Archive from giugno, 2017

E domani si torna in piazza: per fare la sinistra.
Il pippone del venerdì/17

Giu 30, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

E domani si torna in piazza: per fare la sinistra. <br>Il pippone del venerdì/17

Mettetevi seduti che ve la dico brutale: secondo me ha ragione Renzi. I ballottaggi delle elezioni amministrative di domenica scorsa dimostrano una cosa semplice: la formula del centrosinistra che è in voga dal 2007, ovvero Pd più liste civiche e cespuglietti della sinistra, non funziona più. Le conclusioni del neosegretario del Partito democratico, insomma, sono esatte, anche se muove da un’analisi del voto completamente errata. E’ falso, infatti, che non ci sia bisogno in Italia di un’aggregazione che unisca le forze progressiste – mi piace chiamarle così perché centrosinistra mi sa tanto di politichese – e che rappresenti un’alternativa credibile al liberismo della destra e al sovranismo che tanto va di moda anche in spezzoni della sinistra. Tutt’altro. Non solo ce ne è bisogno, ma è essenziale. Quello che è finito, al contrario, è un modello di alleanza dove c’era un soggetto centrale, il Pd, che con la sua forza attrattiva faceva da traino agli alleati, deboli, subalterni, utili soltanto a rappresentare quella foglia di fico necessaria per arrivare a vincere i ballottaggi. E non funziona più per un semplice motivo: il Partito democratico, da elemento attrattivo è diventato una sorta di veleno che inquina i pozzi, anche quelli dove andiamo a bere noi. Basta guardare i miseri risultati delle liste di sinistra quando si alleano con i renziani. E anche quelli delle liste che fanno dell’antirenzismo il loro unico punto politico, paradossalmente, non paiono un granché. Vanno bene, al contrario le esperienze che partono dal basso, dalle realtà locali (ecco, io eviterei il termine liste civiche perché serve soltanto a generare confusione). E dove la sinistra si presente in maniera autonoma non solo raggiunge risultati considerevoli,  anche oltre il 20 per cento, ma riesce a trascinare il Pd alla vittoria al secondo turno. Padova è un esempio, ma ci sono tanti realtà più piccole sparse per il Paese.

Di questo processo si sono accorti anche autorevoli esponenti del Pd che si affrettano a invocare un nuovo tipo di coalizione, con un forte connotato civico. Che, tradotto dal politichese, vuol dire più o meno due cose:
1) Renzi può restare segretario del Pd ma non può essere lui il nostro candidato premier, serve un leader meno consumato dalle sconfitte a ripetizione;
2) Bisogna mascherare un marchio che non tira più, quello democratico appunto, dietro una qualche aggregazione che si tinga di civico. E torna ancora questa parola che adesso sembra diventata magica.

Ancora una volta io non sono d’accordo. Servono due cose. Intanto serve una sinistra forte, che rinasca dal basso, unendo le diverse esperienze cresciute in questi anni, da quelle politiche, a quelle sociali, alle forze sindacali. Non una coalizione civica. Serve una forza politica, molto politica. Che riparta dalle analisi degli economisti della sinistra europea, di quelli che hanno archiviato la terza via blairiana per tornare a parlare il linguaggio della sinistra. E quindi una forza che dica chiaramente di essere contro i privilegi, per l’uguaglianza, per i diritti dei lavoratori, per una scuola pubblica e democratica, per un nuovo stato sociale costruito sulle comunità e non sul dirigismo statale e regionale, per la riconversione ecologica dell’economia. Poche cose dette in maniera netta. Questa forza deve essere costruita nelle strade e nelle piazze delle città. Non in convegni chiusi dove si ritrova sempre la compagnia di giro dei reduci di mille sconfitte. E deve parlare alle forze sociali organizzate, dalle associazioni ai sindacati. Deve parlare ai sindaci indipendenti, da Orlando a De Magistris a Coletta (per restare nel Lazio). E deve essere una forza plurale, che rompa la logica maggioritaria dell’uomo solo al comando per valorizzare una classe dirigente diffusa, per tornare a formare una classe dirigente fatta di persone indipendenti e non di portaborse.

E poi serve la capacità di allargare il campo, di dettare i temi dell’agenda politica e non subirli. Di affermare i nostri valori anche quando i sondaggi te lo sconsigliano. Guardate che sembra semplice, ma non è così: da Berlusconi in poi non abbiamo più scritto noi la il menu, ma lo abbiamo solo letto e subito. Quella che Gramsci chiamava l’egemonia, l’abbiamo subita. Altro che storie.

Io credo che il primo luglio, la manifestazione lanciata da Articolo Uno e da Pisapia, possa essere la giornata giusta per lanciare un progetto di questo tipo. Mi sembra che l’impostazione iniziale, troppo centrata sulla presunta esigenza di individuare un leader sia stata corretta. A quanto si capisce dai quotidiani, mi pare anche che l’asse politico dell’iniziativa sia stato riportato sull’esigenza di una forza politica che sia autonoma, alternativa e in concorrenza con il Pd.

Gli elettori hanno, insomma, ci hanno dato una mano. Hanno spazzato via le incertezze e le titubanze di questi mesi. Mai come in questa occasione si è resa evidente la frattura fra il Pd e quello che era il suo popolo. E’ evidente. Perché ai ballottaggi sono rimasti a casa, ci sono città dove l’affluenza alle urne supera a stento il 30 per cento. Il caso Genova, città medaglia d’oro della resistenza, città ribelle, è emblematico: neanche l’aver contro un candidato della Lega ha fatto uscire di casa gli elettori di sinistra. Riportarli alle urne non sarà il lavoro di un giorno. Ci vorrà il lavoro di una generazione non tanto per mettere qualche toppa, ma per varare una nuova nave. Parliamo di Genova, uso una metafora portuale.

E allora bisogna lavorare su due fronti: quello immediato, in cui serve un’alleanza credibile, larga, in grado di porre argine alla destra che torna forte. Un terzo polo, credibile, che possa rappresentare un’alternativa sia ai moderati di Renzi e Berlusconi che ai populisti di Grillo e Salvini. Una forte rappresentanza in Parlamento ci servirà se vogliamo davvero diventare un punto di riferimento politico per quel pezzo di società che in questi anni si è sentito orfano.

Al tempo stesso serve un lavoro di lungo periodo, con due obiettivi. Intanto definire quale sia l’identità della sinistra. Di una sinistra che parte dalle sue radici ma che ha i piedi ben piantati nel presente e lo sguardo al futuro. Serve una identità nella società liquida? Io direi che serve a maggior ragione. Serve un’ancoraggio forte per resistere ai marosi di un oceano in tempesta.
I programmi li sappiamo fare bene, magari ci vengono un po’ lunghetti, ma siamo bravissimi. Quello che manca è un tratto identitario, in cui riconoscersi. Una nuova utopia, verrebbe da dire. Con il crollo del muro, nell’89, non è venuta già solo l’idea comunista. E’ venuta a mancare la nostra capacità di suscitare passioni, la speranza per chi è più debole di farsi gigante con gli strumenti della politica. Senza un orizzonte non si resiste alle intemperie di una destra che, al contrario, una sua identità ce l’ha e sa adattarla alle condizioni che cambiano.

