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Azzeriamoci tutti per costruire la sinistra che parla al futuro. Il pippone del venerdì/49

Mar 30, 2018 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Mi sono riproposto, nei giorni scorsi, di non esprimere una posizione su quanto successo nel Lazio, in particolare sulla travagliata – diciamo così – formazione della giunta regionale. E mi atterrò a questo mio proposito. Perché credo che la discussione su come sia stata condotta questa partita e sugli esiti (tra l’altro mentre è ancora da scrivere la parola fine) vada fatta nelle sedi che abbiamo a disposizione e non con interviste, post e articoli sui blog. Dico questo non perché creda alla vecchia disciplina di partito che voleva tenere riservate le discussioni. Nel mondo della comunicazione continua questo non è davvero più possibile. Ma perché credo che ci sia un tempo per tutto. Questo, per me, è quello della riflessione interna. Verrà quello dei bilanci pubblici. Alimentare il chiacchiericcio smodato di questi giorni non fa bene a nessuno.

Su tutta questa vicenda, però,  alcune cose mi sento di dirle, al di là della stretta attualità. La prima è l’inadeguatezza complessiva della classe dirigente della sinistra. Non parlo solo di Liberi e Uguali. Mi pare che la lezione del 4 marzo non sia stata ben compresa. E’ stato un voto che ha premiato chi si è presentato come alfiere del cambiamento. Non lo abbiamo capito prima, continuiamo a fare finta che nulla sia successo adesso, insistendo nelle pratiche nefaste che ci hanno ridotto in questo stato. Il Lazio è solo la spia più evidente. La seconda è che paghiamo, come è successo in tutta la campagna elettorale, la mancanza di un processo decisionale riconosciuto da tutti. Questo, prima delle elezioni, non ci ha permesso di arrivare all’accordo con Zingaretti in maniera chiara e lineare. Non ci ha permesso di indicare un capolista alle regionali. E adesso non ci permette di indicare un assessore condiviso. In questa situazione si fanno largo le furbizie, i personalismi, i “tengo famiglia”, le autocandidature, i protagonismi eccessivi di chi rivendica di “aver preso i voti”. C’è una zona grigia favorita dal non avere un processo democratico interno a Liberi e Uguali dove le vecchie pratiche della politica, del sottogoverno, del clientelismo, stanno purtroppo trovando terreno fertile.

Tutto questo avviene fra lo sconcerto dei militanti che hanno creduto nel progetto politico di Liberi e Uguali e hanno continuato a crederci anche dopo il non esaltante 3 virgola qualcosa per cento. Anzi, la dico tutta, questa vicenda, se non governata in maniera sapiente è anche peggio della bocciatura elettorale. Perché se siamo comunque sopravvissuti in una partita tutta giocata in trasferta, oggi rischiamo di allontanare definitivamente proprio quella base militante che ci ha permesso (a stento) la sopravvivenza. Per questo, innanzitutto, non solo sono rimasto sostanzialmente in silenzio, ma inviterei anche gli altri, soprattutto quelli che si (auto)definiscono dirigenti, a fare altrettanto. Mi permetto solo due domande ulteriori: ai cittadini del Lazio interessa qualcosa se l’assessore al Lavoro è di Sinistra italiana o di Articolo Uno? Ma se ci mettessimo uno bravo? Non sarebbe, infine, il caso di coinvolgere anche i compagni di Possibile nella discussione?

Nel Lazio una qualche soluzione, speriamo dignitosa, si troverà. Ma i danni rischiano di non essere riparabili. E in questo quadro il percorso nazionale delineato dagli organismi dirigenti dei vari partiti di origine non pare risolutivo. Anzi. Io credo che ripartire da un’assemblea generale dei delegati di dicembre sia un altro errore grave. L’ho già scritto e lo ripeto. Perché sono stati eletti con una logica pattizia, in base a quote decise non si capisce bene in base a cosa, senza un reale processo di coinvolgimento dei territori. Tra l’altro, mi permetto di segnalare come sia una platea vecchia. Nel frattempo ci sono state parecchie defezioni, come molte altre persone si sono aggiunte in questi mesi di campagna elettorale. Voler far partire un progetto davvero nuovo da un’assemblea morta è un controsenso che rischia di minare alla base il processo che si vuole mettere in campo. Sempre che si voglia davvero mettere in campo.

