E se abolissimo del tutto le Regioni?
Il pippone del venerdì/142
Per una volta non faccio la parte del giornalista che si informa da fonti esterne, ma parlo di un argomento che conosco direttamente: le Regioni, le funzioni che hanno acquisito con la riforma del titolo V della Costituzione e come hanno funzionato in questi anni. Ora, visto che dal 2001, in vesti di volta in volta differenti, ho lavorato nel Consiglio regionale del Lazio, posso ben dire di essere testimone diretto di un periodo che va dalla prima applicazione della riforma a oggi. Non vi aspettate ovviamente una disamina approfondita, non può essere questa la sede, mi limito a qualche spunto di riflessione.
Intanto una considerazione di carattere generale: le Regioni sono per lo più costruzioni artificiali, l’Italia è il Paese dei Comuni, al massimo i cittadini riconoscono la loro appartenenza alla Provincia. Basta pensare, per avere un’idea, che lo stemma della Regione Lazio non è altro che la somma dei simboli delle cinque province che la compongono. Del resto, altra notazione a carattere storico-sociologico, anche la formazione stessa dello stato unitario avvenne come somma, avvenuta in vari modi, degli stati locali preesistenti, che quasi mai coincidevano con i confini delle attuali Regioni italiane.
Dunque sono una costruzione artificiale, con confini spesso e volentieri del tutto arbitrari, a volte sono addirittura sbagliati.
Eppure, fin dagli anni ’70, questo ente di governo ha assunto via via più centralità nell’architettura dello Stato, fino a diventare un vero contropotere rispetto a quello centrale. Anche perché, e questa è una notazione di carattere più politico, spesso le Regioni sono usate, da chi si trova all’opposizione a livello nazionale, più come megafono politico contro il governo che per amministrare territori vasti e complessi. Anche durante questa situazione di emergenza abbiamo avuto, ne parlavo giusto qualche settimana fa, casi in cui i presidenti delle Regioni si sono mossi per logiche di propaganda politica invece di dare risposte alle reali esigenze dei loro territori. Certo, poi ci sono differenze rilevanti, ma non ci si può affidare alle capacità dei singoli presidenti se il sistema stesso genera confusione e inefficienza. In più, e passiamo alla seconda considerazione politica, la maggiore assunzione di poteri negli anni è avvenuta più come risposta a mode del momento che per vere esigenze di governo del territorio. La riforma del titolo V della Costituzione, ad esempio, avviene in piena battaglia secessionista della Lega di Bossi.
Il risultato di quegli anni, secondo me, è un pateracchio istituzionale che, come prima conseguenza, rende diversi i cittadini e, in ultima analisi, funziona anche male. Basta guardare ai conflitti che si sono prodotti di fronte alla Corte Costituzionale per avere un’idea della confusione che regna nel nostro sistema di governo.
Le Regioni, infatti, sono una strana via di mezzo fra un ente che produce leggi e un ente che amministra. Dal punto di vista del loro funzionamento interno hanno prodotto una moltiplicazione di apparati, spesso usata soltanto per piazzare ai posti di comando pezzi dei partiti di governo che i partiti stessi non erano più in grado di sostenere. Non è una critica a un’amministrazione in particolare. Qui nel Lazio ha aperto la strada Storace negli anni che vanno dal 2000 al 2005 e poi su quella strada si sono incamminati un po’ tutti, fino ad arrivare agli eccessi della giunta Polverini che tutti conoscete. Non è, a dire il vero, che la situazione sia cambiata di molto: basta pensare che in consiglio regionale a oggi i dipendenti dei gruppi consiliari sono più o meno equivalenti, come numero, ai dipendenti regionali.
Dal punto di vista del funzionamento esterno i guasti si vedono soprattutto nel sistema sanitario. Che funzioni peggio di quello che avveniva all’inizio del nuovo millennio è sotto gli occhi di tutti. Ma anche se funzionasse meglio di adesso, resta alla base una profonda ingiustizia: è sbagliato che cittadini dello stesso Stato abbiano diritti diversi a seconda della Regione in cui nascono, soprattutto se parliamo del diritto alla salute.
E’ profondamente sbagliato che un residente a Napoli abbia diritto a livelli di assistenza differenti da un residente in Trentino. La pandemia ha portato sotto gli occhi di tutti quanto il sistema sia stato devastato da decenni in cui l’unica bussola sono stati i bilanci da tenere in equilibrio tagliando posti letto e servizi territoriali. La rete dei medici di famiglia, un tempo vero e proprio strumento di monitoraggio continuo della salute di una comunità, in pratica non esiste più: i medici di base sono ridotti, vista la quantità di assistiti, a meri scribacchini che firmano ricette di farmaci spesso prescritti da altri, gli specialisti, quasi sempre privati.
A parte che va proprio cambiato il nostro modo di concepire il servizio sanitario che deve essere più diffuso e deve cercare di limitare l’accesso agli ospedali, ma per me è anche evidente che deve tornare a essere competenza esclusiva del governo nazionale. Attualmente, salvo dare linee guida generali, il potere del ministro della Salute è pressoché nullo. Si è visto chiaramente anche durante la pandemia.
E quello della sanità è solo il caso più eclatante. Lo stesso succede per l’urbanistica, per la gestione dei rifiuti, per il trasporto locale.
A complicare il tutto c’è anche l’elezione diretta del presidente della Regione: si è creato un sistema che ha, di fatto, un signore assoluto mentre le assemblee legislative sono ridotte a comparse istituzionali.
Sperando, insomma, che questa emergenza abbia messo una pietra tombale sul concetto stesso di autonomia differenziata che tanto ha fatto discutere negli anni scorsi, va ripensata l’architettura complessiva della nostra organizzazione. Io, da sempre, sono per dare poteri amministrativi veri alle Province, che devono tornare a essere elette dai cittadini. Mi sembra questo l’ente intermedio fra Stato e Comuni che può avere la dimensione giusta per poter essere efficace.
Certo, non è così semplice: bisognerebbe rimettere mano a una vera riforma costituzionale, ripensare profondamente il nostro sistema politico, avendo una visione complessiva e, soprattuto, avendo chiari gli obiettivi da raggiungere. Negli anni si è preferito procedere a pezzi, andando a toccare una volta i poteri delle Regioni, l’altra quelli delle Province, la volta dopo il sistema elettorale. Ne è venuta fuori una specie di guazzabuglio che ha, non solo mandato all’aria il sistema di equilibri pensato nel dopoguerrra, ma anche, in ultima analisi, complicato la vita di tutti noi. Ora, non sarà questo il momento di metterci mano, ma la prossima legislatura deve avere questo obiettivo. Un sistema istituzionale coerente e funzionale è la prima condizione per avere un Paese competitivo, sia dal punto di vista economico che sociale.
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