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Ripartire davvero: lo Stato torni a fare lo Stato.
Il pippone del venerdì/144

Giu 5, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì, Senza categoria

L’Italia in questi giorni è in piena fibrillazione per la fine dell’epidemia. Siccome siamo un popolo a memoria ultracorta, i dati relativamente confortanti degli ultimi tempi hanno fatto in modo che la stragrande maggioranza degli italiani consideri il coronavirus come un fatto del passato. Non per fare l’uccello del malagurio, ma temo che avremo nei prossimi mesi amari risvegli. Di sicuro ci sono alcuni fatti incontestabili: intanto, il lungo periodo passato in clausura ha diminuito la circolazione del virus, poi, un po’ a macchia di leopardo, abbiamo imparato ad affrontarlo meglio. Si fanno tamponi più rapidamente, si tracciano e si individuano i casi sospetti. E trovare i contagiati subito provoca in automatico meno affollamento negli ospedali. Infine, anche in assenza di una cura specifica, i medici hanno acquisito maggiori conoscenza sulla malattia e sul come affrontarla.

Poi, ma questo è un altro capitolo, c’è anche chi dice che lo stesso virus si sia un po’ rincoglionito e contagi di meno. Un fatto del quale manca la pur minima evidenza scientifica, ma al quale credono ciecamente milioni di italiani. Il ragionamento è sempre lo stesso: la natura umana ci porta a credere con più facilità alle tesi che si allineano alle nostre speranze. In pratica: dopo la paura abbiamo tutti bisogno di un’iniezione di fiducia e basta il primo medico di provincia per farci esultare.

Facciamo finta che sia così, anche se resto convinto che serva mantenere alta la guardia per fare in modo che i nuovi, inevitabili, piccoli focolai non diventino per la seconda volt focolai di massa. Certo, per stare un po’ più tranquilli, bisognerebbe anche interdire il presidente della Lombardia, ma questa è un’altra storia.

Facciamo finta che l’epidemia sia davvero alle spalle, dicevo, e proviamo a buttare giù due o tre ragionamenti sulla fase che ci troviamo ad affrontare. Partendo da una domanda, essenziale: è possibile considerare la fase di grande difficoltà del sistema economico come una enorme opportunità per il nostro Paese e non necessariamente come la fine del mondo? Siccome a me questo sistema turbocapitalistico non è mai piaciuto, sarei propenso a sostenere la prima tesi.

Una prima considerazione: saremo anche in una fase di grande crisi, ma avremo, speriamo presto, anche una notevole quantità di risorse a disposizione: fra i vari fondi che l’Unione europea ha messo in campo o si appresta a varare, nei prossimi mesi il Governo si troverà fra le mani una cifra superiore ai 200 miliardi di euro. Se consideriamo che le ultime manovre finanziarie raramente hanno superato i 30, si può capire la portata della sfida che abbiamo di fronte.

La dico brutalmente: abbiamo la concreta possibilità di cambiare tutto. La debolezza del sistema economico fa sì che torni a essere importante la capacità della politica di modellarlo secondo quello che conviene al Paese e non agli imprenditori. Non sono mai stato un sostenitore della tesi di Agnelli che sosteneva un po’ sfacciatamente “ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia”. Direi semmai il contrario: un Paese che funziona, che si rinnova, che punta alla sostenibilità, che ha infrastrutture competitive, va bene anche agli imprenditori.

E allora la prima condizione per ripartire davvero è che lo Stato torni a fare il suo mestiere, ovvero dettare le linee dello sviluppo che ritiene utile ai cittadini. Altro che mani libere per l’economia. Il liberismo sfrenato degli ultimi anni ci porta, in ultima analisi, dritti dritti alle pandemie. Detto questo, il problema è avere un’idea di quello che si vuol fare. Vedremo se nelle prossime settimane, questa eterogenea maggioranza riuscirà a dare un indirizzo preciso alla sua azione. L’idea di Conte di coinvolgere tutti gli attori del sistema politico, economico e sociale per una sorta di stati generali funziona se ci si presenta già con linee di fondo ben delineate, altrimenti diventerà il classico assolto alla diligenza con tanto di distribuzione a pioggia, dove i privilegiati sono sempre quelli in grado di fare la voce più grossa.

Io darei priorità alla cosiddetta rivoluzione green, che deve essere il filo che unisce tutti gli interventi: una sorta di cartina di tornasole, un investimento si fa soltanto se ci porta a fare passi in avanti sulla strada della sostenibilità. Porto come esempio virtuoso proprio uno degli ultimi interventi decisi, il superbonus sulle ristrutturazioni delle abitazioni. Bisognerà aspettare i decreti applicativi (a proposito, quello di scrivere norme chiare e applicabili da subito deve essere uno degli obiettivi principali), ma sembra chiaro che verranno premiati non tanto gli interventi ad alta efficienza energetica, ma quelli che permettono un aumento dell’efficienza energetica: la dico semplice, se hai una casa in classe A++ anche se prendi l’ultimo modello di caldaia perché è più fico, non ti do una lira, se hai una casa in casse G e l’intervento proposto di permette di arrivare alla A, allora sì, ti finanzio.

Non voglio dilungarmi troppo, anche perché qualche cosa sui temi da affrontare (riforme istituzionali e semplificazione) ho già accennato nelle scorse settimane. Credo che però la vera partita sia su chi tiene in mano il pallino. Se questo torna in mano allo Stato che non solo programma lo sviluppo, ma mette mano direttamente nei settori che ritiene strategici, abbiamo davvero la possibilità di avere non soltanto un cambiamento, ma un cambiamento positivo. Se, al contrario, prevarrà la linea di Confidustria (che ha scelto per l’occasione di farsi rappresentare dalla sua parte più conservatrice) per la quale è bene che lo Stato lasci fare l’imprenditore a chi sa farlo, allora resteremo nella situazione melmosa in cui ci troviamo. Anche perché, da noi, tutti questi capitani d’industria coraggiosi e innovativi non ci sono mai stati. Si contano sulla punta delle dita. Il nostro capitalismo è sempre stato coraggioso con i soldi nostri. E di questi soldi ha restituito ben poco. E poi perché la logica non può essere quella del massimo profitto in breve tempo. Perché con questa logica ci siamo ridotti a dover persino elemosinare le mascherine in mezzo mondo. Non conveniva produrle in Italia, dicevano. E, invece, conveniva eccome.

Semplificare va bene, ma con regole chiare e sanzioni certe.
Il pippone del venerdì/143

Mag 29, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Dopo i decreti che complessivamente hanno stanziato più di 80 miliardi di euro per sostenere l’economia disastrata da questi mesi di chiusura, il governo pare voler mettere mano con una certa fretta a una lenzuolata di semplificazioni.

E di certo ce n’è davvero bisogno, in un Paese sommerso da leggi, decreti, circolari e via dicendo. Basti pensare al meccanismo usato all’inizio dell’epidemia per accedere alla cassa integrazione: le Regioni esaminano le domande delle imprese, poi le inviano all’Inps, poi vengono girate alle sedi provinciali dell’Inps medesima che danno il via libera definitivo. Se c’è un errore, sia pur minimo, in tutto questo giro di pratiche, si torna alla casella iniziale. Ancor più tortuoso il meccanismo per gli altri aiuti previsti a livello nazionale, che poi si sono intrecciati con gli interventi delle Regioni e dei Comuni in un groviglio di norme che ha generato confusione e ha spesso azzerato l’efficacia degli interventi. Ora, se si fa un provvedimento in emergenza, la principale caratteristica che deve avere è quello di essere rapido. In Italia, molti delle decisioni prese non hanno ancora prodotto alcun effetto.

