E domani si torna in piazza: per fare la sinistra.
Il pippone del venerdì/17
E domani si torna in piazza: per fare la sinistra. <br>Il pippone del venerdì/17
Mettetevi seduti che ve la dico brutale: secondo me ha ragione Renzi. I ballottaggi delle elezioni amministrative di domenica scorsa dimostrano una cosa semplice: la formula del centrosinistra che è in voga dal 2007, ovvero Pd più liste civiche e cespuglietti della sinistra, non funziona più. Le conclusioni del neosegretario del Partito democratico, insomma, sono esatte, anche se muove da un’analisi del voto completamente errata. E’ falso, infatti, che non ci sia bisogno in Italia di un’aggregazione che unisca le forze progressiste – mi piace chiamarle così perché centrosinistra mi sa tanto di politichese – e che rappresenti un’alternativa credibile al liberismo della destra e al sovranismo che tanto va di moda anche in spezzoni della sinistra. Tutt’altro. Non solo ce ne è bisogno, ma è essenziale. Quello che è finito, al contrario, è un modello di alleanza dove c’era un soggetto centrale, il Pd, che con la sua forza attrattiva faceva da traino agli alleati, deboli, subalterni, utili soltanto a rappresentare quella foglia di fico necessaria per arrivare a vincere i ballottaggi. E non funziona più per un semplice motivo: il Partito democratico, da elemento attrattivo è diventato una sorta di veleno che inquina i pozzi, anche quelli dove andiamo a bere noi. Basta guardare i miseri risultati delle liste di sinistra quando si alleano con i renziani. E anche quelli delle liste che fanno dell’antirenzismo il loro unico punto politico, paradossalmente, non paiono un granché. Vanno bene, al contrario le esperienze che partono dal basso, dalle realtà locali (ecco, io eviterei il termine liste civiche perché serve soltanto a generare confusione). E dove la sinistra si presente in maniera autonoma non solo raggiunge risultati considerevoli, anche oltre il 20 per cento, ma riesce a trascinare il Pd alla vittoria al secondo turno. Padova è un esempio, ma ci sono tanti realtà più piccole sparse per il Paese.
Di questo processo si sono accorti anche autorevoli esponenti del Pd che si affrettano a invocare un nuovo tipo di coalizione, con un forte connotato civico. Che, tradotto dal politichese, vuol dire più o meno due cose:
1) Renzi può restare segretario del Pd ma non può essere lui il nostro candidato premier, serve un leader meno consumato dalle sconfitte a ripetizione;
2) Bisogna mascherare un marchio che non tira più, quello democratico appunto, dietro una qualche aggregazione che si tinga di civico. E torna ancora questa parola che adesso sembra diventata magica.
Ancora una volta io non sono d’accordo. Servono due cose. Intanto serve una sinistra forte, che rinasca dal basso, unendo le diverse esperienze cresciute in questi anni, da quelle politiche, a quelle sociali, alle forze sindacali. Non una coalizione civica. Serve una forza politica, molto politica. Che riparta dalle analisi degli economisti della sinistra europea, di quelli che hanno archiviato la terza via blairiana per tornare a parlare il linguaggio della sinistra. E quindi una forza che dica chiaramente di essere contro i privilegi, per l’uguaglianza, per i diritti dei lavoratori, per una scuola pubblica e democratica, per un nuovo stato sociale costruito sulle comunità e non sul dirigismo statale e regionale, per la riconversione ecologica dell’economia. Poche cose dette in maniera netta. Questa forza deve essere costruita nelle strade e nelle piazze delle città. Non in convegni chiusi dove si ritrova sempre la compagnia di giro dei reduci di mille sconfitte. E deve parlare alle forze sociali organizzate, dalle associazioni ai sindacati. Deve parlare ai sindaci indipendenti, da Orlando a De Magistris a Coletta (per restare nel Lazio). E deve essere una forza plurale, che rompa la logica maggioritaria dell’uomo solo al comando per valorizzare una classe dirigente diffusa, per tornare a formare una classe dirigente fatta di persone indipendenti e non di portaborse.
E poi serve la capacità di allargare il campo, di dettare i temi dell’agenda politica e non subirli. Di affermare i nostri valori anche quando i sondaggi te lo sconsigliano. Guardate che sembra semplice, ma non è così: da Berlusconi in poi non abbiamo più scritto noi la il menu, ma lo abbiamo solo letto e subito. Quella che Gramsci chiamava l’egemonia, l’abbiamo subita. Altro che storie.
Io credo che il primo luglio, la manifestazione lanciata da Articolo Uno e da Pisapia, possa essere la giornata giusta per lanciare un progetto di questo tipo. Mi sembra che l’impostazione iniziale, troppo centrata sulla presunta esigenza di individuare un leader sia stata corretta. A quanto si capisce dai quotidiani, mi pare anche che l’asse politico dell’iniziativa sia stato riportato sull’esigenza di una forza politica che sia autonoma, alternativa e in concorrenza con il Pd.
Gli elettori hanno, insomma, ci hanno dato una mano. Hanno spazzato via le incertezze e le titubanze di questi mesi. Mai come in questa occasione si è resa evidente la frattura fra il Pd e quello che era il suo popolo. E’ evidente. Perché ai ballottaggi sono rimasti a casa, ci sono città dove l’affluenza alle urne supera a stento il 30 per cento. Il caso Genova, città medaglia d’oro della resistenza, città ribelle, è emblematico: neanche l’aver contro un candidato della Lega ha fatto uscire di casa gli elettori di sinistra. Riportarli alle urne non sarà il lavoro di un giorno. Ci vorrà il lavoro di una generazione non tanto per mettere qualche toppa, ma per varare una nuova nave. Parliamo di Genova, uso una metafora portuale.