Secondo: bisogna trovare una forma partito che esca dalla tradizione novecentesca. Io su questo punto sono davvero convinto che la tradizionale piramide, dalla sezione di quartiere alla direzione nazionale non sia più sufficiente. Le sezioni territoriali erano già morte nei Democratici di sinistra, il Pd ha solo rappresentato l’evoluzione di una crisi irrisolvibile. Non erano più da tempo punti di riferimento locali. E adesso i circoli sono “personali”, basta vedere i risultati dell’ultimo congresso romano per averne la prova. Non più luoghi di confronto, di iniziativa politica, di partecipazione e formazione, ma solo aggregazioni dietro un boss locale, a sua volta referente di un boss regionale e così via. E’ questa involuzione, la vera grande trasformazione genetica della principale forza organizzata della sinistra, che ha permesso l’affermazione di avventurieri vari, di cui Renzi è solo l’espressione più alta ma di certo non l’unica. Un modello organizzativo dove si annida spesso il malaffare, dove la corruzione può divenire strumento di affermazione personale. Servono soldi, tanti, per sfamare i clienti.
Veltroni, di cui spesso non ho condiviso il percorso ma che resta una personalità di spicco, l’aveva capito. Quando propose il partito liquido, dove non contavano tanto gli iscritti ma gli elettori, aveva in mente una maniera per scavalcare questa organizzazione basata sul potere personale di piccoli cacicchi locali. Un tentativo fallito, perché alla fine, controllare gli elettori (quando la base si restringe) diventa anche meno faticoso e costoso. Un votante alle primarie costa due euro, un iscritto ne costa una quindicina.

E allora va messo a punto un modello di organizzazione politica che metta in rete, che tenga conto delle diverse identità, che non sia necessariamente individuale, che dia la possibilità di emergere alle personalità più forti, alle competenze, finanche agli eretici, categoria della quale si sente un gran bisogno. Una nuova classe dirigente ci serve. Molto. Sarà utile se nascerà dal conflitto, dalla lotta politica. Se avremo l’ennesima covata di polli da batteria avremo perso la nostra battaglia. Ci serve la partecipazione. Meglio un vaffanculo che un ossequiosa leccata. Rete, partecipativa e democratica. Io sarei anche per scegliere i contenuti più che le persone. Se si ragiona prima di politica, se si costruisce iniziativa, le persone, i dirigenti vengono naturali. La forma con cui ci si organizza, insomma, è sostanza politica. Non semplice sovrastruttura. E che nessuno pretenda che altri si sciolgano da un giorno all’altro, le fusioni hanno bisogno di tempi.

Sono noioso, ripeto le stesse cose a ogni occasione possibile. Speriamo che questa sia la volta buona per uscire dai buoni propositi e cominciare a lavorare sul campo.

Ci vediamo domani. In piazza.

Il pippone del venerdì /16.
Salvate il soldato D’Alema

Giu 23, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

 

D’Alema di’ qualcosa, D’Alema di’ una cosa di sinistra. Ve lo ricordate Aprile? Quella frase che poi è diventata un tormentone? Beh, che dire, Moretti sarebbe stato contento. Perché di cose di sinistra, ieri, D’Alema ne ha dette tante. Ci voleva un caldo pomeriggio di fine giugno una iniziativa semiclandestina organizzata da un’associazione cattolica, nel centro di Roma. Si parla di povertà e diseguaglianze sociali, con religiosi, studiosi, politici. Uno strano parterre. Niente giornalisti, niente assillo della quotidianità. E un D’Alema assoluto mattatore. Quindici, venti minuti. E ti racconta il mondo. Le diseguaglianze, la finanza come generatore di ricchezza fuori da ogni forma di controllo sociale. Il ritrarsi delle masse degli esclusi dal protagonismo sociale e politico. La povertà viene sezionata: fenomeno economico, ma anche sociale. Si sentono le vite di scarto di Bauman che aleggiano nella sala. Ci sono Stiglitz e gli economisti francesi quando D’Alema parla della necessità di una tax autority internazionale per sottoporre a un nuovo controllo sociale le ricchezze che ormai hanno una dimensione non più nazionale.

Ma c’è anche tanta sinistra e tanta innovazione nell’analisi finale del. Due cose da fare per combattere la diseguaglianza: recuperare la funzione degli Stati, una dimensione pubblica di intervento e al tempo stesso favorire un nuovo stato sociale, un nuovo sistema di protezione, che veda protagoniste le persone e le comunità locali.

“C’è una tema enorme di fronte a noi – racconta chiudendo la sua relazione  – nei prossimi anni, l’automazione crescente porterà alla perdita di milioni di posti di lavoro. L’Europa non può permetterselo. Che fare?” La risposta è di quelle che non ti aspetti da chi, qualche anno fa, era un alfiere della terza via e di Tony Blair. “Serve un taglio drastico dell’orario di lavoro a parità di salario. Se diminuisce il tempo di lavoro necessario – come lo  definiva Marx – o calano gli occupati o si tagliano le ore  e quelle ore devono essere messe a disposizione della comunità”. Occhio che in questa frase c’è tutto un programma politico. C’è la piena occupazione, c’è il tema del tempo del non lavoro, c’è il tema di un nuovo umanesimo che deve permeare la sinistra. C’è la convergenza, questa volta sui fatti non nella fusione di gruppi dirigenti, della cultura cattolica e di quella marxiana. C’è la liberazione dallo sfruttamento della catena di montaggio per arrivare a una concezione del lavoro che diventa, almeno in parte, una sorta di servizio civile permanente.

Ora, facciamo un salto, io non sono mai stato dalemiano. A Roma era infestato da una pletora di cortigiani  che hanno approfittato del prestigio e del potere che quel nome portava con sé per creare una corrente che si muoveva con grande agilità in un intreccio grigio di politica e affari. Tutto (o quasi) lecito, per carità, ma meglio tenersi ben lontani da quelli che all’epoca chiamavamo “Talebani” o “Dalebani” che dir si voglia. Quando il potere è finito i dalemiani doc sono diventati renziani al mille per cento. Tutti, nessuno escluso. Dai Minniti, Latorre, Velardi, Rondolino fino al ragazzo di bottega, quel Matteo Orfini passato con un triplo salto carpiato dall’oscura segreteria di una sezione dei Ds di Roma a fare il capo corrente prima e il presidente del primo (o secondo) partito italiano. Tutti Talebani doc. Tutti pronti a ridere alle battute del capo, tutti pronti a correre al minimo battito di ciglia, anzi al minimo arricciarsi del baffo.