Io credo che un partito nuovo della sinistra serva. Ma è utile soltanto se passa da un salutare atto di azzeramento. Vanno sciolte tutte le organizzazioni esistenti, mantenendo in carica gli organismi eletti soltanto per l’ordinaria amministrazione e gli aspetti organizzativi. Facciamola così la fase costituente, senza alcuna figura che si arroghi il diritto di dirigere qualcun altro.

E allora come si fa? La mia proposta è quella di un regolamento di poche righe. Assemblee locali convocate dai coordinamenti comunali o di quartiere nelle città più grandi, si eleggono i delegati alle assemblee provinciali in base a una media ponderata del numero degli abitanti e del numeri dei voti alle politiche. Le assemblee provinciali fanno la stessa cosa per il livello nazionale. Contestualmente le stesse assemblee locali eleggono dei comitati provvisori per promuovere il tesseramento alla nuova formazione politica che deve partire contestualmente e gestire la fase transitoria. La nuova assemblea nazionale così eletta elegge tre comitati: un comitato organizzativo provvisorio, che pensa alla gestione quotidiana del partito un comitato per la forma partito e lo statuto, un comitato per il manifesto dei valori. Ci si dà un tempo preciso, poi i documenti elaborati vengono messi in discussione, con lo stesso procedimento partendo dalle assemblee locali, che nel frattempo devono essere diventate assemblee degli iscritti.

La precondizione perché tutto questo abbia successo è che le assemblee locali siano davvero aperte. A quelli che hanno fatto la campagna elettorale, agli elettori di Leu, ma anche a chi ha scelto, a queste elezioni, altre formazioni elettorali del centro sinistra. Anzi, io rivolgerei da subito un appello anche a Potere al popolo a partecipare a questo processo. Coinvolgiamo tutti quelli che ci stanno, non solo singoli. Anche i sindacati, le associazioni, i comitati dei cittadini, le reti cooperative. Torniamo a dare importanza a quei livelli intermedi che una idea sbagliata di società tende a cancellare. Ha ragione chi dice che serve un partito che “faccia società” non solo politica. Nel periodo transitorio si deve pensare a radicare il partito: sezioni territoriali, diffusione sul web, reti e riferimenti sociali da ricostruire da zero.

Conosco le critiche a questa idea di una fase costituente “senza la rete di protezione”. Ci sarà chi dirà: “No, io prima di sciogliere il mio partito devo sapere dove si va, quale direzione si prende”. Stolti. Il vostro partitino non esiste più, è solo un ostacolo: siete ostaggi di qualche dirigente narciso che si specchia e si piace da solo. La direzione non ce la può indicare nessuno, la dobbiamo costruire insieme.

Io credo che ci siano tutte le possibilità per tornare a svolgere un ruolo determinante per la democrazia nel nostro paese. Io nel nome sarei chiaro, lo chiamerei Partito socialista dei lavoratori. Basta con i riferimenti generici. Il nostro campo è il socialismo, ovvero il superamento del capitalismo. Il nostro blocco sociale sono i lavoratori.

Sarà, insomma, anche un azzardo, ma adesso in mano abbiamo soltanto un pugno di mosche. Prima di tornare nel bosco ci voglio ancora provare e come me tanti altri. Proviamo a farlo insieme. Grasso, Speranza, Civati, Fratoianni diano un segnale, ci dicano: “Cari compagni, abbiamo capito la lezione, ora si fa sul serio”. Noi ci siamo.

L’arte di prendere per il culo il popolo.
Il pippone del venerdì/40

Gen 19, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Lo so. A voi piace quando dedico questo spazio al taglio (spesso con l’accetta) dell’attualità politica, quando entro a gamba tesa nell’agone della quotidianità. Però il pippone non nasce per guadagnare like o portare lettori sulle mie tesi. Resta una specie di esercizio mentale che mi impongo, uno spazio nel quale soffermarmi a riordinare idee e provare a ragionare in chiave meno immediata. Si chiama pippone mica per scherzo. Vuole, anzi deve essere noioso e non sconveniente al tempo stesso.