E allora bisogna lavorare su due fronti: quello immediato, in cui serve un’alleanza credibile, larga, in grado di porre argine alla destra che torna forte. Un terzo polo, credibile, che possa rappresentare un’alternativa sia ai moderati di Renzi e Berlusconi che ai populisti di Grillo e Salvini. Una forte rappresentanza in Parlamento ci servirà se vogliamo davvero diventare un punto di riferimento politico per quel pezzo di società che in questi anni si è sentito orfano.
Al tempo stesso serve un lavoro di lungo periodo, con due obiettivi. Intanto definire quale sia l’identità della sinistra. Di una sinistra che parte dalle sue radici ma che ha i piedi ben piantati nel presente e lo sguardo al futuro. Serve una identità nella società liquida? Io direi che serve a maggior ragione. Serve un’ancoraggio forte per resistere ai marosi di un oceano in tempesta.
I programmi li sappiamo fare bene, magari ci vengono un po’ lunghetti, ma siamo bravissimi. Quello che manca è un tratto identitario, in cui riconoscersi. Una nuova utopia, verrebbe da dire. Con il crollo del muro, nell’89, non è venuta già solo l’idea comunista. E’ venuta a mancare la nostra capacità di suscitare passioni, la speranza per chi è più debole di farsi gigante con gli strumenti della politica. Senza un orizzonte non si resiste alle intemperie di una destra che, al contrario, una sua identità ce l’ha e sa adattarla alle condizioni che cambiano.
Secondo: bisogna trovare una forma partito che esca dalla tradizione novecentesca. Io su questo punto sono davvero convinto che la tradizionale piramide, dalla sezione di quartiere alla direzione nazionale non sia più sufficiente. Le sezioni territoriali erano già morte nei Democratici di sinistra, il Pd ha solo rappresentato l’evoluzione di una crisi irrisolvibile. Non erano più da tempo punti di riferimento locali. E adesso i circoli sono “personali”, basta vedere i risultati dell’ultimo congresso romano per averne la prova. Non più luoghi di confronto, di iniziativa politica, di partecipazione e formazione, ma solo aggregazioni dietro un boss locale, a sua volta referente di un boss regionale e così via. E’ questa involuzione, la vera grande trasformazione genetica della principale forza organizzata della sinistra, che ha permesso l’affermazione di avventurieri vari, di cui Renzi è solo l’espressione più alta ma di certo non l’unica. Un modello organizzativo dove si annida spesso il malaffare, dove la corruzione può divenire strumento di affermazione personale. Servono soldi, tanti, per sfamare i clienti.
Veltroni, di cui spesso non ho condiviso il percorso ma che resta una personalità di spicco, l’aveva capito. Quando propose il partito liquido, dove non contavano tanto gli iscritti ma gli elettori, aveva in mente una maniera per scavalcare questa organizzazione basata sul potere personale di piccoli cacicchi locali. Un tentativo fallito, perché alla fine, controllare gli elettori (quando la base si restringe) diventa anche meno faticoso e costoso. Un votante alle primarie costa due euro, un iscritto ne costa una quindicina.
E allora va messo a punto un modello di organizzazione politica che metta in rete, che tenga conto delle diverse identità, che non sia necessariamente individuale, che dia la possibilità di emergere alle personalità più forti, alle competenze, finanche agli eretici, categoria della quale si sente un gran bisogno. Una nuova classe dirigente ci serve. Molto. Sarà utile se nascerà dal conflitto, dalla lotta politica. Se avremo l’ennesima covata di polli da batteria avremo perso la nostra battaglia. Ci serve la partecipazione. Meglio un vaffanculo che un ossequiosa leccata. Rete, partecipativa e democratica. Io sarei anche per scegliere i contenuti più che le persone. Se si ragiona prima di politica, se si costruisce iniziativa, le persone, i dirigenti vengono naturali. La forma con cui ci si organizza, insomma, è sostanza politica. Non semplice sovrastruttura. E che nessuno pretenda che altri si sciolgano da un giorno all’altro, le fusioni hanno bisogno di tempi.
Sono noioso, ripeto le stesse cose a ogni occasione possibile. Speriamo che questa sia la volta buona per uscire dai buoni propositi e cominciare a lavorare sul campo.
Ci vediamo domani. In piazza.
Il pippone del venerdì /16.
Salvate il soldato D’Alema
D’Alema di’ qualcosa, D’Alema di’ una cosa di sinistra. Ve lo ricordate Aprile? Quella frase che poi è diventata un tormentone? Beh, che dire, Moretti sarebbe stato contento. Perché di cose di sinistra, ieri, D’Alema ne ha dette tante. Ci voleva un caldo pomeriggio di fine giugno una iniziativa semiclandestina organizzata da un’associazione cattolica, nel centro di Roma. Si parla di povertà e diseguaglianze sociali, con religiosi, studiosi, politici. Uno strano parterre. Niente giornalisti, niente assillo della quotidianità. E un D’Alema assoluto mattatore. Quindici, venti minuti. E ti racconta il mondo. Le diseguaglianze, la finanza come generatore di ricchezza fuori da ogni forma di controllo sociale. Il ritrarsi delle masse degli esclusi dal protagonismo sociale e politico. La povertà viene sezionata: fenomeno economico, ma anche sociale. Si sentono le vite di scarto di Bauman che aleggiano nella sala. Ci sono Stiglitz e gli economisti francesi quando D’Alema parla della necessità di una tax autority internazionale per sottoporre a un nuovo controllo sociale le ricchezze che ormai hanno una dimensione non più nazionale.