Insomma D’Alema, diciamolo, non ha avuto un gran fiuto nel selezionare i suoi collaboratori. Gente passata dal nulla a grandi quote di potere che adesso manco lo saluta se lo incontra per strada. E di errori, in generale, ne ha fatti davvero tanti. Li elenca lui stesso, anche perché non ama che lo facciano gli altri. L’esperienza di governo, quella passione per il new labour di Blair. Io ci metto anche una dimensione politica troppo legata alla contingenza del momento e poco tesa alla prospettiva, all’analisi.

Per questo dico che oggi sta vivendo una sorta di seconda giovinezza. Nel 2012 decide (lo fa da solo, non viene rottamato da Renzi come ripetono i costruttori di leggende prezzolati) di non ricandidarsi in Parlamento. Si dedica allo studio, alla sua fondazione, agli esteri. Nella lotta politica quotidiana appare poco. Fa la sua parte di militante, come ama definirsi, ma lo fa con un distacco quasi snob. Sono quasi cinque anni. Un’eternità. Poi ricompare impetuoso: il No al referendum del 4 dicembre, un ruolo importante nella scissione del Pd. Dice cose di sinistra, torna a essere “il Migliore”, l’erede ultimo di quella tradizione togliattiana che ha saputo essere egemone nella cultura politica italiana dal dopoguerra agli anni ‘90.

E subito riparte la caccia al D’Alema. C’è un accanimento decennale nei suoi confronti. Neanche il suo distacco dalla quotidianità lo ha cancellato. Erano solo in “sonno”. Pronti a ripartire. E gli ritirano fuori i presunti complotti contro Prodi, la Bicamerale, il patto della crostata, le bombe “illegittime” su Belgrado. Poi ripartiranno i dossier: dalle barche, al golfino, alle scarpe, al vino. La stagione di caccia è riaperta. Perché il Baffo è tornato. Non importa che non ricopra cariche. Non importa che non sia in Parlamento. Non importa che emani una naturale antipatia per quel suo essere volutamente scostante. Perfino quando dice “sono diventato buono”, ha una voce tagliente. E’ diventato nuovamente il nemico da abbattere numero uno. Ecco allora che parte la vendetta politica per cui in mezza Europa si lavora per toglierli la carica di presidente delle fondazioni del Pse. Ecco che si scatenano i giornalisti da cortile in fantastici retroscena in cui si raccontano – fonti certe ci mancherebbe altro – di dissidi continui con Bersani che starebbe manovrando per non riportarlo in Parlamento.

Ci si mettono anche quelli della sinistra cosiddetta radicale che quando sentono parlare di D’Alema usano perfino le parole di Renzi per attaccarlo. Tutti d’accordo.

Ora, io che dalemiano non lo sono mai stato, questo grido d’allarme posso lanciarlo senza tema di essere tacciato di cortigianeria. La mia stima è testimoniata dalla foto che apre questo pippone. Mi feci tutta la grande manifestazione del Circo Massimo con quel cartello al collo: “Liberate Baffino dai Talebani”. Un successone, devo dire. Ma una foto che testimonia anche la mia distanza. Eppure, ragazzi, ora che è libero, ci serve come il pane. Perché, sia pur senza cariche, è l’unico leader rimasto alla sinistra italiana. Abbiamo tanti dirigenti capaci, da Bersani, a Rossi, a Speranza, a Fratoianni, a Civati, alle new entry Falcone e Montanari. Abbiamo giovani che scalpitano e ai quali bisogna lasciare spazio. Ma di leader a tutto campo non ne abbiamo. Gli anni, le sconfitte, gli imporranno anche un ruolo di seconda fila. Di padre nobile, per così dire. Ma non ne abbiamo altri con la sua capacità di analisi, coraggiosa e ritrovata. Ci serve la sua passione, la sua volontà di unire, la sua capacità di immaginare una nuova sinistra, alternativa al Pd, perno di un altrettanto nuovo centrosinistra.

In questi mesi la navigazione non è stata facile, per usare una metaforica marinara che ci sta tutta. La barchetta sulla quale siamo saliti traballa parecchio. E i prossimi mesi saranno ancora più complicati. Mi chiedo però cosa sarebbe successo se non ci fosse stata l’iniziativa costante del soldato D’Alema. Quel pungolo, quell’assillo unitario che lo ha riportato in campo. D’Alema si deve o meno ricandidare? Si facciano le primarie che ha chiesto lui stessi a gran voce (primarie della sinistra, non del Pd, sia chiaro). E’ bene che i politici tornino a misurarsi con la ricerca del consenso. Nei mercati e nelle piazze. Che sia un oscuro comitato di garanti a decidere le nostre candidature  mi sembra un’idea ottocentesca, lo dico sinceramente. Bene liste costruite nei territori, bene che siano liste giovani. Ma senza polli da allevamento.

Il soldato D’Alema ci serve, cari compagni. Non ha bisogno di essere salvato, si potrebbe dire, ci pensa bene da solo. Ecco, lo so, ma io credo, che ricordarci tutti l’importanza della solidarietà fra di noi sia di per sé un passo in avanti nella ricostruzione non tanto della sinistra, ma di quella comunità politica che negli anni abbiamo perso.

Per cui, senza esitazioni: guai a chi tocca il soldato D’Alema.

Brancaccio, 18 giugno: le mie pagelle

Giu 19, 2017 by     1 Comment     Posted under: dituttounpo'

La dico subito, senza perifrasi: non mi sono sentito a casa. Ora, per essere sinceri, fra i presenti al Brancaccio ieri ci si conosce un po’ tutti. Non prendiamoci in giro. Per trovare energie nuove bisogna lavorare quartiere per quartiere, non fare assemblee nazionali. E questo è proprio quello che propongono Falcone e Montanari. Quindi non è un problema di presenti. E’ un problema di clima, della prospettiva politica che si dà a un’assemblea. Ho avuto la sensazione che l’assemblea di ieri avesse come scopo quello di certificare le divisioni a sinistra più che trovare le ragioni (e sono tante) dello stare insieme. E comunque sia, invece del Pippone, questa volta voglio essere sintetico. Le pagelle faranno tanto quotidiano sportivo, ma del resto… oggi è lunedì…

QUELLO CHE MI E’ PIACIUTO. Comunque, proviamo a vederla in positivo.
Mi sono piaciuti gli interventi di Civati (voto 8.5) e Fratoianni (voto 7.5). Il primo perché, secondo me, è quello che in questa fare spinge di più per stare tutti insieme. Il secondo perché, magari a sua insaputa, è la prova sul campo della follia delle attuali divisioni a sinistra. Perché le cose che dice dal punto di vista programmatico sono sovrapponibili, al di là delle sue metafore che possono non piacere, a quello che dice Bersani: equità fiscale, investimenti, welfare universale, lavoro.