E allora oggi vorrei partire da qui, dallo stato della politica italiana ridotta a cumulo di promesse senza senso, per capire l’origine di quanto accade. Il berlusconismo ha rotto ogni argine. Ormai “un milione di posti lavoro” lo dicono più o meno tutti, “più dentiere per tutti” sembra un ritornello di una canzonetta estiva. Insomma la gara è a chi le spara più grosse. Io non credo che sia solo questo però, il berlusconismo è l’effetto della malattia, non la causa. E’ il bubbone evidente, che va sicuramente inciso, ma l’incisione non risolve le cause profonde del degrado dell’offerta politica nel nostro paese.

Parto da un esempio concreto, ma solo per spiegarmi: ieri mattina, intervista mensile di D’Alema sul Corriere della Sera, ormai depositario dei pensieri del Max nazionale. Come al solito fa un quadro della situazione, condivisibile o meno ma sicuramente accurato, fa una previsione sul risultato delle elezioni, basato sulla concretezza sia pur effimera dei sondaggi non sulle fanfaluche della propaganda, poi spiega, in tutta crudezza che se non ci sarà, come è facile prevedere, un vincitore, servirà un “governo del presidente”, cioè un esecutivo che guidi il paese con spirito di servizio per una fase breve, con compiti limitati prima di tornare a votare. Una legge elettorale decente, ad esempio. Che magari ci dia una maggioranza alla fine dei giochi. Parrebbe una affermazione legata al buon senso. Eppure, nel giro di un battito di ciglia, si scatenano gli acefali: D’Alema farebbe meglio a stare zitto, non si dicono certe cose, siamo al solito inciucista.

Ora, non vorrei fare il solito difensore del baffetto, avranno anche ragione. Certe cose in campagna elettorale non vanno dette. Si fanno dopo. Evitando la partigianeria elettorale vorrei solo partire da qui per ragionare su come si sia estinta una cultura politica che univa al tempo stesso una visione sul futuro e la concretezza di un’analisi basata sulla realtà. La cultura dei Gramsci e dei Togliatti, ma anche dei De Gasperi e dei Nenni. Nel secolo scorso (sigh!) i partiti, non solo quelli che si rifacevano al socialismo, avevano una visione ideologica che gli dava una sorta di “cielo”, ma non dimenticavano la crudezza della situazione realtà e avevano una ricetta concreta per il presente, una specie di “terra” alla quale restare ancorati e nella quale mettere radici. Venute meno le ideologie, finite anche le visioni, ormai la dimensione della politica si è ridotta alla quotidianità. Una quotidianità alla quale manca dannatamente il cielo. Basta pensare ai giovani che sempre più si allontano dalla militanza: non hanno un sogno in cui identificarsi e i giovani hanno bisogno dei sogni, di una prospettiva visionaria, di identità. Venuti meno i grandi pensatori del ’900, i nani della nostra classe dirigente attuale hanno sostituito le idee con la pubblicità. E la politica da arte del governare è diventata arte del prendere per il culo il popolo. C’è chi lo vuole al potere e spesso schifa i quartieri che non hanno manco una sala da tè. C’è chi lo vuole felice e beota e lo rincoglionisce di termini inglesi per non fargli capire nulla. C’è chi gli promette ricchezze da mille e una notte.

Per questo i Corbyn, i Sanders sembrano giganti. Guardate che mica fanno niente di eccezionale. Parlano di socialismo, di una società del futuro che superi le ingiustizie del capitalismo e provano a rendere questo nostro cielo comune più terragno con proposte pratiche: niente tasse sull’università, ad esempio. Ha fatto discutere la riproposizione alle nostre latitudini dell’idea che in Gran Bretagna ha spopolato. Non entro nel merito, sul fatto che i diritti debbano essere universali ci sarebbe da scrivere un libro. Faccio notare che abbiamo per lo meno introdotto nel dibattito quotidiano un elemento che dà l’idea del futuro, di una nazione che non pensa solo al proprio egoistico oggi ma guarda per lo meno ai propri figli.

