di togliere dal nome la seconda parte e si sono auto trasformati in partito. Di ecologia e socialismo non si è più parlato. C’era l’emergenza elettorale e in nome dell’unità e della resistenza alla destra peggiore del mondo ci si è acconciati a un’ospitata nelle liste democratiche, appena due candidati, in posizione mediana, che non sono stati neanche eletti. Come è andata a finire lo abbiamo già detto, non vale la pena tornarci. Vedremo come finiranno i ballottaggi di domenica, se l’avanzata della Lega continua, come suggerirebbero gli ultimi sondaggi. Vedremo se una classe dirigente locale ancora con una certa credibilità personale riuscirà a fare da barriera all’onda.
Adesso, con l’incubo delle elezioni anticipate che incombe sulle nostre teste, le cose sono ancora più difficile che sei mesi fa. Eppure, secondo me, la sfida resta la stessa. Mettere in piedi una forza che faccia del socialismo e dell’ecologia la sua ragione di vita. Che non insegua Salvini e soci in sterili difese dell’Europa, ma lo incalzi giorno dopo giorno sui temi temi veri: la scuola, la sanità, lo sviluppo di una economia che non ci porti all’estinzione. Si può provare ad aprire finalmente questo cantiere, a rispondere a questo bisogno di impegno politico che i ragazzi da mesi ci gridano in faccia? Oppure ci si accontenta di vivacchiare sui quattro gatti che Leu ha portato in Parlamento? Fra un po’ ci dichiarano specie protetta.
Fatemi sapere, fateci sapere cosa avete deciso. Nel frattempo, qua nel bosco la situazione è tornata affollata.
Non capisco che avete da ridere.
Il pippone del venerdì/103
Facce sorridenti, visi rilassati. C’è addirittura chi parla di vittoria e chi, più prudente, si limita al pareggio. Io mica vi capisco. L’Italia che esce dalle urne è il paese europeo più a destra, si supera anche la Francia. Salvini e Meloni insieme, una somma tutt’altro che arbitraria, arrivano al 40 per cento dei voti. La lega, nel giro di un paio di anni, è passata da essere partito locale, che valeva il 3 per cento a livello nazionale, a fenomeno radicato in tutto il Paese. Fa da attrattore a tutte le forze disperse messe in crisi dal crepuscolo di Berlusconi.Una vera e propria impresa: nati come secessionisti, contro i terroni del sud, ora riescono a essere addirittura secondi nell’odiata Sicilia. Va bene avere la memoria corta, ma qui si esagera. La sinistra non esiste più. Fra tutte le listarelle sparse arriva a stento al 5 per cento. Il Pd, sommando tutto il sommabile, riesce a dare un segnale di esistenza in vita e supera il 22 per cento. Un dato che non ci consente di essere ottimisti. Ancora meno, considerando il successo dei candidati renziani in tutta Italia.
Sinistra Italiana e Articolo Uno sono praticamente estinti. La prima, sommata a Rifondazione, non arriva al 2 per cento, mentre i bersaniani segnano un bello zero nella casella degli eletti. A meno che non ci si voglia appropriare del boom di preferenze di Bartolo, ma davvero sarebbe un’operazione ridicola. Perfino lo stentato 3,4 per cento di Liberi e uguali alle politica adesso sembra un miraggio lontano. E anche qui, sia gli uni che gli altri rivendicano la strada scelta, quella della divisione e della subalternità al Pd: si tira avanti. Ingenuamente chi aveva previsto il disastro attuale pensava che una volta arrivati a zero, gli attuali gruppi dirigenti si sarebbero fatti da parte. Manco per sogno. Chissà verso quali sconfitte ci vogliono ancora condurre. Sinistra italiana giura di voler andare avanti con Rifondazione, Articolo Uno pare ormai avviato a una lenta ma inesorabile confluenza nel Pd. Basta leggere l’intervista di D’Alema su Repubblica di ieri: si parla solo dei democratici, visti come unico punto da cui ripartire. Auguri.