Ora, uno sano di mente, potrebbe anche sostenere una regola semplice: siccome siamo in emergenza, intanto ti do il contributo, poi faccio i controlli. Sembra facile, ma siccome non siamo in un paese di sani di mente, un principio di questo tipo avrebbe forse scatenato speculazioni di ogni genere.

Se c’è una cosa sicura, però, è che di semplificare una macchina pubblica a dir poco ingessata ne abbiamo davvero bisogno. Fra il dire e il fare, però, non c’è di mezzo un tratto di mare di agevole traversata.

Intanto chiariamoci sul cosa vuol dire semplificare. La destra liberista, da Reagan in poi, ha sempre inteso la semplificazione come eliminazione delle regole pura e semplice. I vecchietti come me ricorderanno, solo per fare un esempio, il disastro prodotto dal presidente-attore con uno dei primi provvedimenti, la famosa deregulation dei cieli. Azzerando, di fatto, il sistema di norme che regolava il settore del trasporto aereo si produsse non tanto un nuovo slancio per le imprese, ma un gran caos e, soprattutto, una drastica riduzione della sicurezza e delle garanzie per i cittadini.

Ecco, allora cominciamo con il dire che semplificare significa l’esatto contrario della deregulation globale che vorrebbe la destra. Vuol dire, al contrario, meno regole, ma chiare e con sanzioni certe.

Semplificare vuol dire, ad esempio, che quel sacrosanto principio che dice “l’amministrazione non può chiederti un documento già in suo possesso” deve diventare effettivo. Faccio un esempio legato alla mia attività professionale. Non so come sia la situazione adesso, ma fino a qualche anno fa registrare una testata al tribunale civile di Roma era impresa da far tremare i polsi. Ricordo che, simpaticamente, chiamavo la dirigente della sezione Nonna Papera, nel senso di una funzionaria che sembra amichevole, ma che quando si intestardisce non ti fa passare neanche una virgola fuori posto o una marca da bollo apposta leggermente al di fuori degli spazi. La dichiarazione antimafia che le aziende devono produrre, ad esempio: dovevi andare in camera di commercio, fare un’autocerficazione e ti davano un pezzo di carta dove risultavi pulito da procedimenti pendenti presso il tribunale sia di carattere penale che amministrativo. Insomma, dovevi presentare al tribunale un documento in cui la Camera di commercio certificava la tua firma su un atto in cui dichiaravi che non avevi problemi con il tribunale. Potrebbe sembrare comico, ma una roba del genere vuol dire almeno una giornata di lavoro persa.

Altro esempio: l’urbanistica. In Italia vuol dire stanzoni pieni di faldoni, leggi che cancellano altre leggi, circolari esplicative che paiono libri di filosofi incomprensibili. Tradotto nella pratica, un esercito di persone che interpreta e studia come fregare la legge. Io non credo, mi limito all’esperienza di Roma, che negli ultimi vent’anni sia stato costruito un solo edificio che rispetti al cento per cento le norme esistenti.

Insomma, ridurre il numero delle leggi è un’altra delle questioni. Meno norme, magari scritte anche in maniera comprensibile e non interpretabile.

La terza riflessione da fare riguarda il personale della pubblica amministrazione. Sempre per esperienza personale, adesso la situazione è più o meno questa. Abbiamo dipendenti con un’età media molto alta, frutto avvelenato degli anni del blocco del famoso turn over, ovvero il mancato ricambio di chi va in pensione. E questo non solo vuol dire una pubblica amministrazione che spesso ha difficoltà persino ad accendere un computer, ma anche dipendenti che sono arrivati alla conclusione della loro carriera, non hanno più ambizioni di miglioramento e il famoso “questo non è di mia competenza” è diventato la regola aurea di tutti gli uffici pubblici. Se all’interno di questo sistema hai un’iniziativa originale diventi una specie di gatto nero da evitare con cura e mettere in quarantena. Non serve meno pubblico, non bisogna ridurre la quantità dei burocrati. Serve che la pubblica amministrazione si apra a una generazione che porti innovazione positiva, una mentalità diversa.

Quarto e ultimo punto: la certezza della pena. Serve un sistema di sanzioni davvero effettivo, che faccia pagare chi froda non fra dieci anni, ma adesso. Da noi succede l’esatto contrario, la frode è certa, la punizione è talmente aleatoria che conviene fare i furbi.

Semplificare, insomma, e la finisco qui, vuol dire rendere la vita più facile ai cittadini, non “fate un po’ come vi pare”. Perché la seconda ipotesi la vita ce la rende più difficile, non migliore.

E se abolissimo del tutto le Regioni?
Il pippone del venerdì/142

Mag 22, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

 

Per una volta non faccio la parte del giornalista che si informa da fonti esterne, ma parlo di un argomento che conosco direttamente: le Regioni, le funzioni che hanno acquisito con la riforma del titolo V della Costituzione e come hanno funzionato in questi anni. Ora, visto che dal 2001, in vesti di volta in volta differenti, ho lavorato nel Consiglio regionale del Lazio, posso ben dire di essere testimone diretto di un periodo che va dalla prima applicazione della riforma a oggi. Non vi aspettate ovviamente una disamina approfondita, non può essere questa la sede, mi limito a qualche spunto di riflessione.

Intanto una considerazione di carattere generale: le Regioni sono per lo più costruzioni artificiali, l’Italia è il Paese dei Comuni, al massimo i cittadini riconoscono la loro appartenenza alla Provincia. Basta pensare, per avere un’idea, che lo stemma della Regione Lazio non è altro che la somma dei simboli delle cinque province che la compongono. Del resto, altra notazione a carattere storico-sociologico, anche la formazione stessa dello stato unitario avvenne come somma, avvenuta in vari modi, degli stati locali preesistenti, che quasi mai coincidevano con i confini delle attuali Regioni italiane.

Dunque sono una costruzione artificiale, con confini spesso e volentieri del tutto arbitrari, a volte sono addirittura sbagliati.

Eppure, fin dagli anni ’70, questo ente di governo ha assunto via via più centralità nell’architettura dello Stato, fino a diventare un vero contropotere rispetto a quello centrale. Anche perché, e questa è una notazione di carattere più politico, spesso le Regioni sono usate, da chi si trova all’opposizione a livello nazionale, più come megafono politico contro il governo che per amministrare territori vasti e complessi. Anche durante questa situazione di emergenza abbiamo avuto, ne parlavo giusto qualche settimana fa, casi in cui i presidenti delle Regioni si sono mossi per logiche di propaganda politica invece di dare risposte alle reali esigenze dei loro territori. Certo, poi ci sono differenze rilevanti, ma non ci si può affidare alle capacità dei singoli presidenti se il sistema stesso genera confusione e inefficienza. In più, e passiamo alla seconda considerazione politica, la maggiore assunzione di poteri negli anni è avvenuta più come risposta a mode del momento che per vere esigenze di governo del territorio. La riforma del titolo V della Costituzione, ad esempio, avviene in piena battaglia secessionista della Lega di Bossi.

Il risultato di quegli anni, secondo me, è un pateracchio istituzionale che, come prima conseguenza, rende diversi i cittadini e, in ultima analisi, funziona anche male. Basta guardare ai conflitti che si sono prodotti di fronte alla Corte Costituzionale per avere un’idea della confusione che regna nel nostro sistema di governo.