Ecco, tornare a coniugare sogni e realtà senza questa ipocrita confusione dei piani a cui assistiamo ogni giorno. E dunque: diritti universali – niente tasse sui diritti. Grasso, nel suo impacciato approccio mediatico, ha questa dote: farfuglia, ma ogni tanto ti butta lì un macigno. Ieri sera, rispondendo a una assurda contestazione sulla presunta irrealtà di una forte lotta all’evasione fiscale ne ha buttata lì un’altra, forse troppo in sordina: gli evasori fiscali sono ladri di diritti, ha detto.  A me questo concetto piace e credo che andrebbe sviluppato. Chi non paga le tasse fa in modo che tutti noi abbiamo meno diritti, meno servizi. Non è più dritto e quindi da imitare. E’ un ladro di diritti e deve finire in galera. Chi evade ruba i tuoi diritti. Che ne dite? Funziona come slogan? Secondo me sì, molto.

Il cielo e la terra si uniscono, non si confondono.

Io continuo a sostenere che la sinistra doveva prima di affrontare l’agone elettorale ritrovare il suo cielo. Riproporre una visione sociale e soprattutto socialista. Tornare ad affrontare il tema, il nodo, del superamento del capitalismo. Tornare a dire con forza che non possiamo acconciarci al meno peggio e vogliamo una società che abbatta la forma capitalista di produzione e organizzazione politica. Solo dove l’ha fatto con coraggio la sinistra sta superando la crisi che dura dal crollo del muro. Non abbiamo avuto né il tempo né il coraggio in Italia, ancora una volta abbiamo preferito una coalizione elettorale che, purtroppo, mostra i suoi limiti appena tocca prendere una decisione. Ora bisogna, come dire, scavallare il 4 marzo. Cercando di non arrivarci con troppe ferite. Poi verrà – lo spero – il momento di fare finalmente i conti senza l’assillo di dover conservare la poltrona a qualche parlamentare.

Lo so, sono troppo dalemiano. Penso alla concretezza dell’oggi e provo a trovare la maniera di superare le contraddizioni, a vedere se si arriva a domani. con la poca lucidità di cui sono capace.  Ma credo anche che di prese in giro siamo un po’ tutti stanchi, di pifferai magici ne abbiamo conosciuti tanti. Un po’ di sano realismo, secondo me, ha un suo fascino. A patto di tornare a vedere il cielo. Ovviamente biancazzurro! (E la battuta sarà anche fuori contesto, ma siamo quasi a domenica).

Ryanair, l’ala dura del padrone e il nuovo socialismo
Il pippone del venerdì/37

Dic 15, 2017 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

C’era una volta un paese in cui lavoratori erano protetti dall’articolo 18, i dipendenti licenziati ingiustamente avevano la possibilità di essere reintegrati sul posto di lavoro. Ci volevano anni, ma le sentenze prima o poi venivano emesse. Poi arrivò un tale che si definiva di sinistra, il signor Renzi e disse: roba vecchia. Si cambi, bisogna essere smart.
C’erano una volta i sindacati dei lavoratori. Quelli a cui, con un po’ di burocrazia e tutte le loro lentezze, potevi andare a bussare per tutelare la tua dignità. Poi arrivò il signor Renzi e disse: intralciano lo sviluppo, basta, sono roba vecchia.
C’era una volta Ryanair, una roba dove i piloti volano sostanzialmente a ciclo continuo, che disse ai lavoratori che volevano scioperare: siete vecchi e se lo fate scordatevi premi e aumenti. Renzi e i suoi si infuriarono: non si fa così, i diritti dei lavoratori si rispettano. Vista dall’esterno pare una barzelletta, ma fra un po’ si vota e la sagra delle balle è appena iniziata.