Ma c’è anche tanta sinistra e tanta innovazione nell’analisi finale del. Due cose da fare per combattere la diseguaglianza: recuperare la funzione degli Stati, una dimensione pubblica di intervento e al tempo stesso favorire un nuovo stato sociale, un nuovo sistema di protezione, che veda protagoniste le persone e le comunità locali.
“C’è una tema enorme di fronte a noi – racconta chiudendo la sua relazione – nei prossimi anni, l’automazione crescente porterà alla perdita di milioni di posti di lavoro. L’Europa non può permetterselo. Che fare?” La risposta è di quelle che non ti aspetti da chi, qualche anno fa, era un alfiere della terza via e di Tony Blair. “Serve un taglio drastico dell’orario di lavoro a parità di salario. Se diminuisce il tempo di lavoro necessario – come lo definiva Marx – o calano gli occupati o si tagliano le ore e quelle ore devono essere messe a disposizione della comunità”. Occhio che in questa frase c’è tutto un programma politico. C’è la piena occupazione, c’è il tema del tempo del non lavoro, c’è il tema di un nuovo umanesimo che deve permeare la sinistra. C’è la convergenza, questa volta sui fatti non nella fusione di gruppi dirigenti, della cultura cattolica e di quella marxiana. C’è la liberazione dallo sfruttamento della catena di montaggio per arrivare a una concezione del lavoro che diventa, almeno in parte, una sorta di servizio civile permanente.
Ora, facciamo un salto, io non sono mai stato dalemiano. A Roma era infestato da una pletora di cortigiani che hanno approfittato del prestigio e del potere che quel nome portava con sé per creare una corrente che si muoveva con grande agilità in un intreccio grigio di politica e affari. Tutto (o quasi) lecito, per carità, ma meglio tenersi ben lontani da quelli che all’epoca chiamavamo “Talebani” o “Dalebani” che dir si voglia. Quando il potere è finito i dalemiani doc sono diventati renziani al mille per cento. Tutti, nessuno escluso. Dai Minniti, Latorre, Velardi, Rondolino fino al ragazzo di bottega, quel Matteo Orfini passato con un triplo salto carpiato dall’oscura segreteria di una sezione dei Ds di Roma a fare il capo corrente prima e il presidente del primo (o secondo) partito italiano. Tutti Talebani doc. Tutti pronti a ridere alle battute del capo, tutti pronti a correre al minimo battito di ciglia, anzi al minimo arricciarsi del baffo.
Insomma D’Alema, diciamolo, non ha avuto un gran fiuto nel selezionare i suoi collaboratori. Gente passata dal nulla a grandi quote di potere che adesso manco lo saluta se lo incontra per strada. E di errori, in generale, ne ha fatti davvero tanti. Li elenca lui stesso, anche perché non ama che lo facciano gli altri. L’esperienza di governo, quella passione per il new labour di Blair. Io ci metto anche una dimensione politica troppo legata alla contingenza del momento e poco tesa alla prospettiva, all’analisi.
Per questo dico che oggi sta vivendo una sorta di seconda giovinezza. Nel 2012 decide (lo fa da solo, non viene rottamato da Renzi come ripetono i costruttori di leggende prezzolati) di non ricandidarsi in Parlamento. Si dedica allo studio, alla sua fondazione, agli esteri. Nella lotta politica quotidiana appare poco. Fa la sua parte di militante, come ama definirsi, ma lo fa con un distacco quasi snob. Sono quasi cinque anni. Un’eternità. Poi ricompare impetuoso: il No al referendum del 4 dicembre, un ruolo importante nella scissione del Pd. Dice cose di sinistra, torna a essere “il Migliore”, l’erede ultimo di quella tradizione togliattiana che ha saputo essere egemone nella cultura politica italiana dal dopoguerra agli anni ‘90.
E subito riparte la caccia al D’Alema. C’è un accanimento decennale nei suoi confronti. Neanche il suo distacco dalla quotidianità lo ha cancellato. Erano solo in “sonno”. Pronti a ripartire. E gli ritirano fuori i presunti complotti contro Prodi, la Bicamerale, il patto della crostata, le bombe “illegittime” su Belgrado. Poi ripartiranno i dossier: dalle barche, al golfino, alle scarpe, al vino. La stagione di caccia è riaperta. Perché il Baffo è tornato. Non importa che non ricopra cariche. Non importa che non sia in Parlamento. Non importa che emani una naturale antipatia per quel suo essere volutamente scostante. Perfino quando dice “sono diventato buono”, ha una voce tagliente. E’ diventato nuovamente il nemico da abbattere numero uno. Ecco allora che parte la vendetta politica per cui in mezza Europa si lavora per toglierli la carica di presidente delle fondazioni del Pse. Ecco che si scatenano i giornalisti da cortile in fantastici retroscena in cui si raccontano – fonti certe ci mancherebbe altro – di dissidi continui con Bersani che starebbe manovrando per non riportarlo in Parlamento.
Ci si mettono anche quelli della sinistra cosiddetta radicale che quando sentono parlare di D’Alema usano perfino le parole di Renzi per attaccarlo. Tutti d’accordo.