Le Regioni, infatti, sono una strana via di mezzo fra un ente che produce leggi e un ente che amministra. Dal punto di vista del loro funzionamento interno hanno prodotto una moltiplicazione di apparati, spesso usata soltanto per piazzare ai posti di comando pezzi dei partiti di governo che i partiti stessi non erano più in grado di sostenere. Non è una critica a un’amministrazione in particolare. Qui nel Lazio ha aperto la strada Storace negli anni che vanno dal 2000 al 2005 e poi su quella strada si sono incamminati un po’ tutti, fino ad arrivare agli eccessi della giunta Polverini che tutti conoscete. Non è, a dire il vero, che la situazione sia cambiata di molto: basta pensare che in consiglio regionale a oggi i dipendenti dei gruppi consiliari sono più o meno equivalenti, come numero, ai dipendenti regionali.

Dal punto di vista del funzionamento esterno i guasti si vedono soprattutto nel sistema sanitario. Che funzioni peggio di quello che avveniva all’inizio del nuovo millennio è sotto gli occhi di tutti. Ma anche se funzionasse meglio di adesso, resta alla base una profonda ingiustizia: è sbagliato che cittadini dello stesso Stato abbiano diritti diversi a seconda della Regione in cui nascono, soprattutto se parliamo del diritto alla salute.

E’ profondamente sbagliato che un residente a Napoli abbia diritto a livelli di assistenza differenti da un residente in Trentino. La pandemia ha portato sotto gli occhi di tutti quanto il sistema sia stato devastato da decenni in cui l’unica bussola sono stati i bilanci da tenere in equilibrio tagliando posti letto e servizi territoriali. La rete dei medici di famiglia, un tempo vero e proprio strumento di monitoraggio continuo della salute di una comunità, in pratica non esiste più: i medici di base sono ridotti, vista la quantità di assistiti, a meri scribacchini che firmano ricette di farmaci spesso prescritti da altri, gli specialisti, quasi sempre privati.

A parte che va proprio cambiato il nostro modo di concepire il servizio sanitario che deve essere più diffuso e deve cercare di limitare l’accesso agli ospedali, ma per me è anche evidente che deve tornare a essere competenza esclusiva del governo nazionale. Attualmente, salvo dare linee guida generali, il potere del ministro della Salute è pressoché nullo. Si è visto chiaramente anche durante la pandemia.

E quello della sanità è solo il caso più eclatante. Lo stesso succede per l’urbanistica, per la gestione dei rifiuti, per il trasporto locale.

A complicare il tutto c’è anche l’elezione diretta del presidente della Regione: si è creato un sistema che ha, di fatto, un signore assoluto mentre le assemblee legislative sono ridotte a comparse istituzionali.

Sperando, insomma, che questa emergenza abbia messo una pietra tombale sul concetto stesso di autonomia differenziata che tanto ha fatto discutere negli anni scorsi, va ripensata l’architettura complessiva della nostra organizzazione. Io, da sempre, sono per dare poteri amministrativi veri alle Province, che devono tornare a essere elette dai cittadini. Mi sembra questo l’ente intermedio fra Stato e Comuni che può avere la dimensione giusta per poter essere efficace.

Certo, non è così semplice: bisognerebbe rimettere mano a una vera riforma costituzionale, ripensare profondamente il nostro sistema politico, avendo una visione complessiva e, soprattuto, avendo chiari gli obiettivi da raggiungere. Negli anni si è preferito procedere a pezzi, andando a toccare una volta i poteri delle Regioni, l’altra quelli delle Province, la volta dopo il sistema elettorale. Ne è venuta fuori una specie di guazzabuglio che ha, non solo mandato all’aria il sistema di equilibri pensato nel dopoguerrra, ma anche, in ultima analisi, complicato la vita di tutti noi. Ora, non sarà questo il momento di metterci mano, ma la prossima legislatura deve avere questo obiettivo. Un sistema istituzionale coerente e funzionale è la prima condizione per avere un Paese competitivo, sia dal punto di vista economico che sociale.

 

La fase 2 mi sembra peggio della fase 1.
Il pippone del venerdì/140

Mag 8, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Francamente mi sarei aspettato che questa prima riapertura che viviamo ufficialmente da ormai una settimana portasse qualche giornata di sana “leggerezza”. Dico ufficialmente perché in realtà da quando il presidente del Consiglio aveva annunciato i provvedimenti che sarebbero entrati in vigore dal 4 maggio gran parte del popolo italiano ha saltato a piè pari la data e dal giorno dopo era tutto un via vai di persone.

Niente di male, per carità. Stare in casa per quasi due mesi è stato pesante e anche i controlli delle forze dell’ordine si sono gradualmente allentati.

Mi aspettavo però anche un altrettanto graduale allentamento di quella insana sorveglianza social (non è un refuso intendo proprio social, nel senso di sorveglianza che viene applicata attraverso un uso smodato della pubblica denuncia on line) che ci ha afflitto dall’inizio della quarantena. E invece no, cambiano gli obiettivi, perché ampliandosi la platea dei possibili bersagli si è un po’ attenuata la pressione sui proprietari di cani e sui runner, restano i toni apocalittici. Nel mirino adesso ci sono principalmente le famigliole che si permettono di portare i bambini a passeggiare, per giunta senza mascherina. Ci farete tornare tutti in quarantena rigida, dovete stare a casa. Questo il messaggio che gira di chat in chat, di gruppo in gruppo su Facebook. A parte il fatto che se ce ne restiamo tutti in casa non si capisce bene quale sia la differenza con la fase 1. A parte il fatto che su larghe fette (per fortuna) del territorio nazionale la mascherina va portata solo in ambienti chiusi come mezzi di trasporto e negozi. A parte tutto questo, dicevo, viene sempre da chiedersi come sia possibile che un popolo noto in passato per i suoi grandi slanci solidali sia diventato così cattivo e pronto allo schiaffo invece che a tendersi la mano. Per non parlare della facilità con cui si continua a dar credito alle teorie più strampalate.

Certo, c’è una base “sociologica” di questo comportamento. La paura, la tendenza ad aggrapparsi alle possibilità più assurde per allontanare il pensiero e l’immagine della morte, così presente in questo periodo: ci sta tutto. E non è che gli italiani siano un caso unico. Basta pensare che nella patria della tecnologia c’è chi ancora da retta alle teorie strampalate di Trump, per avere un’idea dell’estrema fragilità davvero globale del genere umano.

In Italia, però, ci mettiamo del nostro. Siamo l’unico paese al mondo dove nel pieno di una crisi davvero senza precedenti negli ultimi cento anni, sui giornali ci si diletta a parlare della possibilità di una crisi di governo. Ora, che alcuni ministri siano del tutto inadeguati si sa. Basta pensare alla confusione che causa ad ogni intervista sulla scuola l’ineffabile Azzolina per farsi un’idea. Ma per fortuna, almeno nei ruoli chiave per gestire l’epidemia ci sono politici – e sottolineo politici – preparati e con un altissimo senso delle istituzioni. Merce rara di questi tempi. L’ho già scritto ma vale la pena ripeterlo, basta ricordare che al posto di Conte potremmo avere Salvini per chiudere ogni discussione.

E, invece, no. Si continua di giorno in giorno nell’azione di logoramento continuo. Ecco, se una vera colpa questo governo ce l’ha, è quella di non aver vietato i sondaggi politici almeno fino alla conclusione dell’emergenza. Forse starebbe più tranquilla l’opposizione, farebbe il suo lavoro senza aizzare improbabili folle. Forse starebbe più tranquilla quella parte della maggioranza che ancora in questa settimana continua a cercare soltanto di avere più visibilità, preoccupata di qualche decimo di punto in meno nel potenziale consenso elettorale.