Ora, l’ho raccontata un po’ così, velocemente, tagliando le questione con l’accetta, per arrivare a una conclusione, che fa riflettere sul passato, ma ci dà anche qualche indicazione sul futuro. L’articolo 18 non era inutile ciarpame ideologico come vorrebbero farci credere. Mi direte: sì ma che c’entra con la vicenda di Ryanair? Il danno maggiore che ha creato questo governo (ma secondo me le radici degli errori di questi anni stanno tutti nella nostra sbornia liberista di fine secolo) è l’aver lacerato il Paese, creando le condizioni per cui un’azienda mette addirittura nero su bianco, su carta intestata, il suo esplicito “invito” a non scioperare. Altro che i padroni cattivi che ti facevano sussurrare all’orecchio dal caporeparto che era meglio venire a lavorare, che la tessera del sindacato era meglio non prenderla. Qua abbiamo un’azienda internazionale che te lo scrive proprio. E se ne frega dell’indignazione che ha generato. Come può farlo? Semplice: in questo paese per anni il governo ha lanciato un messaggio chiaro agli imprenditori: venite e fate un po’ come vi pare. E quelli lo hanno preso in parola.

L’articolo 18 è il caso emblematico. Si toglie, si dice che serve massima flessibilità e libertà per gli imprenditori. Si mette all’angolo il sindacato, la Cgil in particolare. E gli imprenditori prendono in parola il governo: assumono con il cosiddetto contratto a tutele crescenti (spesso gli stessi lavoratori che prima avevano forme più tutelate), ci guadagnano con gli sgravi fiscali. E appena finisce il periodo di agevolazioni licenziano e riassumono in forme nuovamente precarie. E vai un po’ a dir loro che non si può fare, che non è elegante. Hai dato loro carta bianca, ci mettono sopra le parole che più gli garbano.

Questo è quello che è successo nel mondo del lavoro negli ultimi 20 anni, di cui il jobs act è una sorta di epitaffio. Un progressivo spostamento degli equilibri: si è tolto potere contrattuale ai deboli per garantire i forti. Facevo riferimento alla nostra sbornia liberista perché da lì parte tutto: dall’illusione che il compito della sinistra fosse diventato semplicemente quello di rendere meno brutto il capitalismo. La globalizzazione andava semplicemente “alleviata”, cercando di correggerne gli effetti più violenti. Che questo non funzionava lo avevano capito bene i movimenti di quegli anni, i cosiddetti “no global”, se andate a rileggere le loro elaborazioni più avanzate, i problemi, l’analisi c’era tutta. E perfino la dimensione del movimento, che univa occidente e terzo mondo, era quella necessaria a comprendere lo scenario nuovo in cui si trovava ad agire il capitalismo e in primo luogo la finanza. L’errore della sinistra fu derubricare quel movimento e quelle elaborazioni a fenomeno pittoresco, spesso anche violento. Andava marginalizzato. Noi a Genova non c’eravamo. E permettemmo che la mano violenta dello Stato spegnesse quel grande movimento mondiale. Genova è stata la fine di quell’esperienza. Quel morto, quella violenza cieca sono serviti a mettere una pietra sopra l’unica strada che la sinistra doveva percorrere.

Da lì la strada è stata in discesa: la crisi stessa dei partiti socialisti nasce dal non aver saputo offrire una sponda politica a quei ragazzi. I movimenti per loro natura sono transitori, è la politica che deve fare proprie le istanze avanzate e dargli stabilità, farle diventare patrimonio duraturo. Manca persino una riflessione approfondita su quegli anni. Non basta dire: abbiamo capito di aver sbagliato a seguire la strada indicata da Tony Blair. Bisogna anche capire, per esempio, che bisogna tornare a ragionare in una dimensione globale. Perché solo così si sfida un capitalismo che ha quella stessa dimensione. Ragionando ancora per pezzettini si rischia di fare la parte di quelli che vogliono acchiappare un elefante con il retino per le farfalle.