Ora, io che dalemiano non lo sono mai stato, questo grido d’allarme posso lanciarlo senza tema di essere tacciato di cortigianeria. La mia stima è testimoniata dalla foto che apre questo pippone. Mi feci tutta la grande manifestazione del Circo Massimo con quel cartello al collo: “Liberate Baffino dai Talebani”. Un successone, devo dire. Ma una foto che testimonia anche la mia distanza. Eppure, ragazzi, ora che è libero, ci serve come il pane. Perché, sia pur senza cariche, è l’unico leader rimasto alla sinistra italiana. Abbiamo tanti dirigenti capaci, da Bersani, a Rossi, a Speranza, a Fratoianni, a Civati, alle new entry Falcone e Montanari. Abbiamo giovani che scalpitano e ai quali bisogna lasciare spazio. Ma di leader a tutto campo non ne abbiamo. Gli anni, le sconfitte, gli imporranno anche un ruolo di seconda fila. Di padre nobile, per così dire. Ma non ne abbiamo altri con la sua capacità di analisi, coraggiosa e ritrovata. Ci serve la sua passione, la sua volontà di unire, la sua capacità di immaginare una nuova sinistra, alternativa al Pd, perno di un altrettanto nuovo centrosinistra.
In questi mesi la navigazione non è stata facile, per usare una metaforica marinara che ci sta tutta. La barchetta sulla quale siamo saliti traballa parecchio. E i prossimi mesi saranno ancora più complicati. Mi chiedo però cosa sarebbe successo se non ci fosse stata l’iniziativa costante del soldato D’Alema. Quel pungolo, quell’assillo unitario che lo ha riportato in campo. D’Alema si deve o meno ricandidare? Si facciano le primarie che ha chiesto lui stessi a gran voce (primarie della sinistra, non del Pd, sia chiaro). E’ bene che i politici tornino a misurarsi con la ricerca del consenso. Nei mercati e nelle piazze. Che sia un oscuro comitato di garanti a decidere le nostre candidature mi sembra un’idea ottocentesca, lo dico sinceramente. Bene liste costruite nei territori, bene che siano liste giovani. Ma senza polli da allevamento.
Il soldato D’Alema ci serve, cari compagni. Non ha bisogno di essere salvato, si potrebbe dire, ci pensa bene da solo. Ecco, lo so, ma io credo, che ricordarci tutti l’importanza della solidarietà fra di noi sia di per sé un passo in avanti nella ricostruzione non tanto della sinistra, ma di quella comunità politica che negli anni abbiamo perso.
Per cui, senza esitazioni: guai a chi tocca il soldato D’Alema.
Il pippone del venerdì/12.
Berlusconi-Renzi, un patto che si può sconfiggere
Tutto fatto, dicono i giornali. C’è l’accordo fra Renzi e Berlusconi sulla reintroduzione di un sistema elettorale quasi proporzionale, simile a quanto pare al modello tedesco, ci sarà sicuramente qualche correttivo per non creare guerre in Parlamento, gli Alfano, i Verdini, dovranno pur essere rassicurati. Resta incerta solo la data del voto. Insieme alle elezioni in Germania, come vorrebbe il neo segretario del Pd, più avanti dice il leader della destra. Particolari, briciole, che non andranno a rompere un abbraccio che regge ormai da anni, al di là delle scaramucce.
Andiamo con ordine. Intanto: sarà proprio proporzionale? Evidentemente non del tutto, si parla di uno sbarramento al 5 per cento, molto alto per un sistema frammentato come quello italiano. Faccio un paragone con la prima repubblica. Elezioni del 1979: avremmo avuto solo quattro partiti in parlamento: Dc, Pci, Psi, Msi, che rappresentavano all’epoca circa l’83 per cento degli elettori. In più è facile immaginare una sorta di effetto taglia partiti: ci sarà il richiamo a non disperdere il voto, che, di fatto, tenderà a concentrare il voto degli elettori su quelle forze politiche che sono sicure del 5 per cento. In politica conta molto l’effetto psicologico, se vieni percepito come perdente hai già perso.
Quindi ci sarà intanto un effetto aggregativo, si formeranno liste composte da più partiti. Funzionano? Secondo me no, se l’elettore ha la sensazione (ancora una volta entra in campo la psicologia) che siano soltanto aggregazioni elettorali, tenute insieme dalla mera voglia di mantenere qualche seggio in Parlamento. Ma di questo parleremo dopo, torniamo al cuore del ragionamento.
Dunque avremo un sistema con due forze fra il 25 e il 30 per cento, Pd e M5s, altre due intorno al 10 forse 15 per cento, Forza Italia e Lega. Fanno un totale di voti fra il 70 e il 90 per cento dell’elettorato. Probabilmente attorno ai due poli moderati, Pd e Forza Italia, si aggregheranno parte degli attuali cespugli parlamentari, da Alfano a Verdini, alle sigle varie che si compongono e si scompongono dalla mattina alla sera. Chiederanno qualche posto in lista per garantire la propria sopravvivenza. In qualche caso anche la libertà personale dei condannati vari ai quali non si potrà far mancare la protezione del seggio.