Mi sono piaciuti gli interventi di Andrea Costa (voto 9) e Francesca Redavid (voto 9-), perché magari saranno anche società civile e politica insieme, ma si capisce che è gente che con i problemi si confronta ogni giorno. Che la spesa al mercato la fa in prima persona e non ci manda la colf.

Mi sono piaciute le contestazioni a Miguel Gotor, al di là della strumentalità delle stesse. Perché vivaddio in un’assemblea ci si confronta e se non sono d’accordo te lo dico chiaramente. Basta con il servilismo delle filiere.  Voto 7,5.

Mi sono piaciute, le conclusioni di Anna Falcone, (le ho viste in streaming perché all’una e mezzo mi sono arreso e sono uscito) perché è stata capace di riannodare i fili di una discussione complessa e appena agli inizi. E perché ha una immagine che fa trasparire una certa distanza dalla politica politicante. E allora si emoziona, si arrabbia, si sente passione, al di là delle ingenuità. Ora deve dare corso a quanto annunciato: ricostruire una comunità dal basso. Al lavoro. Voto 7.

Massimo D’Alema. Arriva prima degli altri, si mette a sedere e ascolta. Magari avrà anche sbuffato alla critiche (insistite e irritanti) di Montanari. Avrà anche avuto la tentazione di intervenire e di dirgli: “Sì, avremo anche sbagliato, ma è facile salire in cattedra dopo”. Però ha resistito alla tentazione. Bene, bravo. Uno che all’unità della sinistra ci tiene davvero e quindi capisce quando bisogna ascoltare.  Voto 8.

COSA NON MI E’ PIACIUTO.
Intanto l’introduzione di Tomaso Montanari.
Deludente, troppo rivolta al passato remoto. Con giudizi sommari sulle esperienza di governo dell’Ulivo. Il centrosinistra non è morto perché Prodi ha sbagliato. E’ morto perché la sconfitta del 2013 rappresenta uno spartiacque definitivo. E anche questo giudizio sul Pd “ormai di destra”: si cerca l’applauso facile, da uno studioso ci si sarebbe aspettata un’analisi meno da bar sport. E poi, professo’: e mica va bene dire, voi avete sempre sbagliato tutto, ma premetto che io non mi candido. Eh no, caro Montanari non si fa così. Ci si candida e si capisce quanto consenso si riesce a raccogliere. Girotondino in ritardo. Rimandato a settembre: voto 5.

L’assenza di Giuliano Pisapia. Ora, dire “non ci sono le condizioni per la mia presenza” è una cazzata epocale. Che hai paura dei fischi? E saresti un leader? Ora, caro Pisapia: da mesi si parla di te come di possibile federatore del centrosinistra. Hai lavorato per Sala a Milano, hai votato Sì al referendum. Me lo ricordo bene, ma ci passo anche sopra. Il problema è che ancora non ho capito come la pensi sui temi sollevati da Bersani, Fratoianni, Civati e tanti altri. Non ho sentito un tuo giudizio su questi anni di governo Renzi. Ci mandi a dire che dobbiamo scioglierci al tuo cospetto. E se ci piaceva il vate incontestabile restavamo nel Pd. No, compagno Pisapia: vieni, ti becchi i fischi, ma ci spieghi, una volta per tutte cosa vuoi fare da grande. Voto 4.

L’intervento di Miguel Gotor. C’è chi i fischi li evita e chi li cerca. Tutto bene il suo ragionamento, tutto bene il suo appello all’unità,bene i temi di discussione indicati. Ma se inviti quelli che sono stati appena sfanculati da Pisapia a partecipare alla sua iniziativa il minimo è che ti fischiano. Il sospetto è che, essendo un ragazzetto sveglio, quelle contestazioni tu le abbia proprio cercate, anche attraverso il ripetere più volte “Insieme”, ovvero il presunto nome della formazione politica dell’avvocato milanese. Voto 5.

L’organizzazione. Ora, non era tanto difficile capire che il Brancaccio si sarebbe riempito. E poi che palle i teatri, con la direzione che teme multe anche per un peto di troppo. Ricominciamo a riunirci in spazi diversi: chiediamo all’università, altrimenti affittiamo il palazzetto dello sport, vediamoci in un parco, magari all’ombra. E poi non puoi dire: chi esce non può rientrare: io sono arrivato alle nove meno dieci. E all’una e mezzo un’insalata e un caffè li devo assumere. Altrimenti gli elettori non si attraggono, si eliminano. Si vede che non ci sono più i partiti, anche da queste ingenuità. Voto 4.

I giornalisti. Ora, non so quanti sono stati gli accrediti, a occhio, c’erano decine di fotografi, cineoperatori e giornalisti. Risultato: zero servizi sui tg nazionali, poche righe sui siti principali di informazione e sui quotidiani. Tanto spazi alle contestazioni a Gotor, poco al senso politico dell’iniziativa. E allora, cari colleghi, non ve ne potevate stare a casa? Magari così qualche altra decina di posti la rimediavamo. Voto 3.

Lettera aperta alla Sinistra
Edizione straordinaria del “pippone”

Giu 16, 2017 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Scena prima, una strada di Roma, giugno, volantinaggio di Articolo Uno.
Passante: “Ma che è?”
Militante: “E il nuovo movimento della sinistra, con Bersani, Speranza, D’Alema”.
Passante: “Bravi, ce l’hanno fatta a lasciare Renzi. Però mica farete un altro partito. Dovete stare tutti insieme, sennò io me ne rimango a casa”.
Militante: “Hai ragione pure tu, ma insieme con il Pd? Con Renzi?”
Sguardo truce del passante: “Ma de che? Insieme sì, ma la sinistra”.

Scena seconda, sfoglio dell’organo di stampa di un grande gruppo editoriale.
“Pisapia: no alla sinistra rancorosa. Tutti insieme, ma serve il centrosinistra, non un partito di testimonianza, dobbiamo puntare al governo. Con quelli del 18 giugno abbiamo un’altra visione”.
“Il primo luglio nasce Insieme, appuntamento a Roma. Prodi non ci sarà, ma in futuro potrebbe arrivare la sua benedizione. Letta non ci sarà ma si sente vicino. Cuperlo tentato. Sul palco Boldrini, Bersani e Pisapia. Obiettivo: dividere Bersani da D’Alema. Prodi incontra Renzi: farò da collante”.

Scena terza, dibattito sui social.
Militante di Sinistra italiana:
“Eh no però, con chi ha votato Sì al referendum non ci voglio stare insieme. E poi D’Alema ha bombardato Belgrado. E Bersani che vuol dire che lui è liberale?”
Militante di uno dei partiti comunisti: “Ah, ma noi siamo comunisti, non ci interessano le istituzioni, siamo per la lotta nel lungo periodo”.
Militante di Articolo Uno: “Ma noi siamo per unire la sinistra, ma contro l’accozzaglia. Vi sento un po’ rancorosi oggi. E poi voi non siete neanche un prefisso telefonico”.
Sostenitore di Pisapia: “Bisogna tornare allo spirito dell’Ulivo, ma mica rivorrete fare l’Unione. E poi con il Pd, ma senza Renzi, bisogna dialogare”.