Ora, è solo una battuta, ma per chi come me sostiene da sempre che una classe dirigente non può governare con i sondaggi alla mano è logico pensare che in una grave situazione di crisi l’unico faro dovrebbe essere la Costituzione, dove è scritto chiaramente che la salute è al primo posto.

Ultimo punto, assai impopolare e poi vi lascio a questa calda giornata prefestiva. La burocrazia. Tutti, come al solito a tuonare contro. Senza accorgersi che il problema della gestione dell’emergenza non è la troppa burocrazia, ma l’aver smantellato sostanzialmente l’apparato statale nella foga liberista degli scorsi anni. Ora. Avremo anche procedure farraginose e complicate. Ma questo è dovuto al fatto che si è proceduto alla distruzione dell’apparato, assoggettandolo al potere politico, affidando al privato la gestione di servizi essenziali, distruggendo un sistema che aveva una sua funzionalità con il nulla.

Per questa settimana m fermo qui. E, per favore, se proprio dovete stare in casa, almeno evitate di sputare sentenze su chi sceglie di farsi una passeggiata al sole, a debita distanza gli uni dagli altri. Siete più contagiosi voi del coronavirus.

Ripensare il Paese, non solo l’organizzazione.
Il pippone del venerdì/137

Apr 17, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Questo periodo di assoluta emergenza ha messo in rilievo due dati: il primo è sicuramente la grande fragilità sociale che anni di politiche neoliberiste hanno generato, il secondo è l’assoluta inadeguatezza del nostro sistema istituzionale e produttivo.

La fragilità sociale è evidente, rivendico di averlo scritto e ripetuto fino alla noia negli anni scorsi. E i consensi alla Lega, che si sono moltiplicati nell’arco di pochi mesi fino a trasformare un movimento tutto sommato marginale nell’attore principale della politica italiana, non sono la causa, sono l’effetto. E’ vero che il periodo di Salvini ministro dell’Interno è stato devastante, ma non ha causato il disagio sociale, lo ha cavalcato e moltiplicato, facendone un metodo scientifico per governare un popolo impaurito. Le radici di tutto questo vanno cercate nelle politiche degli ultimi venti anni che hanno fatto piazza pulita del sistema solidale, il cosiddetto welfare state, ovvero quel complesso di interventi che cercava di rendere meno diseguale l’Italia. Il servizio sanitario universale, in primo luogo, ma anche gli ammortizzatori sociali, la cooperazione, l’associazionismo.

E’ venuto meno, per dirla in termini novecenteschi, quel “fine sociale” dello Stato che aveva rappresentato, dal dopoguerra alla fine del secolo, il vero trait d’union che legava i partiti democratici. Al di là delle differenti posizioni, degli scontri, questo è stato il vero segno distintivo della Repubblica (non dico la prima, perché queste schematizzazioni mi danno l’orticaria). Tant’è che l’ultimo vero piano casa – nel senso di realizzazione di alloggi popolari – porta il nome di un moderato come Fanfani, non di un esponente della sinistra.

Rotto questo vincolo, si è pensato soltanto a come agevolare il mercato. Ad eliminare via via tutte le norme che cercavano di moderare la competizione fra cittadini prima che fra aziende, con il risultato finale di renderla non tanto più libera ma più violenta. Da qui nasce l’odio sociale, la necessità di trovare un nemico, uno che sta peggio di noi, per scaricare la propria frustrazione.

Come si possa uscire da questo crescendo non è un problema di immediata soluzione. Di certo con questa quarantena, confinati ognuno nel proprio egoismo, abbiamo raggiunto un picco finora inesplorato. Si è arrivati ad additare come untori i genitori che fanno fare due passi ai figli intorno a casa. Sui social si trovano discussioni assurde, cariche di una rabbia cieca che aspetta soltanto l’occasione per diventare violenza. Non scoppia soltanto perché siamo confinati dentro casa. Consiglio psicologi obbligatori insieme alle mascherine prima di avviare la famosa fase 2.

Bisogna ricominciare a fare cultura nei quartieri, serve una nuova presenza delle forze democratiche, un lavoro casa per casa. Vanno ripensate le forme di associazionismo e di volontariato. E’ il lavoro di anni, speriamo che almeno si cominci e di fare in tempo.

Il secondo punto da mettere in evidenza, che è un po’ la rappresentazione del primo sul piano istituzionale e produttivo, è che la nostra architettura organizzativa non funziona. Con la riforma della Costituzione che ha, di fatto, creato un sistema istituzionale che ha il suo fulcro nelle Regioni abbiamo posto le basi per un sistema più ingiusto, paradossalmente più lontano dai cittadini. La somma dell’attribuzione di ampi poteri, basta pensare alla Sanità, con un sistema di governo basato sull’elezione diretta del presidente, ha creato dei mostri, fonti di sprechi e non di maggiore efficienza, un moltiplicatore di diseguaglianze. Ogni Regione ha un suo sistema sanitario diverso dall’altro. E i risultati si vedono. Non è un caso, né tanto meno sfortuna, che il disastro nasca in Lombardia dove è stato smantellato il fronte territoriale, i medici di famiglia, per puntare tutto sugli ospedali, per i più privati. Tutti parlano di mancanza di posti di terapia intensiva quando, guardando i dati a livello nazionale, non sono mai stati occupati oltre il 60 per cento del totale. Quello che è mancata è una rete territoriale in grado di diagnosticare per tempo la malattia ed evitare così che sia necessario il ricovero in ospedale.

Oltre a questo va messo in evidenza come l’aver ridotto la presenza dello Stato nell’economia ci porta a essere in balia del mercato e se questo genera squilibri in tempo di pace, in caso di emergenza diventa un disastro. Non si sa chi può produrre cosa. E se l’emergenza è mondiale diventa impossibile perfino garantire l’approvvigionamento di un prodotto elementare come le mascherine o, cosa ancora più grave, i reagenti per avere i risultati degli ormai famosi tamponi, l’unica analisi in grado di rilevare il virus. Avevamo un grandissimo polo chimico di proprietà pubblica, ricordate?

Non si tratta di tornare allo Stato che produce i panettoni, ma di tornare a uno Stato che controlla direttamente i settori strategici dell’economia, strategici per lo sviluppo a cui pensa e per la sua stessa sicurezza.

Avevamo pensato che sicurezza volesse dire produrre cacciabombardieri, abbiamo scoperto che non servono a nulla se non a far vedere i nostri muscoletti in giro, abbiamo scoperto che era più sicuro produrre mascherine perché andarle a comprare in Cina sarà anche global, ma ti fa restare senza quando ne hai bisogno. Perché trovi qualcuno che le può pagare più di te.

Anche qui, come si cambia? Cominciamo con il dire chiaramente che il progetto dell’autonomia differenziata per le Regioni non esiste più. Almeno evitiamo di creare danni ulteriori. Non credo che troveremo un solo cittadino italiano disposto a difendere ancora quel disegno folle. E a chi dovesse protestare basterebbe mostrare una foto di Fontana, il presidente della Lombardia. Tu daresti ancora più poteri a questo qui? Fine della discussione.

O la borsa o la vita: gli auguri di Confindustria.
Il pippone del venerdi/136

Apr 10, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Intanto buona pasqua a tutti. Non vi faccio raccomandazioni perché tanto lo sapete: non potete fare grigliate da amici e parenti, non potete fare picnic nei parchi. Non potete e basta. E sarà ancora lunga.