Per comodità, ma non credo che il dato finale sarà molto diverso, assumiamo come vero il dato centrale della forchetta: dunque quattro forze politiche rappresenteranno circa l’80 per cento dell’elettorato. Come negli anni ’70 del secolo scorso, viene da dire. E una di loro, il M5s, viene percepita come antisistema dagli altri attori del sistema politico. Un po’ come avveniva con il Pci, in passato, anche se il paragone è ovviamente è forzato. Ma il ragionamento è consequenziale e la conclusione, per chi guarda alla realtà senza pregiudizi è inevitabile: il prossimo governo dovrà necessariamente essere caratterizzato da un patto di ferro fra Berlusconi e Renzi, più qualche acquisto post elettorale per arrivare ad avere una, sia pur risicata, maggioranza parlamentare.
Io credo sia questa una delle ragioni per cui Renzi vuole andare a votare insieme alla Germania, dove, con tutta probabilità avremo un risultato simile, come avviene da due legislature a questa parte nessuna delle due forze principali, i democristiani e i socialisti, avrà i voti necessari a governare da sola. Votare qualche mese dopo significherebbe ammettere esplicitamente di fronte all’elettorato italiano questa eventualità e questo, sempre per lo stesso effetto psicologico, potrebbe indebolire Pd e Forza Italia. Non dimentichiamo che si tratta di partiti che, nel recente passato, hanno convinto una fetta consistente del proprio elettorato proprio in ragione della reciproca contrapposizione. Meglio non rischiare dunque, non instillare ragioni di incertezza in un elettorato di per sé parecchio disorientato.
E allora, riassumiamo. Si approva questo benedetto modello simil tedesco, poi si va al voto. Secondo me alla fine l’avrà vinta Berlusconi. Sia il presidente della Repubblica che Confindustria hanno più volte fatto capire che sarebbe bene fare la legge di stabilità prima di andare alle urne. Altra cosa che Renzi vorrebbe evitare. Ma anche alzare l’Iva al 25 per cento, cosa che avverrebbe in virtù di quel marchingegno infernale di adeguamento automatico che scatta se non vengono rispettati determinati parametri economici, potrebbe non essere esattamente salutare per aumentare il proprio consenso elettorale. Comunque sia, si andrà alle urne. Il M5s sarà il primo partito – l’appello renziano al voto utile servirà a poco – Mattarella, dopo le consultazioni, affiderà a un grillino un incarico esplorativo, come si diceva un tempo. Durerà poco, non hanno la maggioranza e non sarà possibile un governo grillino, poi si arriverà alla ciccia. E sarà, con i numeri che ho provato a descrivere, necessariamente un governo di larghe intese. Ci prenderanno in giro con i soliti ragionamenti che ormai conosciamo a menadito: la responsabilità, i mercati, il rischio di speculazioni sui titoli di stato, la necessità urgente di riforme. Ci sarà la chiamata a tutti le persone “che hanno a cuore l’Italia”. Salviamo il paese dal rischio instabilità, serve un governo autorevole che ci rappresenti in Europa. Si sa, storia già vista.
E passeranno cinque anni così. Poi Berlusconi si ritirerà per limiti di età, si sarà garantito nel frattempo le sue aziende, uscirà di scena serenamente viene da dire. Il suo partito si dividerà e il Pd ingrosserà le proprie file con buona parte dei transfughi di quel campo. Avremo finalmente la nuova Democrazia cristiana di cui tanto sentiamo la mancanza. In questo tempo, siete avvertiti, ci saranno almeno una decina di ultimatum di Gianni Cuperlo, che poi, però troverà inevitabilmente un accordo con la sua nemesi Renzi.
Lo scenario è grigio, ne converrete con me. Resta però, quel campo, quel 20, forse 30 per cento di elettorato che non si riconosce negli attuali quattro partiti maggiori. Più una parte dell’elettorato grillino che vota 5 stelle per disperazione. E vista la situazione non bisogna neanche stupirsi troppo. Una cosa è certa, una sinistra frantumata fra quattro, cinque sigle, non ha alcuna possibilità di incidere su questo quadro. È destinata fatalmente ad un ruolo di testimonianza fuori dal parlamento o ad essere attratta dal partitone renziano del futuro coprendo il fianco sinistro dello schieramento.
E poi, diciamoci la verità: se si guarda al peso politico dei quattro, cinque partiti comunisti esistenti, di Sinistra italiana, Possibile, Articolo Uno, si capisce bene come l’esistenza di buona parte di queste forze ha come unico scopo quello di creare qualche carica inutile. Si ha come la sensazione che qualcuno fondi un partito solo per potersi fregiare del titolo di segretario nazionale. C’è un mondo fuori dalle nostre casette scalcinate. C’è un popolo che ci chiede di essere rappresentato. L’ho già detto e scritto e non mi stancherò di ripeterlo: bisogna superare i rispettivi egoismi, basta con i tatticismi, basta con le incertezze di qualche presunto leader, il cui unico consenso deriva dall’appoggio di qualche potente gruppo editoriale. E basta, mi dispiace dirlo ma tocca farsene una ragione, con la favoletta dei compagni che sono rimasti nel Pd e con cui bisogna comunque costruire un rapporto. Ora, se ancora non hanno capito cosa sta succedendo, vuol dire che sono rimasti nel Pd perché gli sta bene. Porte aperte quando decideranno cosa fare da grandi, ma per il momento stanno lì, sono avversari politici.
Ha ragione D’Alema. Posso dire con un certo compiacimento narcistico di averlo proposto due anni fa, ma ovviamente se lo dice lui ha un altro peso: basta con gli accordicchi dei gruppi dirigenti, lanciamo assemblee in ogni città, chiamiamola alleanza per il cambiamento, chiamiamola Giovanna, i nomi contano poco, servono i contenuti. Con Fondamenta, la settimana scorsa, Articolo Uno qualche paletto ha cominciato a metterlo. Ci sono elaborazioni interessanti di Sinistra Italiana, di Possibile. Ci sono le proposte di legge sui diritti dei lavoratori della Cgil. Ripartiamo da qui.