Insomma, qua non abbiamo capito nulla. Non abbiamo capito il grido del passante, a cui l’idea di un ritorno in campo di una sinistra piace anche, ma che nel guazzabuglio di gruppetti dirigenti, nei giochetti parlamentari non ci si ritrova proprio. Non vi capisce, cari presunti leader della sinistra. Non capisce cosa vi divide. E soprattutto, le elezioni amministrative ne sono l’ennesima riprova: non vi vota. Ritorna in campo solo quando vi presentate insieme e lo fate con un progetto radicato nella città e credibile. Alternativo e autonomo. E allora? Nel mio piccolo ci provo, con questa mia lettera-appello. Copiatela, condividetela, scrivetene una vostra, ma diamoci tutti (tutti tutti) da fare.

Lettera aperta alla Sinistra

Cara Sinistra,

da ragazzo, appeso davanti al mio letto, avevo un grande poster. C’era un Pasolini in bianco e nero, con accanto la sua poesia secondo me più bella: “Alla bandiera rossa”. Parla di una bandiera che era stata la speranza di milioni di persone e si sta sbiadendo, sta diventando un ricordo. Il poeta non era uno di quelli che te la mandava a dire, la conseguenza era drammatica, le parole impietose: “Chi era coperto di croste è coperto di piaghe, il bracciante diventa mendicante,  il napoletano calabrese, il calabrese africano, l’analfabeta una bufala o un cane”. Quando guardavo quel poster, quando leggevo quelle parole, mi venivano sempre le lacrime agli occhi. Un po’ perché era un regalo di mia madre. Un po’ per quelle parole, violente, di Pasolini. Ecco, cara Sinistra, tu oggi sei come quella bandiera rossa.

Ti sei sbiadita dietro i giochi in Parlamento, ti sei nascosta nei retroscena dei giornali. Ti perdi ogni giorno di più nelle divisioni, nella frantumazione, nelle votazioni “tattiche” alla Camera e al Senato. E mentre tu ti sei persa, gli altri, le destre, mica stanno a aspettare. Siamo il paese con più diseguaglianze d’Europa. Fra lo stipendio di un manager e quello della sua segretaria passano vite intere. Dodici milioni di cittadini non si curano più. Non hanno i soldi e lo Stato pensa a dare i buoni ai figli dei ricchi. Invece di diminuire le tasse ai poveracci, cara Sinistra, chi governa in tuo nome, le ha diminuite ai padroni, non gli tassa neanche i villoni, quelli con la recinzione alta due metri, messa lì perché non si possa neanche vedere quello che c’è dentro.

Cara Sinistra, ti sei persa fra le righe dei comunicati stampa, dietro al dialogo via tuitte. In quei 140 caratteri maledetti che non ti fanno pensare. In quella gara a chi fa la battuta più fica, non ti abbiamo più ritrovato. Ti sei persa perché ai cancelli delle fabbriche non ti sei fatta più vedere. Ormai ci va soltanto, pensa un po’, Papa Francesco. Sei prigioniera nei gruppi parlamentari. Ti sei persa da quando non solo non vieni più ad ascoltare i compagni e i cittadini, ma pretendi pure di insegnar loro come devono vivere.

Cara Sinistra, io te lo dico con grande affetto: ci hai un po’ rotto le palle a tutti. Noi siamo quelli che ci sono sempre, che stanno alle cucine alle feste, che fanno i rappresentanti di lista estate e inverno, che riempiono le sale quando arriva il deputato. Quelli che votano, cercano le preferenze, si sgolano per strada e si prendono i pesci in faccia per te. Quelli che si incazzano, discutono, Quelli che ci hanno sempre creduto e sono sempre stati iscritti al Partito. Con la P maiuscola.

Ecco, proprio voi, cari militanti ignoti della Sinistra dispersa: qua ci stanno mandando a sbattere, gruppi dirigenti senza popolo, leoni da tastiera che non alzano la faccia dal computer. Serve una ribellione unitaria. E nel mio piccolo ci provo. Con questa lettera-appello, rivolta alla Sinistra ma ancora di più a voi. Ribellatevi, ribelliamoci. Inondiamo di mail i nostri parlamentari, facciamoci sentire ogni volta che convocano un’iniziativa, ma, ancora di più, facciamola da soli, la sinistra. Telefoniamoci, messaggiamoci, fissiamo incontri tra noi, militanti ignoti frantumati per motivi ancor più ignoti. Convochiamo noi assemblee (caseggiato per caseggiato) con un solo slogan: Unità. E invitiamo i parlamentari, i dirigenti, li facciamo sedere in platea e li costringiamo, per una volta, ad ascoltare noi. E se ancora non capiscono prendiamoli e chiudiamoli in una stanza.

Cara Sinistra, insomma, non servono le cose complicate. Nome: La Sinistra. Simbolo: Una stella rossa, una sola mi raccomando. Un bel cerchio, con un altro slogan: Uguaglianza è democrazia. No, cara Sinistra, non è uno sbaglio. Volevo proprio usare il verbo essere. L’accento è giusto. Perché la democrazia, se il tuo padrone guadagna mille volte più di te è una presa in giro. Senza uguaglianza le libertà democratiche sono una chimera. Cara Sinistra, chiama un grafico bravo, fatti fare un simbolo chiaro, di quelli che sulla scheda si vedono bene Il partito unico? Lascia perdere, cara Sinistra: siamo un arcipelago, costruiamo intanto una rete. Non una piramide, hai capito bene: una rete. Fatta da tutti i partiti e i movimenti esistenti, dalle liste civiche, dalle associazioni, dai singoli militanti ignoti.

Cara Sinistra, parla anche con i sindacati e spiegagli che si devono dare una mossa anche loro, perché hanno cominciato con l’articolo 18 e la “Buona scuola”, ma mica hanno finito. Non fate i buoni, neanche voi. Scendete in campo, aiutateci, non pensate che la contesa politica sia altra cosa, che non vi riguardi.

Insomma, cara Sinistra, non perdere altro tempo, torna nelle piazze, torna dalla parte del torto, con i migranti, con i pezzenti, torna a fare la Sinistra.
Come diceva Pasolini, cara Sinistra “ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.