Non parlo neanche dell’accordo raggiunto in Europa, perché di economia capisco poco, è l’unico esame universitario che ho dovuto fare due volte, complice un professore un po’ svitato, ma colpa anche la mia avversità per la materia.

Però una cosa la voglio dire, in questo pippone prefestivo e dunque anche molto breve. Trovo assurdo l’atteggiamento degli industriali che vorrebbero riaprire tutto e subito. E trovo ancora più assurdo che l’appello più pressante venga proprio dalle associazioni padronali delle regioni più colpite. Già in me è molto forte il sospetto che alcuni ritardi nel definire le zone rosse in Lombardia siano dovuti proprio alle loro pressioni, ma che adesso dicano “vabbeh ma le nostre fabbriche sono sicure e quindi si può ripartire, altrimenti fallisce l’intero paese”, mi sembra davvero un’assurdità.

I dati sono semplici da leggere e comprendere: siamo ancora in piena emergenza, il numero dei contagiati continua a crescere senza particolari cali. Al massimo è stabile. Questo vuol dire che la nostra clausura è efficace, ma anche che ci sono ancora tanti malati che non abbiamo ancora individuato. E allora che si fa? Beh, io credo che l’unica cosa da non fare sia proprio tornare a mandarli in giro tranquillamente. Del resto i dispositivi di protezione bastano a malapena per il personale sanitario. Che si fa, si seguono le indicazioni del presidente lombardo e si esce tutti con il foulard? Io tenderei a diffidare, visto che si tratta dello stesso presidente che ha deciso di mettere i malati di covid 19 nelle residenze per anziani, fianco a fianco con la categoria più fragile per eccellenza.

Quello che gli industriali scaricano sul governo è un quesito secco: o la borsa o la vita. E lo fanno con il tipico piglio del padrone ottocentesco.  Perdonatemi se ci torno ancora una volta, ma a me sembra una clamorosa dimostrazione di come il capitalismo sia incompatibile con l’esistenza della specie umana su questo pianeta. Se il dilemma è questo, non possiamo che scegliere la vita, a patto di costruire allo stesso tempo un sistema di produzione alternativo a quello esistente.

Qua, diciamoci la verità, la quarantena sarà lunga e non ci sarà un ritorno alla normalità. Perché per avere un vaccino ci vorrà almeno un anno, perché poi dovrà essere prodotto in quantità tale da creare la famosa immunità di gregge.

E allora, se le cose stanno così e se davvero vogliamo provare a uscirne migliori di come ne siamo entrati, cominciamo a pensare che dobbiamo cambiare la nostra organizzazione sociale e questo non basta: dobbiamo pensare a un mondo in cui il profitto di pochi non sia l’unica bussola che orienta le scelte dei governi. Al di là delle teorie su complotti vari e sulle responsabilità degli alieni, una cosa dovrebbe essere ormai chiara a tutti: il nostro modo di stare su questo mondo mette a rischio la nostra esistenza. Questo ci grida il coronavirus. E da questo punto occorre partire. Capisco che fare una rivoluzione in quarantena non sia proprio agevole. Ma dobbiamo trovare il modo per far sentire la nostra voce. E penso al buon vecchio Carletto che da qualche parte se la ride: “Non dite che non ve l’avevo detto che andava a finire così”.

La finisco così con questo pensiero in fondo allegro, alla faccia degli avvoltoi di Confindustria.

Il mondo che viene è peggio di quello che è stato.
Il pippone del venerdì/135

Apr 3, 2020 by     1 Comment     Posted under: Senza categoria

Appunti sparsi in queste settimane di quarantena. Sensazioni e esperienze che si intrecciano nel cervello, il risultato è che uso che questo appuntamento con il pippone per provare a metterci un po’ di ordine.
Intanto, cosa è cambiato davvero nella nostra vita in modalità “chiusi in casa”. Io non credo che sia tanto la mancanza di relazioni sociali, perché già prima, in una città come Roma erano ridotte al minimo. Per uno un po’ sociopatico come me, del resto, questa è decisamente una buona notizia. La scomparsa di alcune convenzioni sociali non può che farmi piacere. Non si stringe più la mano a persone a cui vorresti, invece, dare uno schiaffo, tanto per dirne una. Insomma, abbiamo eliminato dalla nostra vita un po’ della falsità quotidiana a cui eravamo costretti.

No, secondo me, la prima cosa che è cambiata, quella che in realtà tanto ci dà fastidio, è la mancanza di velocità. Eravamo abituati a vivere in un mondo in cui con un click avevi tutto, al massimo aspettavi un giorno per avere la consegna di oggetti di cui non avevamo nessuna urgenza. E anche in questo caso avevamo bisogno di essere rassicurati dal controllo dello stato dell’ordine: è partito, sta arrivando, sta sotto casa, è stato consegnato, fammi sapere se ti è piaciuto. Un ritmo incessante e cadenzato. Adesso al massimo spostiamo i mobili dentro casa.
Ecco, quest’ansia di velocità oggi ci manca. Sopravvive soltanto in chi sta al volante di una smart che si crede ancora di dover per forza stracciare ogni record di velocità, con la sua ridicola scatola di plastica e metallo. Ma quello è un caso clinico a parte. Ora dobbiamo aspettare per fare tutto. Per entrare al supermercato, per comprare qualsiasi oggetto. Dobbiamo aspettare per vedere un parente che si trova a cinquecento metri di distanza, ma fa parte di un’altra cella di reclusione.

Questo è il primo dato: imparare che esiste un tempo dell’attesa e che questo tempo, per di più, non ha una data certa di fine.

La seconda condizione che ci ha imposto il coronavirus è quella dell’incertezza. Gli odiatori di professione stentano perfino a identificare i nuovi obiettivi da colpire. Prima era facile, c’erano gli immigrati, quelli che andavano rispediti a casa loro perché da noi non c’era posto per loro. Adesso che è tutto il mondo a essere isolato, adesso che anche noi abbiamo perso la libertà di circolare senza alcun controllo, forse potremmo imparare a essere meno cattivi.

Invece no. Sarò anche pessimista, ma credo che il mondo che ne uscirà sarà peggiore di quello che abbiamo lasciato. Intanto perché, deve essere chiaro a tutti, non ci sarà un “dopo” immediato, ma ci sarà un tempo indefinito in cui dovremo imparare a convivere con il virus in agguato. La distanza sociale sarà la regola. Per molto tempo ancora. E questo ci imporrà di cambiare radicalmente la nostra stessa organizzazione. Basta pensare alla scuola. Come si fa a stare in una classe distanziati di almeno un metro? Il lavoro non potrà tornare quello di prima, abbiamo scoperto che tutta una serie di attività si possono fare senza spostamenti inutili e senza il bisogno della nostra presenza fisica. Saremo costretti, volenti o nolenti, a continuare a farlo.

Sarà un mondo peggiore, perché ci saranno meno soldi in giro. E perché la concorrenza fra aziende sarà ancora più serrata di quanto accadeva prima. I sognatori positivi credono che si tornerà parzialmente indietro rispetto alla globalizzazione pressoché totale a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Che le aziende dovranno necessariamente tornare a pensare più in chiave locale, che torneranno in Italia produzioni a cui avevamo dovuto rinunciare. Secondo me, il mercato lasciato da solo non porterà a questo risultato. Anzi, chi era debole dal punto di vista della concorrenza internazionale lo sarà ancora di più, perché la chiusura forzata di questo periodo lo porterà a perdere quote di mercato che difficilmente recupererà. E saranno tante le attività che se prima riuscivano ancora a garantire qualche stentato profitto, adesso non riapriranno proprio. Cominciamo appena a capire che l’idea di un reddito di cittadinanza non era tanto peregrina.