Insomma, andiamo oltre le nostre siglette. Chiamiamo i sindacati e diciamogli: ma a voi vi sta bene questa roba qui? O avete bisogno di costruire con noi un fronte progressista che possa difendere le istanze dei lavoratori? Chiamiamo l’associazionismo diffuso, il volontariato, chiamiamo quelli che sono tornati a casa negli anni scorsi. Chiamiamo quegli studenti che sono scesi in campo per difendere la costituzione. Chiamiamo quel pezzo di popolo che è convinto che la questione morale, il rispetto della legalità siano valori fondanti per uno Stato moderno. Casa per casa, quartiere per quartiere. Prenderemo il tre per cento come dicono i soloni della politica? Non lo so. Il nostro non è un lavoro che possa concludersi in qualche mese, anche in questo sto diventando ripetitivo, sarà l’età. Stiamo lavorando per non farci trovare impreparati dopo le elezioni. Per costruire un campo autonomo, non una stampelletta parlamentare destinata a estinguersi. Bisogna avere chiaro questo. E aprire anche gli occhi. Assemblee programmatiche in ogni quartiere, troviamo i candidati alle elezioni con le primarie, facciamo scegliere a quelli che non vogliono far carriera, non in qualche stanza chiusa, mettiamoci sempre uomini e donne pronti a una lunga traversata. Facciamo scendere in campo una nuova classe dirigente. Abbiamo sperimentato quelli fedeli che dicono sempre così, proviamo a mettere in campo persone libere. Così, non con aggregazioni mordi e fuggi, possiamo ricostruire la sinistra, il centrosinistra, chiamatelo come vi pare, va bene anche Giovanna. Torniamo a essere quelli che “noi veniamo da lontano e andiamo lontano”. Tre per cento? Echissenefrega.
Il pippone del venerdì/11.
Libera informazione per un libero Stato
Agghiacciante. Non trovo altre parole per definire la discussione che si è sviluppata nel mondo politico dopo la pubblicazione sul Fatto quotidiano di una telefonata fra Renzi figlio e Renzi babbo. Agghiacciante il tono della discussione. Agghiacciante il contenuto. Agghiaccianti le parole usate. Neanche troppo nuove, a dir la verità.
Andiamo con ordine e mettetevi comodi, che facciamo un riassuntino. Accade che Marco Lillo, giornalista ex Espresso, una firma del giornalismo italiano, entra in possesso di una telefonata fra i due Renzi, con argomento l’inchiesta Consip, la inserisce in un suo libro e dà alcune anticipazioni sul giornale. Comunque la si voglia vedere ha un contenuto esplosivo: Renzi che dice al padre “mi stai mentendo”, lo invita a nascondere la presenza della madre a un incontro, poi ancora sostiene che il padre avrebbe mentito a un certo Luca e lo esorta a dire tutta la verità ai magistrati. Un notizione insomma. La mattina però sparisce dalle rassegne stampa dei principali canali televisivi. Ignorata per dare spazio a delitti di provincia e beghe assortite della politica. Sparisce dai tg del mattino. Sui siti se ne trovano poche tracce, mentre diventa in pochi istanti regina dei social network, rimbalza da tutte le parti, fin quando alle nove circa esce la replica di Renzi figlio, sempre su Facebook, il quale rivolta la telefonata a suo favore. Lo vedete? – attacca il neo segretario del Pd – Io non ho nulla da nascondere, ho anche trattato male mio padre per costringerlo a dire la verità, poi in realtà in seguito ho scoperto che aveva ragione lui.
A quel punto tutti i giornali si accorgono della notizia. Non di quella pubblicata dal Fatto, sia chiaro, ma della replica renziana. Spariscono tutti gli interrogativi che quella telefonata dovrebbe porre. Perché mamma Renzi non dovrebbe essere nominata? Chi è questo Luca di cui si parla? Ci sono stati questi incontri fra babbo Renzi e l’imprenditore Romeo, siano cene o aperitivi, o no? Niente di tutto questo: la stampa italiana quasi all’unisono alza gli scudi. Fino ad arrivare, il giorno dopo, a completare il quadretto familiare con un grande scoop del principale quotidiano del nostro paese: parla nonna Renzi. E ci mancava.
In parallelo parte l’attacco concentrico. Il segnale della carica lo dà il neo presidente del Pd Matteo Orfini: per lui l’espressione “gogna mediatica” rispetto al trattamento riservato all’ex presidente del Consiglio non basta. Siamo all’eversione. Si vuole abbattere il partito a colpi di intercettazioni. Il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, tuona dall’alto del suo scranno: tutti ipocriti, sono anni che vi dico che serve una legge per evitare la pubblicazione delle intercettazioni. Serve un bavaglio e anche bello stretto. Segue scazzo violentissimo fra i due, ma questa è un’altra storia.
Sui social il tutto diventa più pecoreccio. Ci sono i professori di diritto da bar che ti spiegano come l’intercettazione non abbia alcuna rilevanza penale e quindi non può finire su un giornale. Ci sono i fascisti di ritorno che si chiedono se sia possibile che un giornalista abbia – udite, udite – la possibilità di scegliere quali informazioni divulgare. Ci sono quelli che intonano una sorte di ode a Renzi, talmente pulito da prendere a schiaffoni telefonici il babbo discolo.