Noi siamo in campagna elettorale e a quello dobbiamo pensare. A prendere i voti necessari a dare forza al processo di ricostruzione della sinistra che abbiamo iniziato in questi mesi. E dobbiamo farlo sapendo che lo strumento messo in piedi in fretta e furia non sarà sufficiente. Ma queste sono le condizioni date. Se però quello strumento insufficiente, lo riempiamo di contenuti fin da subito, la sfida possiamo superarla. E dunque dobbiamo guardare a un nuovo internazionalismo, bisogna fare rete con quello che si muove in Europa nel nostro campo, anche andando oltre la casa del socialismo che appare un edificio sul punto di crollare. So che sembrano riflessioni campate per aria e inattuali. Ma io credo che vada la pena, per una volta: cerchiamo di essere un po’ meno provinciali e di affrontare i temi complessi che abbiamo di fronte senza banalizzazioni. I tempi sono brevi, ma i pensieri devono essere lunghi. Non basta dire che la Boschi è bugiarda, la legge Fornero va abolita, va rimesso l’articolo 18: dobbiamo dare una prospettiva.

Ecco, torno da dove sono partito. L’alata in faccia ai lavoratori che Ryanair ha dato nei giorni scorsi è un pezzo di questo processo di arretramento complessivo della sinistra in questi decenni. Siccome noi abbiamo sempre l’ansia degli ultimi arrivati, in Italia abbiamo fatto i compiti meglio e abbiamo cercato di smantellare in tre anni le conquiste dell’ultimo secolo. Dalle pensioni, all’articolo 18, alla scuola pubblica, al servizio sanitario. Ce lo chiede l’Europa, ci hanno detto ogni volta. Volevano soltanto farsi belli agli occhi del capitalismo globale. Che adesso, un pezzo alla volta, ci presenta il conto.

Ora, siete presi dai regali di Natale e capisco che parlare di società socialista può apparire un nostalgico richiamo a un tempo passato. Quindi vi lascio ai cenoni, ai pacchi e ai lustrini, sono stato insolitamente breve e capisco che il tema non si esaurisce di certo così. Ma guardate, sintetizzo ancora, che non c’è altra strada: tornare a parlare della necessità di un superamento del capitalismo, tornare a pensare il mondo nuovo. Liberi e Uguali, ci siamo chiamati. Per me non è un caso: partire da questo simbolo per parlare di un nuovo socialismo.

 

 

 

L’Ulivetto, la rotazione e altre baggianate.
Il pippone del venerdì/20

Lug 21, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

E’ passata una settimana dall’ultimo appuntamento con il pippone del venerdì, ma non ho cambiato idea: sono sempre più convinto che l’ostacolo per l’unità della sinistra in Italia sia Giuliano Pisapia. Per non parlare della strana fauna che gli gira attorno: maestri della politica da salotto che sarebbe bene mandare ad attaccare robuste quantità di manifesti.

Pisapia, bontà sua, ha passato due giorni a Roma per incontrare personalità della sinistra, ma anche del Pd. E già questo si capisce poco. Il risultato di questo lavorio è stato uno striminzito comunicato congiunto con il coordinatore di Articolo Uno, Roberto Speranza, nel quale si auspica un’accelerazione nel processo di formazione di una nuova forza politica progressista. Poco altro. Poi, i soliti retroscena, vero scandalo del giornalismo italiano, ci fanno sapere, nell’ordine che:
1) Gad Lerner quando D’Alema nomina Pisapia si gratta parti non telegeniche;
2) Pisapia conta sempre nell’alleanza con il Pd di Renzi;
3) Prodi benedice l’operazione;
4) Orlando punta all’alleanza con Pisapia.

L’operazione, par di capire, sarebbe una riedizione in scala ridotta dell’Ulivo, un Ulivetto a esser magnanimi, che comprenderebbe equivoci personaggi del centro, ex galeotti compresi, per arrivare fino a Pippo Civati. Resterebbero fuori il movimento di Falcone e Montanari, Sinistra Italiana e ovviamente quelli di Rifondazione che vedono Articolo Uno come il braccio armato del liberismo. Secondo Pisapia, insomma, troppo rosso non va bene. Come il primo luglio, quando in piazza dal palco hanno chiesto di non far sventolare le bandiere per non disturbare. Troppo rosso, appunto.