Sarà un mondo peggiore, perché in queste settimane abbiamo preso coscienza di quanto la stessa presenza umana su questo pianeta sia effimera. Basta ritrarsi un po’ per vedere la natura che si riprende i suoi spazi con una velocità che non potevamo immaginare. Siamo i dominatori della Terra, ma la Terra si è anche un po’ stufata di noi. E quando partiremo alla riconquista saremo ancora più cattivi, più aggressivi. Perché quando invece della pagnotta ti restano le briciole, la lotta per conquistarle diventa crudele. Ce ne fregheremo ancora di più dell’inquinamento, del riscaldamento globale, proprio perché avremo preso coscienza del fatto che potremmo sparire da un momento all’altro. Messi in crisi da una cosa che manco si vede.

Sarà un mondo peggiore perché non riusciamo a capire che la radice di tutti i nostri problemi non è il virus, ma è un sistema di produzione che non funziona, che è inefficiente nel distribuire risorse limitate ed è un pericolo in sé non per i più deboli come abbiamo sempre pensato, ma per la stessa razza umana. Abbiamo preso per matti quelli che ce lo hanno gridato in questi anni, adesso sappiamo che avevano ragione, ma continueremo a fregarcene, nell’illusione che l’uomo debba essere necessariamente lupo.

Ecco, andrebbe ripensato tutto, basta guardare le immagini dei senza tetto che nella opulenta California vengono rinchiusi in un parcheggio. Andrebbe ripensato il ruolo dello Stato, il primato della politica sull’economia, l’organizzazione del sistema sanitario, i rapporti tra nazioni. Invece no, saremo tutti più soli, non perché non ci potremo stringere la mano, ma perché i nuovi nemici da odiare saremo tutti noi.

Concludo con una nota lieta: ho finalmente stabilito il tempo giusto di cottura dei cornetti surgelati: 23 minuti a 180 gradi, forno ventilato, ben caldo. Mai  al microonde. Sarà poco, ma ti fa cominciare meglio giornate tutte uguali.

E la sindaca si mise a fomentare l’odio.
Il pippone del venerdì/134

Mar 27, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ora, sono stato a lungo indeciso se fare un lungo pippone sulle contraddizioni della società del profitto che questo virus sta sempre più mettendo a nudo, o, invece, continuare nella disamina iniziata da due settimane sulle nostre reazioni “sociologiche” alla quarantena a cui siamo sottoposti oramai da parecchi giorni e di cui neanche è possibile ipotizzare la fine.

Propendo per la seconda ipotesi, non fosse altro per il fatto che dovrebbe essere ormai del tutto evidente come la società capitalistica, così come è stata costruita negli ultimi decenni, sia incompatibile con la salvaguardia dell’ambiente e con la stessa salute dei cittadini. I governi, la dico brutalmente per non farla lunga, si sono trovati di fronte a un bivio senza terze vie: o pensare alla salute del proprio popolo o cercare di salvare l’economia. Non sempre hanno scelto la prima, salvo drammatici e tardivi dietrofront di cui stanno pagando le conseguenze i loro popoli.

Per quanto riguarda, invece, le nostre reazioni alla quarantena, mi pare che mettano in evidenza ancor di più tutti i nostri difetti e le nostre virtù. Mi sono emozionato fino ad avere le lacrime agli occhi, lo confesso, ascoltando un medico cubano, catapultato dai Caraibi alla gelida Crema, non solo ringraziare gli italiani per l’ospitalità, ma anche rispondere con la massima naturalezza all’intervistatore che gli chiedeva fino a quando si sarebbero fermati, che loro “sarebbero rimasti lì fino a quando il popolo lo avrebbe ritenuto utile”. “Le nostre famiglie – ha spiegato – lo sanno bene, siamo stati in Africa a combattere l’ebola, ora siamo qui”. Parola chiave di tutto il ragionamento; solidarietà. Il loro motto è “non offriamo ciò che ci avanza: condividiamo quello che abbiamo”. E attualmente medici cubani sono presenti in 70 paesi diversi.

Non so se sia l’educazione socialista in salsa cubana, del resto va ricordato che fu un tal Ernesto Guevara a teorizzare il sistema della “medicina sociale”, o proprio una caratteristica di quel popolo, che fa della socialità, del calore umano uno dei suoi tratti distintivi. Non ho visto medici con la bandiera blu dell’Europa, mi sarebbe piaciuto.

Mi sono commosso anche, quando vogliamo anche noi italiani non siamo da meno, nel vedere l’altissimo numero di risposte che ha avuto il bando della protezione civile con il quale si cercavano 300 medici da inviare nelle zone più colpite dal virus. Hanno risposto “presente” in ottomila. Una straordinaria gara di solidarietà.

Mi commuove un po’ meno la “call” lanciata dalla sindaca di Roma, la famigerata Raggi, che chiama i cittadini romani a segnalare eventuali assembramenti (ovvero un minimo di tre persone radunate senza apparente motivo) utilizzando il sito del Comune. Non si rende conto del clima da tutti contro tutti che c’è nella nostra città. Del resto alla sindaca rispondono i vigili che pattugliano le strade ormai con una certa continuità (certo ci sono voluti una decina di giorni dall’inizio della quarantena), ma lo fanno a volte inventandosi di sana pianta norme che non esistono, spesso con arroganza immotivata.

Chiunque di noi, attraverso i social, ha ormai un patrimonio di testimonianze di tutto rispetto. A me, personalmente, hanno segnalato casi di lavoratori ospedalieri che, dopo una notte di lavoro, sono stati fermati da una pattuglia e costretti a tornare in ospedale scortati dagli agenti per dimostrare che non stavano in giro per divertirsi. Per non parlare delle persone prese a parolacce dalle finestre perché stavano in strada. Una di loro, lo racconta lui stesso, stava andando a donare il sangue. Ma poco importa, prima ti tiro il sasso, fra un po’ neanche troppo metaforico, poi verificherò se magari avevi ragione tu.

E’ cronaca l’ondata di odio vero e proprio prima contro gli sportivi, ora contro i proprietari di cani. E’ lo stesso meccanismo che ci portava fino a poche settimane fa a insultare gli immigrati, che poi ci ha fatto concentrare sui cinesi.  Abbiamo bisogno di individuare un nemico. Adesso dobbiamo pur sfogare su qualcuno le nostre paure e le nostre frustazioni.

Insomma, stiamo tutti un po’ svalvolando. Lo conferma il tasso di false notizie che, con la complicità perfino di parlamentari e giornalisti, continua a moltiplicarsi con una curva che si impenna più di quella del virus. Per non parlare delle assurde discussioni sulla qualunque. A partire addirittura dai famosi moduli che si usano per certificare le proprie uscite, sui quali ci sono da settimane polemiche surreali sulle frasi usate dal ministero e sul fatto che cambiano ogni volta che variano le restrizioni decise. Ci sono appassionati del genere che passano le loro giornate a discutere sulle virgole e sui punti. Per non parlare degli audio che girano incontrollati nelle chat. C’è una diffidenza crescente per tutto quello che è ufficiale, magari anche generata da una comunicazione non sempre all’altezza della situazione.