Il pippone del venerdì/14
Di tatticismo si muore, Articolo Uno rompa gli indugi

Giu 9, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Mentre in Gran Bretagna i laburisti, con un programma di sinistra, guadagnano seggi per la prima volta dal 1997, in Italia quelli che sono sempre stati in vita loro in un partito del 3 per cento, spiegano a D’Alema come non fare un partito del 3 per cento. Sullo sfondo l’ennesimo disastro renziano: salta l’accordo sulla legge elettorale, il voto segreto fa emergere tutta la doppiezza dei grillini. Che saranno anche gli apriscatole del Parlamento, ma poi, quando si trovano a dover decidere, si comportano come la peggiore Democrazia cristiana: comandano le correnti. Succede nelle amministrazioni locali, dove non v’è traccia della trasparenza e della partecipazione dei cittadini. Succede alla Camera dove fanno finta di fare l’accordo e poi lo bruciano con manine che dovevano restare segrete e, invece, sono apparse sul tabellone elettronico di Montecitorio. Ma tutto questo è cinema. Torniamo al filone principale.

Ora, dicevamo la settimana scorsa: la sinistra guadagna voti quando fa il lavoro suo, difende i deboli, elabora programmi di riscatto sociale, parla ai lavoratori, agli studenti, ai pensionati. E’ successo in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Francia. Succede proprio in queste ore in Gran Bretagna. Il vecchietto Corbyn che tutti davano per defunto prende il 40 per cento. E allora come prendere voti e tornare a contare qualcosa anche in Italia? La risposta è facile. Copiamo dal resto del mondo. E invece no. Da settimane ci stiamo lambiccando sulla formula da adottare: rifare la sinistra, rifare il centro sinistra, no serve un sinistra centro. Ma poi ci mettiamo il trattino o no? Serve un centro-sinistra discontinuo. Sì, ma niente ammucchiate arcobaleno. E questa, lo dicevamo in apertura, è la più bella.

Andiamo con ordine. Che succede nel 2008? Caduto il governo Prodi, anche grazie ad alcune uscite improvvide sulla vocazione maggioritaria del Pd da parte del segretario Walter Veltroni, il Partito democratico decide che il centro-sinistra che aveva vinto le elezioni precedenti non serve più e che alle elezioni andrà da solo. Uno scontro frontale con Berlusconi. Bertinotti, allora leader di Rifondazione comunista, la principale formazione a sinistra dei democratici, dice che va bene e dà vita alla sinistra arcobaleno, raggruppando tutti i frammenti di quella variegata galassia: dai vari partiti comunisti, a quella parte dei vecchi Ds che non aveva aderito al Pd, ai verdi. Non aveva calcolato, il rivoluzionario dei salotti bene di Roma, due cose. La prima: andare alle elezioni con un simbolo nato dal nulla pochi mesi prima non era una grandissima idea. La seconda: il maggioritario tende a polarizzare lo scontro fra i due contendenti principali. Morale della favola la sinistra arcobaleno rimase fuori dal Parlamento e iniziò una lunga traversata nel deserto. Una batosta dalla quale, pur con risultati meno disastrosi,  non si è più ripresa: la diaspora è proseguita, le aggregazioni che si sono succedute negli anni sono sempre state accordi fra gruppi dirigenti, lontani dagli scontri veri in atto nel paese.

Che succede da qualche mese a questa parte? Qual è la vera novità? Che un pezzo di gruppo dirigente del Pd abbandona Renzi, dice che quella non è più la sua casa, troppo personalismo, troppi elementi di destra nell’azione del governo e dice: tocca ricostruire un soggetto politico plurale e unitario al tempo stesso, che possa dare rappresentanza a tutto quel popolo che non sa più chi votare. E si è rivolto perfino, negli ultimi anni, a un movimento populista e demagogico come i 5 stelle. Come fare? Ripartiamo dal basso. Insomma, le tesi che da qualche anno, non da solo, provo a sostenere. Chi ogni tanto legge le mie farneticazioni, lo sa bene cosa intendo: vedo la sinistra come tante isole disperse nell’oceano. Non parlo tanto delle tante (troppe) sigle di partiti e partitini, ma della sinistra diffusa, delle associazioni, dei movimenti. Di tutte quelle esperienze di resistenza sociale che, nel vuoto della politica, hanno tenuto duro in questi anni. E non hanno rappresentanza. Facile? Tutt’altro.

Non è per niente un compito facile. E diventa ancora più complicato se ci mettiamo a fare l’analisi del Dna a ciascuno di noi. A rispondere “no tu no” a chi dice “vengo anche io”. I veti reciproci, il rinvangare errori di vent’anni fa, non ci porterà da nessuna parte. Ora si parla di un nuovo Ulivo, di un nuovo centro sinistra, chi è stato protagonista della stagione della sinistra arcobaleno parla con terrore di quella esperienza. E lo venite a dire a noi? Guardate che abbiamo ben chiaro che non serve la somma delle siglette della sinistra. Non serve un’operazione di conservazione di ceto politico. Bisogna parlare a quelle mille isole disperse, bisogna dirgli che devono uscire dal guscio, che devono mettersi in gioco direttamente. Non delegare a una classe dirigente stanca e usurata dalle sconfitte, ma farsi classe dirigente in prima persona. Non aspettare che noi ricostruiamo una casa dove anche loro possano riconoscersi, ma costruirla insieme. Altro che sinistra arcobaleno, altro che somma di partitini inesistenti. Esperienze di questo genere, questa rincorsa minoritaria, non sono nel nostro Dna. Diciamolo una volta per tutte: non si prendono lezioni da chi in formazioni irrilevanti ha passato gran parte della sua storia politica. Che ognuno faccia i conti  con la sua storia, con le sue sconfitte e le sue vittorie.

Il punto da cui partire, la base comune, non può che essere, a mio avviso che uno: applicare la Costituzione italiana. Io credo che dire il nostro riferimento è il no al referendum del 4 dicembre, sia insufficiente. Intanto perché chi ha votato sì con molti mal di pancia, per mera disciplina di quello che all’epoca era il suo partito, non può essere crocifisso nei secoli a venire. Ma anche perché non si parte da un no, non ci si definisce per contrarietà. “Noi siamo quello che non vogliono”. Capite la debolezza di questa frase? Noi siamo quelli che, dopo un referendum che ha salvato la Costituzione da un attacco senza precedenti, ora vogliono farla vivere, vogliono che i principi scritti nella prima parte della Carta diventino azione politica quotidiana. Credo sia una prospettiva più solida, più attrattiva.

Punto secondo: le diseguaglianze. Io resto convinto della necessità di superare il capitalismo. Sarò vintage, ma sono rimasto legato alla prospettiva indicata da Togliatti prima e Berlinguer poi. Le libertà democratiche, i diritti civili e sociali, dicevano, sono nulla, diventano parole vuote, se non ci si aggiunge una libertà più importante, la libertà dal bisogno, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nel paese che ha accumulato negli ultimi vent’anni più diseguaglianze che nel resto d’Europa messa insieme, queste frasi sono fondamentali, la parola “uguaglianza” assume una valenza rivoluzionaria. E quindi lavoro, investimenti, sanità di qualità per tutti, una scuola pubblica più forte e più democratica. Non so se sono parole vecchie, antiche dice qualcuno. A me sembra che siano di gran moda in tutto il mondo.