Insomma, mentre in tutto il mondo la sinistra dà risposte in termini radicali alla crisi che la attanaglia da un decennio, in Italia torniamo a sventolare non le nostre bandiere ma le ricette degli anni ’90. Non è politica, è cinema. Per non parlare della prospettata cabina di regia che dovrebbe guidare questo percorso: un rappresentante per ogni forza politica, più i sindaci “arancioni” più singole personalità. Compito di questo coordinamento sarebbe, fra gli altri, quello di trovare le forme per partire dal basso. Insomma, si nomina dall’alto un coordinamento che deve poi partire dal basso. Se la raccontiamo in giro ci rinchiudono.

Ora, quello che manca, secondo me è proprio la percezione della realtà. Si continua a ripetere come un mantra la parola centrosinistra, mentre le coalizioni che si richiamano a questo concetto vengono letteralmente spazzate via in tutta Italia. Si continuano a nascondere il rosso, il socialismo. La nostra storia deve essere negata. Si tengono nascosti in soffitta i nostri padri ideali, da Marx a Gramsci (io che sono estremista ci metterei anche Togliatti, pensate un po’). Si continuano a progettare nuovi soggetti politici senza darsi una prospettiva, una base culturale. Per quale motivo, lo scrivo ancora una volta, abbiamo deciso che una intera cultura politica, quella che viene dal Pci, non può più avere cittadinanza in Italia? Per quale motivo siamo condannati a questa eterna sindrome di Tafazzi?

Altro argomento interessante è la strana fauna che attornia questo presunto federatore del nulla. Simpatici ragazzotti che si ergono a statisti del terzo millennio e proclamano solennemente che vogliono portare in Parlamento “il miglior ricercatore d’Italia”. Bella soluzione per l’annoso problema della selezione della classe dirigente: si mandino i curricula, si fa la rotazione delle cariche. Questa baggianata l’ho già sentita. Fa il paio con l’avversione per il finanziamento pubblico ai partiti, con le campagne contro la casta. Bisogna portare le competenze in Parlamento. Poi se questi non capiscono un tubo di politica poco male, tanto sono i migliori.
Altri vanno in giro per l’Italia a rivendicare il loro voto favorevole al referendum costituzionale. Altri ancora ci fanno la lezioncina sul fatto che bisogna evitare il rischio “sinistra arcobaleno”. Però sono pronti a tornare al loro ruolo naturale di foglia di fico per Renzi.

Io mi chiedo dove li abbia trovati, perché mica deve essere stato facile mettere insieme una squadra così di livello. Non vorrei replicare punto per punto, perché ho già ampiamente scritto su ognuno di questi temi nel corso di questi ultimi mesi. Una sola domanda vorrei fargli: ma se uno è il miglior ricercatore d’Italia perché non metterlo in condizione di svolgere al meglio il proprio lavoro? In Parlamento non sarebbe meglio portarci i migliori politici d’Italia, quelli in grado di ascoltare le sue esigenze e di tradurle in proposta politica? Guardate che questo, come si seleziona la classe politica (e dunque come si rifondano partiti politici veri, democratici e utili) è il vero tema, il vero nodo che non riusciamo a sciogliere.  A meno che il loro fine ultimo non sia semplicemente costituire una sorta di sinistra delle larghe intese, da Berlusconi a Pisapia. Se è così, auguroni.

Ultima notazione, perché siamo ormai in pieno clima vacanziero e sarà bene che anche i pipponi siano più snelli: mentre noi stiamo a discutere sul nulla, quelli che contano già preparano il prossimo attacco. E’ proprio di oggi un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera (roba seria altro che Repubblica) nel quale si individua il vero obiettivo, il nemico da abbattere. La prima parte della Costituzione. Quella relativa ai principi. Va cambiata radicalmente perché sarebbero quei principi a ingessare la nostra società e a rendere il Paese non in grado di competere. Sia a livello di sistema politico che, ma guarda tu, di sistema economico.

Ecco, cari compagni, questo è quello che ci aspetta nei prossimi mesi. Altro che tende da spostare, altro che discussioni sulle cabine di regia, altro che raffinate dispute epistemiologiche sul sesso degli angeli.

Scarpe rotte, eppur bisogna andar.



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