E in questa fase la sindaca della Capitale, per tornare al ragionamento iniziale, che fa? Io mi sarei aspettato che organizzasse un servizio di consegna a domicilio della spesa per gli anziani, per chi ha problemi. Mi sarei aspettato che potenziasse i servizi sociali. No, tutte queste cose le sta organizzando la Regione, che non ne avrebbe le competenze, ma si sporca le mani. La sindaca, invece, pensa bene di fomentare l’odio sociale che cresce nelle case in cui siamo sbarrati. E così siamo al controllo partecipato delle strade. Sarebbe bene impiegare le forze dell’ordine e i mezzi che il Campidoglio ha a disposizione per proteggere i luoghi più a rischio, a cominciare dalle case di riposo, ma anche dai campi nomadi, lasciati senza la minima assistenza sperando che tutto vada bene. Potrebbe, la sindaca, pensare ai tanti senza tetto, che rischiano di essere, inconsapevolmente un vettore incontrollabile dell’epidemia. Ci sono centinaia di alberghi vuoti a Roma, non è che si possono requisire?

No, la sindaca è impegnata a controllare i parchi, deserti. Buon lavoro, ai romani non resta che incrociare le dita. Gli sceriffi fai da te ci osservano dall’alto.

Tranquilli: la pizza margherita non è contagiosa.
Il pippone del venerdì/133

Mar 20, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Quei pochi che mi seguono sanno che, in questi giorni di semireclusione, ho scelto di usare i miei account social per cercare di contrastare la diffusione di bufale e provare, al contrario, a dare notizie utili e verificate, quelle che arrivano dalle fonti ufficiali. Unica eccezione è il pippone del venerdì, altrimenti si rischia la sommossa. Tornando a parlare seriamente. Dopo una giornata passata praticamente senza interruzioni davanti al cellulare, posso capire quanto sia complicato lavorare a un call center. Per di più a uno dedicato al tema del coronavirus.

Nel mio piccolo ho potuto verificare quanto siano diffuse e quanto siano pericolose le bufale. Servirebbe un inasprimento delle pene e una task force della polizia postale in azione h 24 per individuare e perseguire chi le confeziona. Basta poco e si creano allarmi pericolosi per l’incolumità di tutti.

Piccola collezione di cose che ho trovato in rete e ho provato a contrastare, con alterne fortune. Dico con alterne fortune perché, forse anche più del solito, la facilità con cui si diffonde una falsa notizia è disarmante. Il meccanismo  sempre lo stesso, come già ampiamente scritto nei mesi passati, di chi credeva alla magia nel medioevo: se uno ha una determinata convinzione è portato a credere a tutto ciò che la rafforza. In giornate in cui siamo tutti preoccupati e ansiosi questo meccanismo si moltiplica e spezzarlo è un’impresa complicata.

Parto dalla più grave, secondo me. Gira da una decina di giorni questo fantomatico messaggio che prefigura uno scenario apocalittico: in caso di dichiarazione di pandemia, si legge, l’organizzazione mondiale della sanità fermerà il mondo per 21 giorni. E via con particolari assurdi, si parla dell’applicazione di un fantomatico protocollo Bsl-4, si prosegue con l’istituzione di punti di approvvigionamento che saranno gestiti dall’esercito e via dicendo.

Ora se voi digitate su google “protocollo Bsl-4” vi appaiono nel giro di pochi secondi almeno dieci siti specializzati nella verifica delle notizie che vi spiegano come e perché si tratta di una bufala. In realtà basterebbe anche fare mente locale e pensare che l’Oms già da qualche giorno ha dichiarato che ci troviamo in una situazione di pandemia e che non è successo nulla di tutto questo. Niente da fare. La bufala è entrata nella profondità dei social e la diffondono anche persone con una certa cultura, sopra la media direi. Ogni post su questo tema ha decina di condivisioni. Perché, evidentemente, sono tutti convinti che servirebbero misure più radicali di quelle prese dal governo e inconsciamente sperano che si arrivi all’esercito che distribuisce il cibo.

Sempre per parlare di bufale, ieri il capo della protezione civile, nella conferenza stampa quotidiana, ha dovuto smentirne un’altra, forse meno “drammatizzante”, ma anche questa potenzialmente pericolosa: i cani non trasmettono il virus, come, aggiungo io basandomi sulla mia esperienza di questi giorni, non lo trasmettono le strade, né la pizza. Inciso: non fatemi trovare un cane abbandonato per questa assurda panzana perché divento violento.

Ma parliamo della pizza. Ora vi spiego. Una delle richieste che mi sono arrivate ieri suonava più meno così: il governo ha vietato la pizza margherita, è vero che ci si può contagiare mangiandola? Istintivamente ho risposto che il governo non aveva vietato la pizza margherita e che un cibo cotto in forni ad altissima temperatura al massimo ti può scottare le dita. Poi (santo google e usatelo ogni tanto) ho cercato e ho trovato la verità. Perché c’è un fondo di verità: la Raggi (santa donna ma non c’hai proprio un cavolo da fare?) ha vietato ai forni di produrre pizza differente dalle classiche romane: la bianca e la rossa. Per quale motivo non si capisce bene. Da noi prendono una decisione e non te la spiegano, così poi ciascuno si fa film assurdi come la signora che domandava lumi. Pare però che la ragione sia quella di limitare le necessità di approvvigionamento di materiali freschi, il cui arrivo è necessariamente giornaliero e quindi aumenta la circolazione in strada e i contatti fra le persone. Le pizzerie che fanno consegne a domicilio, invece possono fare tutti i tipi che vogliono.

Per cui: tranquilli, la margherita non è contagiosa. Speriamo non lo sia neanche la Raggi. Perché il coronavirus finirà presto, la sindaca ce la dobbiamo tenere per almeno un annetto ancora.

Potrei continuare per pagine e pagine, perché in una sola giornata mi sono arrivate una ventina di richieste, compreso l’orario di apertura del punto di raccolta sangue in una parrocchia.

Ultimo aspetto che volevo mettere in evidenza: quello che sta succedendo in tutto il mondo, con accaparramenti furibondi, lotte per conquistare l’ultimo rotolo di carta igienica, fuga dalle città più a rischio e via dicendo, ci dice che non siamo proprio così caciaroni e indisciplinati come ci dipingono. Siamo forse meno “popolo” di altri. Nel senso che ci mettiamo a cantare l’inno e ci indigniamo delle frontiere chiuse ma poi ci dividiamo anche in queste occasioni. Francamente il comportamento di alcuni governatori e della Lega in Parlamento, questo davvero, fa rimpiangere l’esercito cinese.

Non riusciamo proprio, malgrado le ridondanti e retoriche dichiarazioni di patriottismo, il “siamo italiani” gridato a tutto il mondo con orgoglio, a essere uniti, a essere compatti. A me, che non canto l’inno e continuo a sentirmi cittadino del mondo, tutto questo fa un po’ tristezza. Come un simpatico romano che ha scritto su Facebook che la colpa è dei rom (prima erano i cinesi, poi i milanesi, ora diamo addosso ai rom che tanto non li difende nessuno come al solito).

Come quel cittadino della Magliana (Roma) che dopo l’inno d’Italia, durante la balconata delle 18, ha pensato bene di far sentire a tutti un discorso del suo duce. Negli stessi giorni, un gruppo di tedeschi, in segno di amicizia verso l’Italia, ha cantato “Bella ciao”, ognuno sul suo balcone, che poi, insieme all’inno di Mameli, ci starebbe anche bene, perché parla della lotta contro gli invasori. E il virus, un po’ come i fascisti di allora, è un invasore.

O meglio: i fascisti di un tempo, un po’ come il Covid 19, sono un virus, che non siamo ancora riusciti a debellare. E, allora, l’inno affacciato al balcone proprio no. Mi ascolto Bella ciao e la canto con gli amici tedeschi, spagnoli, cinesi. Perché la nostra patria è il mondo intero.