Meno peggio di quanto ci si poteva aspettare visti i dati delle elezioni europee, questo va detto, sono andate le amministrative. Ma anche qui, i Comuni vinti sembrano sempre più fortezze residuali sotto assedio che reali segnali di riscossa. Perché se è vero che nella destra chi traina è la Lega di Salvini, è anche vero che non ha ancora una struttura territoriale così ramificata da arrivare nei Comuni. Vincono nel voto di opinione, non riescono ancora a essere competitivi, in molte zone d’Italia, quando scendono in campo i candidati locali. Il prestigio di una buona classe dirigente locale e di buoni sindaci in carica riesce ad arginare l’ondata. Per il momento. Quando la competizione si allarga un po’ però, la destra non sbaglia un colpo: con la vittoria nel Piemonte di Chiamparino siamo a sette Regioni di seguito. Attendo con una certa ansia l’esisto dei ballottaggi fra due domeniche. Temo un effetto trascinamento del risultato nazionale.
Evito di approfondire l’analisi del voto, per non annoiare troppo. Il quadro generale mi sembra significativo. Il Pd, in sostanza mantiene quasi gli stessi voti di un anno fa, in valori assoluti. La Lega esplode, i 5 stelle si dimezzano. Ma i loro elettori passano direttamente a Salvini o all’astensionismo. Di guardare a sinistra o quanto meno al Pd neanche a parlarne.
Insomma, i dirigenti democratici saranno anche contenti, ma devono essere consapevoli che con questi dati non c’è alcun ritorno a un bipolarismo di tipo classico con la contrapposizione destra-sinistra come qualcuno vorrebbe far credere. C’è uno schieramento ben consolidato, che con Berlusconi sfiora addirittura la maggioranza assoluta e non avrebbe problemi, con questa legge elettorale a conquistare percentuali bulgare nelle due Camere. Di fronte c’è il Pd e poco altro. I 5 stelle pagano un anno passato all’ombra di Salvini e pagano l’assenza di un partito strutturato sul territorio, in grado di resistere nei momenti di difficoltà.
Per provare a cambiare questa situazione bisognerebbe cambiare il campo sui cui si gioca. Perché questo schema tende inevitabilmente a favorire la forza comunicativa del ministro dell’Interno, che pur governando si comporta sempre come se fosse all’opposizione. Quando è in difficoltà trova nemici nuovi su cui scaricare i propri insuccessi e mascherare così la debolezza di un governo sempre più chiacchiere e distintivo. Cambiare il gioco, dicevo. Perché se si accetta sempre il terreno proposto dalla destra si finisce per ampliare ancora il loro consenso. Non mi pare ci sia in giro questa consapevolezza. Tutt’altro.
Eppure almeno nel momento in cui il centro sinistra ha più o meno la metà dei voti della destra bisognerebbe capirlo che questo schema va cambiato. Ho assistito a una delle campagne elettorali più vuote della storia. Alzi la mano chi ha capito cosa proponeva Zingaretti per rinnovare un’Europa sempre più distante dai cittadini. Io resto convinto di quanto sostengo da mesi. Il Pd non regge, dalla fondazione a oggi è rimasto una somma di correnti più che un partito. Al massimo, un segretario prudente e accorto come Zingaretti può farlo sembrare meno litigioso, ma è l’effetto di un momento. Per tornare a essere concorrenziali, secondo me servono due cose: intanto una scomposizione delle forze in campo per tornare ad avere una forza di sinistra e una moderata. E poi bisogna aprire un dialogo con i 5 stelle. Non sono più il blocco monolitico schierato dietro Di Maio, si cominciano a sentire spifferi. Facciamoli diventare correnti d’aria. Apriamo un dialogo con loro, sfidiamoli sui contenuti. Anche loro hanno bisogno di sottrarsi all’abbraccio mortale di Salvini se vogliono continuare ad avere un ruolo nel panorama politico italiano.
Resta il tema della classe dirigente che può mettere in moto questo processo. Serve intanto un passo indietro, ma vero non di facciata, di tutti quelli che ci hanno ridotto così. Siamo all’anno zero, insomma. C’è bisogno di cambiare davvero. E temo che il tempo che ci è concesso non sia infinito. Si è aperta la gara tra Renzi e Calenda a chi fa prima a costruire un soggetto politico che sia la casa dei moderati (che in verità la casa paiono averla già trovata fra i democratici) non pare esserci la stessa consapevolezza a sinistra. E così si va avanti, di sconfitta in sconfitta, ma con il sorriso stampato in faccia.
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