A chiudere il cerchio arriva l’intervista a Andrea Orlando, che smessi i panni di quello di sinistra nel Pd è tornato a essere il renziano ministro della Giustizia. Toni da fine del mondo. Approvare subito la legge in discussione: quella conversazione non doveva uscire, bisogna impedire la diffusione di intercettazioni di questo tipo, perché impedirne la pubblicazione, nell’era di internet sarebbe troppo complicato. Insomma, siccome malgrado tutti i nostri tentativi, qualche giornalista in questo paese, c’è ancora, tocca spezzargli le gambette. Rapidamente.
C’è qualcosa di strano in tutta questa canea alzata ad arte da bravi strateghi della comunicazione. Il tutto ha un sapore antico, una sorta di déjà vu. Basta tornare indietro negli anni, infatti, e troverete che gli stessi argomenti, gli stessi toni, furono usati da Berlusconi. Stesse supposte manovre eversive, stessa finta sindrome da accerchiamento, stessa situazione per cui si ha uno strapotere mediatico, ma si cercano di eliminare le poche voci che escono dal coro. Allora erano le frequentazioni notturne, ora sono i guai in famiglia. Stesso colpevole: l’informazione.
Fine del riassuntino. Ma prima di provare a fare qualche rapida valutazione, mi permetto di copiare e incollare un breve brano della carta dei doveri del giornalista, che mi servono per provare a spiegare il mio punto di vista. “Il giornalista ricerca e diffonde le notizie di pubblico interesse nonostante gli ostacoli che possono essere frapposti al suo lavoro e compie ogni sforzo per garantire al cittadino la conoscenza ed il controllo degli atti pubblici. La responsabilità del giornalista verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra. II giornalista non può mai subordinarla ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del governo o di altri organismi dello Stato”.
Insomma, non solo il giornalista ha il diritto di pubblicare notizie di pubblico interesse, ma ha il dovere deontologico di farlo. Per calare il principio nella vicenda di questi giorni: non ha sbagliato Marco Lillo a pubblicare la notizia, hanno sbagliato tutti quelli che l’hanno ignorata e poi hanno dato conto solo della replica di Renzi. Per quale motivo? Perché non hanno ottemperato a un dovere deontologico, la responsabilità di informare i cittadini. Con quelli dovete prendervela. E badate bene, che rendere ancor più segrete le intercettazioni, o gli atti giudiziari in genere, ci rende un paese più povero, più debole.
La politica, se fosse ancora un potere dello Stato e non un guazzabuglio di consorterie contrapposte, avrebbe il compito di rendere più facile il lavoro dei mass media, che se fanno il proprio dovere fino in fondo quando sono elemento di controllo nei confronti dei poteri dello stato. Il famoso quarto potere. E il giornalista ha il dovere deontologico perfino di violarle quelle leggi che cercano di mettergli il bavaglio. Ora, si potrebbe dire, ma era proprio necessario conoscere il cazziatone di Renzi al babbo? Assolutamente sì. Non avrà rilevanza penale, anche se, come dire… un presidente del Consiglio che invita un familiare a nascondere alcuni particolari a un magistrato… non è che mi suoni proprio bene. Ma quella intercettazione è assolutamente rilevante dal punto di vista politico. E’ una notizia che il cittadino elettore deve sapere per potersi formare liberamente un suo giudizio sulla vicenda e sui personaggi coinvolti. La formazione di un libero giudizio è necessariamente condizionata dalle informazioni sulle quali ti puoi basare.
E il fatto che, senza ormai distinzione di schieramento, quando si è in difficoltà, un personaggio pubblico come il segretario di un partito si appelli alla privacy non è un bel segnale per lo stato della nostra democrazia.
Proprio nelle stesse ore, per fare un esempio di cosa accade in altri paesi, negli Stati uniti i giornali on line pubblicano l’audio di una telefonata di un parlamentare repubblicano che accusa il suo presidente di essere pagato da Putin. Non mi pare di aver letto reazioni come quelle nostrane. Nessuno si chiede se sia legale o meno pubblicare quella telefonata, perché nella loro cultura hanno il rispetto del ruolo dell’informazione, come elemento essenziale della democrazia.
Si dice, inoltre, beh ma i giornalisti devono pur avere una responsabilità se pubblicano notizie false. Ci mancherebbe che non fosse così. In Italia vengono condannati pure se pubblicano notizie vere. Gli strumenti li abbiamo tutti, anche troppi. Qualche dato per spiegarmi meglio: oltre il 70 per cento dei provvedimenti per diffamazione si concludono con l’assoluzione del giornalista. Come dire: è talmente facile querelare un giornalista che è diventato uno strumento di pressione. Io ti querelo, ti costringo ad affrontare spese legali (in totale oltre 50 milioni l’anno) poi verrai anche assolto, ma intanto ti devi sottoporre al processo. E alla fine, come quasi sempre accade, non viene neanche condannato il querelante al pagamento delle spese legali. E’ evidente come, soprattutto per i giornali più piccoli, tutto questo può diventare un peso troppo grande da sopportare e quindi ci si autocensura per evitare guai. Poi, ci mancherebbe, ci sono anche i giornalisti che diffamano: nel 2015 ci sono stati 155 colleghi condannati a pene detentive, solo per dare un dato, su un totale di 475 sentenze di condanna. Tempo medio del procedimento: oltre tre anni.