Coronavirus, dacci oggi la nostra bufala quotidiana.
Il pippone del venerdì/132

Mar 13, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

State tranquilli, non farò appelli, non darò consigli medici, non vi dico come si fanno mascherine ultrasicure. Non sono un medico, tanto meno un virologo, non sono neanche un tecnico, quindi mi astengo. Non va di moda, ma sono fatto così, cerco di parlare di cose che conosco.

Alcune considerazioni, però, mi viene da farle, in queste giornate in cui ci si litiga perfino il cane per trovare una scusa per uscire di casa qualche minuto (si può fare, è previsto, non spargiamo bufale). Intanto il virus ha messo in evidenza quanto sia fragile il nostro modo di vivere, la nostra società. Qualche lontana reminiscenza dei miei studi di sociologia mi ha fatto venire in mente che si potrebbe rappresentare su un grafico la curva fra il livello di sicurezza di una società e il suo grado di apertura all’esterno.

E’ chiaro che un villaggio su un’isola sperduta non sarà mai soggetto a epidemie causate da agenti patogeni non presenti sull’isola stessa (ma attenti agli uccelli), mentre al contrario una metropoli contemporanea dove circolano milioni di persone che hanno contatti sociali, viaggiano, si spostano di frequente, sarà più soggetta a contagi. Di tutti i tipi.

E non credo sia mera casualità se il corona virus ha colpito più pesantemente l’Italia del Nord rispetto al resto del Paese. Quella centralità, soprattutto economica, vantata da chi negli anni ha perfino chiesto la secessione, espone quella parte del Paese più che altre zone. Fra le regioni meno colpite c’è la Basilicata, tanto per dire.

Ma la fragilità della nostra società ha anche altri aspetti, meno evidenti. Intanto questa emergenza ci segnala quanto siano a rischio le nostre libertà, perfino quella di camminare in un parco (anche questo si può fare). Basta un esserino che manco si vede per mettere a rischio conquiste sociali per le quali ci sono voluti decenni di lotte.

La seconda fragilità è il livello di nervosismo che ha raggiunto la nostra società. Il coronavirus ha fatto da amplificatore a tutte le nostre paure, i nostri tic, le nostre paranoie. Avevo già accennato qualcosa nello scorso pippone, ma queste ultime due settimane ne sono state la riprova certificata.

 

Avete  notato quanto sia aumentata la quantità di bufale che girano? E quanto sia aumentata la credulità della gente? Ne ho lette di tutti i colori e ne ho viste di tutti i colori (pur girando lo stretto indispensabile, ma la cucciola dovrà pure uscire per sgranchirsi le zampe). Mi è capitato perfino di scrivere un post su Facebook indicando alcune bufale clamorose e ho trovato commenti seri in cui si argomentava pro e contro una determinata tesi. Neanche aver scritto esplicitamente che si trattava di bufale ha rassicurato i miei interlocutori.

Si passa da chi lancia petizioni online contro il Governo dittatoriale a chi invita alla delazione per chi infrange le regole senza soluzioni di continuità.

Ho visto gente che gira con le mascherine anche in macchina, ho letto che sono vietati gli ascensori, che si può andare in auto ma soltanto da soli, anzi due al massimo, ma uno deve stare per forza dietro, chi la smart, però, può chiedere l’esenzione. Ho visto gente che si mette al balcone per controllare che nessuno esca e fornisce anche presunti numeri verdi a cui segnalare chi sta in strada. Che poi se mettessimo la metà dell’attenzione a vigilare su chi butta l’immondizia fuori dai cassonetti avremmo risolto il problema dei rifiuti a Roma.

La sospensione del campionato di calcio è stata un po’ la goccia che ha fatto traboccare il vaso: siamo passati da innocue discussioni sulla concessione di un calcio di rigore, alle soluzioni per combattere un virus. Ieri eravamo tutti allenatori, oggi siamo tutti virologi. Non vi sfuggirà l’evidente pericolo insito in questa trasformazione.

E’ evidente, insomma, che, non avendo la maggior parte di noi granché da fare, la comunicazione social subisca un’impennata e con questa il livello di bufale. Sconforta però che anche in una situazione così grave ci sia chi si diverte a diffondere balle. E sconforta ancora di più che trovino un ampio pubblico disposto a credere a qualsiasi cosa. Anche quando basta fare un click andare sulla home page del Governo e si trovano tutte le risposte alle domande più comuni. 

I mezzi di comunicazione tradizionali non stanno messi meglio. Ieri ho sentito il giornalista del Tg3 regionale del Lazio affermare che “correre nei parchi non è espressamente vietato ma è caldamente sconsigliato”. Ora, fermo restando che il consiglio generale è nel titolo della campagna di comunicazione, si chiama “io resto a casa”, più chiaro di così si muore, ma, detto questo, c’è un comma specifico del decreto del presidente del Consiglio in cui sta scritto che è consentito svolgere attività motoria e sportiva in aree aperte, rispettando la distanza di sicurezza. 

Se i giornalisti, giustamente, rivendicano – da sempre e a maggior ragione in questa fase di emergenza – il ruolo essenziale dell’informazione, farebbero bene a mettere più attenzione a quello che comunicano.  Come la storia dell’anticipazione della bozza del decreto, che tanti danni ha fatto, provocando affollamenti nelle stazioni, fughe di massa dalle zone “rosse”. La risposta che tanti colleghi danno sta in un presunto obbligo deontologico nel dare una notizia. Su questo ci sarebbe da discutere, ma il punto è un altro: anticipare un decreto che sarebbe stato reso pubblico poche ore dopo vuol dire veramente dare una notizia? Quale sarebbe la finalità sociale, il valore informativo di questa notizia? Nessuno. Semplicemente si è fatto per guadagnare qualche click, diciamolo con chiarezza. Senza preoccuparsi di cosa quella pubblicazione poteva provocare.

Quando lavoravo in redazione, mi ricordo lunghe discussioni per decidere se pubblicare un nome, una foto. Era sempre una notizia, ma si decideva di volta in volta. Enzo Carra con gli schiavettoni ai polsi (4 marzo del 1993). Quella foto era sicuramente una notizia. Anzi, più di mille parole dava il senso di come un intero sistema di potere stesse crollando. Decidemmo di dare la notizia, ovviamente, ma di non pubblicare quella foto, perché non rispettava la dignità di una persona. Peraltro non condannato, ma soltanto arrestato. E io credo fosse giusta quella scelta, seguita purtroppo da pochi. Così come era giusto mettere sul piatto della bilancia i pro e i contro e rimandare la pubblicazione del decreto (per altro diverso in alcuni punti significativi rispetto alla bozza anticipata) al momento della firma da parte del presidente Conte.

Ma viviamo nella società della velocità e così come non c’è spazio per verificare la veridicità di una informazione che abbiamo avuto, così non c’è tempo per riflessioni di carattere etico.

La conclusione è sconfortante. Batteremo questo virus e anche quelli che verranno, ma saremo sempre più esposti, senza difese. Avendo tempo a disposizione proviamo invece a riflettere su queste nostre fragilità. Chiediamoci ad esempio: ma se basta un virus per mettere in ginocchio un paese cosa potrà succedere quando, non fra mille anni ma nei prossimi decenni, i mutamenti climatici cambieranno il nostro habitat in maniera molto più radicale e definitiva?

Nel frattempo state a casa, misuratevi la febbre e state tranquilli. Il virus alla fine lo batteremo, ma temo che contro gli idioti non ci sia partita. 

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