Ultima notazione, la vicenda del leader di questo schieramento. Un sondaggio apparso nei giorni scorsi sul Fatto Quotidiano, attribuisce a una forza unita della sinistra percentuali intorno al 10 per cento. Con punte del 16 a seconda del leader. Saviano, per dirne uno, è quello che attira più consensi, a seguire Rodotà e Bersani. Io credo sempre che, più che sulla ricerca di una figura carismatica, dovremmo concentrarci di più su cosa vogliamo fare e metterci a farlo. Casa per casa. Poi le formule verranno da sole e i leader cresceranno. Alcuni errori, però, vanno evitati con accuratezza.

1) Basta con i tatticismi politicanti. Non ci capisce nessuno se ci definiamo in maniera differente a seconda del modello elettorale in voga durante la settimana. Credo che sia persino insufficiente e fuorviante definirsi come forza “alternativa” al Pd. Perché una forza non si definisce in relazione ad altri. Quella che dobbiamo costruire non è una forza alternativa a qualcuno, ma una sinistra autonoma, dal punto di vista culturale innanzitutto.

2) No al raggruppamento dei reduci. In queste settimane abbiamo dato tutti un’occhiata ai nomi che girano e che garantirebbero, nella mente di chi li fa filtrare, un profilo del tipo ulivista alla nuova formazione politica. Da Prodi, a Tabacci, a Letta. Fino a De Mita che le cronache danno in fase di grande attivismo. Tutte figure significative che hanno avuto un ruolo importante nella nostra storia. Ed è positivo sapere che ci guardano con attenzione. Ma non possono essere il nostro riferimento. Anche perché poi lo stesso Prodi ci fa sapere che si è accampato con la tenda e aspetta. Non si sa bene cosa. Noi di tutto abbiamo bisogno meno che di gente che aspetta.

3) Nessuno pensi che basta definirsi leader per esserlo. Lo dicono proprio i sondaggi. Non basta avere il via libera da parte di qualche salotto buono. Neanche se di quel salotto fanno parte editori, capitani d’industria e importanti intellettuali. Quando si va a votare, il loro voto sempre uno conta. Il leader, o meglio il gruppo dirigente si sceglie con un processo di partecipazione. Primarie, assemblee diffuse, decidiamolo insieme.

4) Basta con le posizioni dette a metà. Dobbiamo essere netti. Diritti: bisogna reintrodurre l’articolo 18. Punto, senza mediazioni a monte. Scuola: abolire questa vergogna dell’alternanza scuola lavoro. Tasse: paghino i ricchi, noi abbiamo già dato. Guardate che i Melenchon, i Corbyn i voti lo hanno presi così. Fra i giovani, mica fra i sessantenni.

5) Basta con le convocazioni in contrapposizione: prima si fa l’assemblea di quelli del No, poi si fa quella di Pisapia e soci. Articolo uno, che nasce proprio con la vocazione di riannodare i fili spezzati, non può essere semplice spettatore, infrastruttura a disposizione come dicono alcuni con un’espressione orribile. No, tutt’altro. Dobbiamo essere noi il motore della barca. Dobbiamo fare il giro delle isole, non aspettare che si spostino da sole.

 

Il pippone del venerdì/13
La sinistra, breve storia (triste) di un suicidio di massa

Giu 2, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Punto primo: la sinistra vince, o meglio resiste, quando fa la sinistra. Perde quando si sposta al centro e sposa i vari liberismi, magari tentando di mitigarne gli aspetti più estremi. Succede in tutto il mondo.
Punto secondo: il centro, in politica, non esiste. E’ una finzione che ci siamo inventati in Italia, in tutto il mondo i partiti si schierano sull’asse progressisti/conservatori. Possono essere più o meno orientati verso uno dei poli, ma un partito neutrale rispetto a questa contrapposizione non esiste in natura. E anche quando qualche movimento politico proclama la sua neutralità è solo per mascherarsi.

Il ragionamento sarebbe ovviamente più complesso e articolato. La contrapposizione progressisti/conservatori appare a volte più o meno netta. I fattori che entrano in gioco vanno spesso oltre la contrapposizione di classe dell’800. Anche se, lo dico per onestà, io trovo che capitalisti contro proletari, in fondo in fondo, funzioni bene anche adesso, se ampliamo l’orizzonte a livello mondiale. Al netto delle semplificazioni, che ammetto, io credo che queste coordinate siano vere, questi due punti fermi rappresentino bene la situazione politica. Tranne che in Italia. Paese nel quale c’è ancora il fattore k.

Riassumiamo brevemente, non me vorrete per la rozzezza dl racconto. Nel dopoguerra in Italia si crea una situazione del tutto originale, rispetto al resto dell’Europa occidentale: c’è un blocco moderato, conservatore, che ha il suo fulcro nella Democrazia cristiana, non c’è un blocco progressista che possa competere per la conquista del potere, perché la sinistra è rappresentata essenzialmente dal Pci, partito che arriverà nelle stagioni migliori a due milioni di iscritti e al 34 per cento dei voti. Una forza considerevole, ma non spendibile per il governo. Perché l’Italia, nella spartizione del mondo fra Usa e Urss che avviene dopo la seconda guerra mondiale, fa parte dell’occidente. E, malgrado l’evoluzione democratica avviata da Togliatti e conclusa da Berlinguer, resta la pregiudiziale: il Pci può amministrare Comuni e Regioni ma non può partecipare al governo del paese. Lo chiamano fattore K. E quando con Moro si profila una convergenza fra Dc e Pci, il famoso compromesso storico, ecco che il dirigente democristiano viene rapito dalle Brigate rosse e ucciso. Un rapimento dietro il quale c’è chiaramente la mano dei servizi segreti. Non solo italiani.

E allora che succede? Quale è il senso di questa storia? Complice il fattore K, in Italia ci siamo inventati il centro: la Democrazia cristiana da partito conservatore diventa un grande contenitore in cui sono presenti sia la destra che la sinistra. E tutto ruota intorno alla balena bianca: si allea con le forze moderate, poi si apre ai socialisti che si allontano dal Pci. Quando servono ci sono i voti del Msi, la destra fascista, voti in frigo, ma a disposizione. Una grande ammucchiata. La sinistra comunista, un terzo del Paese è bene ricordarlo ancora una volta, resta esclusa. Fino a tangentopoli. Siamo all’inizio degli anni ’90. Il Pci, finita l’Unione sovietica, ha cambiato nome, crollano gli altri partiti tradizionali. Sembra arrivato il momento per avere un governo progressista. E invece che succede? Salta fuori Berlusconi, aggrega la destra, parte della vecchia Dc e del Psi, tira fuori dal frigo il Msi, diventato nel frattempo An, e rimanda i nipotini di Togliatti all’opposizione. Servirà Romano Prodi, un ex democristiano per portare i progressisti al governo. Insomma, il fattore K passa dall’essere elemento di esclusione totale a elemento di “necessità di tutela”: potete governare ma non troppo, vi controlliamo comunque noi. Perfino quando un ex comunista diventa presidente del Consiglio, succede con Massimo D’Alema dopo la caduta di Prodi in Parlamento, la gestione del potere, la stanza dei bottoni vera, ha un forte ancoraggio occidentale. Il suo governo tira avanti grazie alle truppe di Francesco Cossiga, l’ex presidente della Repubblica regista di gran parte delle trame anticomuniste dei tempi della guerra fredda. E D’Alema per dimostrare la sua fedeltà all’occidente, dovrà perfino far partire i bombardieri contro la ex Jugoslavia. Una sorta di sindrome dell’ultimo arrivato che deve dimostrare al gruppo quanto è fico.

E che si fa? La sinistra, per risultare ancora più digeribile al potere economico in Italia, si annacqua ulteriormente: nasce il Partito democratico. Lo guida il meno comunista degli ex comunisti, Walter Veltroni. E manco così va bene. Ci prova Pierluigi Bersani, esponente della sinistra del fare, ex presidente dell’Emilia Romagna. Insomma, uno che vuole aiutare l’economia capitalista, non trasformare l’Italia in un paese socialista. E niente, non va bene neanche lui. Quando la vittoria sembra a un passo gli piazzano Mario Monti, presidente del Consiglio di un governo chiamato a salvare il paese dall’emergenza economica. E gli dicono: lo devi sostenere, altrimenti l’Italia va verso la bancarotta. Probabilmente non è vero, malgrado la cura liberista siamo ancora un paese troppo importante economicamente. Ma il Pd ci crede. Più di un anno di agonia. Non sto a fare l’elenco, perché i provvedimenti decisi dai tecnici sembrano la trama di un film dell’orrore. Tutti sappiamo come è finita, la vittoria non vittoria, i 101 contro Prodi, le dimissioni di Bersani, le nuove primarie.

Qui si chiude il cerchio della storia del dopoguerra. Renzi, giovane virgulto democristiano con entrature importanti in ambienti finanziari e in oscure lobby, diventa il “capo” degli ex comunisti. E cosa ti fa fin dal primo giorno di lavoro? Lavora per farli estinguere. Questa è la famosa rottamazione, altro che storie: non il pensionamento di uno o due leader politici consunti dagli anni, ma la rottamazione di un’intera cultura politica italiana, la cultura comunista italiana che ha continuato, in varie forme a essere cervello e gambe della sinistra nel nostro paese. Lo fa, o almeno prova a farlo, perché la trova nel momento più basso della sua storia. I dirigenti sono consumati dalle sconfitte, sotto di loro c’è una classe di giovani rampanti che, il giorno dopo l’elezione di Renzi, provano già a salire sul carro del vincitore. E il ragazzotto fiorentino, magnanimo, li accoglie, ma lascia loro i posti più scomodi e marginali, non entrano mai nella vera stanza dei bottoni. In cambio pretende fedeltà assoluta. Una roba che neanche negli anni in cui il centralismo democratico era regola assoluta per la vita del Pci. Perché lì almeno si discuteva prima di decidere. Adesso il leader decide e hai una sola opzione: dire di sì. Chi contesta, educatamente, diventa gufo, rosicone, parruccone, rema contro. Succede all’interno del partito, succede con i giudici che bocciano le leggi del governo, succede con i – rari – intellettuali che provano a gridare che “il re è nudo”.

Il resto è storia di oggi. Una parte, piccola o grande si vedrà, di quella tradizione, di quella cultura comunista italiana, prova a rialzare la testa, se ne va dal Pd e dice: “Ragazzi, si riparte”. E scatta subito il fattore K. Questa volta assume le sembianze di un timido avvocato milanese, un esponente della cosiddetta borghesia illuminata che si autonoma leader federatore, prende le redini della baracca e dice: bisogna rifare il centrosinistra. Anzi più che dice, pigola. Perché fra un tentennamento e l’altro questo Pisapia sembra più un pulcino spaventato – il pulcino Pisapio appunto – che un capo politico. Ma al di là delle battute, quello che vorrei provare a spiegare è l’errore di fondo su cui si basa questa operazione, alla quale, a quanto pare, tutti stanno accodandosi in buon ordine.
Immaginatevi questa scena: per vent’anni vi danno da mangiare biscotti con olio di palma. Poi a un certo punto si scopre che l’olio di palma fa male. Lo eliminano dai biscotti e lo sostituiscono con il burro di palma. Non è che fa male anche quello no?

Insomma, provo a dirla semplicemente, da qualche anno oramai mi sono fatto questa convinzione: non è che il progetto originario del Pd è fallito. Era proprio questo il progetto originario, ovvero rendere inoffensiva una famiglia politica, una cultura che tanto aveva rappresentato nella storia del ‘900. E la cura qual è? Ne facciamo un altro, ma più piccolo. Invece di Franceschini ci mettiamo Tabacci che almeno è simpatico. Guardate che se la raccontiamo a un cittadino di un altro stato ci prende per matti. Non è che gli altri lavorano per farci scomparire, non è il destino cinico è baro: stiamo facendo tutto da soli. Siamo noi che lavoriamo alla nostra scomparsa. Ora, io passo per essere realista. E dunque, prima di tutto bisogna pensare alla sopravvivenza. Va bene tutto. E quindi Pisapia, che uso come personificazione di una sinistra moderata, può essere parte di un progetto in due fasi: a) sopravviviamo alle elezioni; b) abbiamo cinque anni di tempo per riorganizzare la sinistra. Ma non può essere che per far ripartire la sinistra ci facciamo scegliere il capo da qualche gruppo editoriale italiano al quale non siamo mai stati particolarmente simpatici.

Dunque, che fare? A me convince molto lo schema indicato da D’Alema, non a caso indicato come il cattivo da abbattere: si parta da assemblee quartiere per quartiere, sui programmi, per ritrovarsi, per ricostituire una comunità politica che altri hanno diviso. Poi si facciano le primarie per scegliere i candidati alle Camere (che altrimenti saranno tutti nominati, con la legge elettorale che stanno discutendo in parlamento) e soprattutto per scegliere il leader di questa alleanza. Di sinistra, di centrosinistra… ha ragione chi sostiene di essere stanco di nominalismi. Io sarei anche per evitare di indicare un leader unico, sarei per dare la sensazione di una squadra ampia e rinnovata, ma dicono all’epoca della comunicazione sfrenata ci serve. Magari non lo lasciamo solo. Mettiamoci i contenuti, mettiamoci facce nuove. Di gente che viene dalla vita reale, non dai salotti. Il tempo dei polli di allevamento è finito.

Cerca

mese per mese

giugno 2017
L M M G V S D
« Mag   Lug »
 1234
567891011
12131415161718
19202122232425
2627282930