Ecco, a me piacerebbe che il ministro della Giustizia, il campione della sinistra Pd, facesse sentire la sua autorevole voce su questo problema. Si potrebbe ad esempio escludere la querela quando il giornale rettifica, si potrebbero rendere più rischiose le querele temerarie rendendo obbligatorio il pagamento delle spese processuali in caso di assoluzione. Non sono un tecnico, ma le soluzioni si possono trovare.
Io mi aspetto, insomma, che la sinistra si batta per la libertà di informazione, anche quando finisce sotto torchio, non che si batta per mettere ulteriori bavagli. Poi un giornale può piacere o meno. A me personalmente il Fatto annoia e Travaglio mi sta antipatico. Ma se non ci fosse saremmo tutti poveri, perché le voci servono tutte, anche quelle che ti strillano nell’orecchio.
E guardate, la finisco qui, che i giornalisti hanno un grande giudice naturale e implacabile: i lettori. Se fanno bene il proprio lavoro, i giornali escono e acquistano un pubblico più grande. Quando diventano semplici megafoni del potente o del segretario di turno, meri volantini di propaganda, allora non li legge più nessuno. E’ il mercato, non basta avere una testata prestigiosa, devi onorare tutti i giorni il tuo compito. Informare.
Il #pippone del venerdì/8.
C’era una volta l’industria italiana
Cominciammo con l’Iri. Che li facciamo a fare i panettoni? Poi ci fu Alfa Romeo. Bisogna creare un grande polo italiano dell’auto, regaliamola a Fiat. Poi ci fu Telecom. E che le comunicazioni sono strategiche? Poi fu la volta di Alitalia. Con lo Stato perde, ci costa troppo, diamola ai privati e per ripagarli del favore gli regaliamo pure le autostrade va.
Avete appena letto: breve storia triste dell’industria italiana. In mezzo ci sono acciaierie, petrolchimico, farmaceutica, informatica. Tutto sparito. Della sesta o settima potenza economica mondiale cosa resta? Il turismo mordi e fuggi e poco altro. Perfino Fiat, oggi gruppo Fca, appena ha potuto ha portato la sede fiscale in un paradiso fiscale (europeo). Ma come, verrebbe da chiedersi, dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro? Abbiamo fatto strade, eliminato i tram, concesso bonus a chi rottama le auto, per anni sono state Fiat tutte le auto della pubblica amministrazione e poi ti arriva un Marchionne e se ne va, tra gli applausi dei nostri governanti.
Però, ragazzi, stiamo tranquilli che va tutto bene. C’è Matteo che pensa a tutto. E che ti fa? Il Jobs Act: detassazione per le imprese che assumono a tempo indeterminato, tanto poi vi do libertà di licenziare e tolto l’articolo 18. E non basta. Ragazzi, arriva industria 4.0. Una scoppola da 13 miliardi di contributi in varie forme per gli imprenditori che investono in robotica. E così i contributi previdenziali non li paghi proprio più. Quando il robot è vecchio mica lo devi liquidare, dargli il welfare e la pensione al massimo serve una discarica. Quindi tu elimini lavoratori con il finanziamento statale. Una genialata.
E poi torna ancora Alitalia, riassumiamo per chiarezza. Partiamo da un dato: nel 2001 un’azione di Alitalia (all’epoca lo Stato aveva più del 60 per cento) valeva circa 10 euro. Nel 2006 circa 1.57. Che si fa? Vendiamo, mi pare ovvio. Ora, io non sono un economista, ma c’è qualcosa di strano: io venderei a dieci semmai, non a 1.57. Comunque sia, un paio di “bandi”, interessamenti vari. Alla fine Alitalia sceglie: il nostro partner sarà Air France-Klm. Partono le trattative, non si chiude l’accordo con le parti sociali sulla ristrutturazione che il socio straniero pretende prima di firmare l’intesa. E poi arriva a gamba tesa il Berlusconi che dice: dopo le elezioni, che vinco io, di vendere agli stranieri Alitalia non se ne parla proprio. Air France capita la malaparata si tira indietro.
Ma che bravo il Berlusca, tra l’altro dentro Air France c’è una bella percentuale pubblica, dello stato francese, e che vendiamo la nostra compagnia di bandiera a uno stato estero? Non sia mai. Morale della favola Berlusconi la regala a un gruppetto di amici suoi che convoca ad Arcore e convince a suon di regali (autostrade comprese). In cambio si prendono Alitalia senza debiti (quelli li paga lo Stato), ricordate la bad company e la good company? Ecco, il senso era quello: a voi i debiti a noi il capitale. Questi benemeriti del popolo li chiameranno “i capitani coraggiosi”. Alitalia continua a perdere, perché sono pippe, e i capitani prendono il largo. Il governo Renzi si inventa allora la soluzione araba. Arriva Etihad. E cavolo questi sono arabi, gente che gli affari li sa fare. E poi negli ultimi anni il volume di affari legato al trasporto aereo continua a crescere, vuoi che non si aggancino a questa tendenza? E infatti, annuncia Renzi con il solito tuitte: “Presentati i nuovi aerei, sembrava impossibile due anni fa. Ma Alitalia torna in pista, pronta su nuove rotte. Vola Alitalia, viva l’Italia”. Secondo me porta male. Ma questa è un’altra storia, fatevela raccontare dalla nazionale femminile di pallavolo.
Morale della favola, l’unica cosa nuova che fanno gli arabi sono le divise, pare peraltro di tessuto che raschia la pelle. Nuove rotte, piano per il lungo raggio, integrazione con Etihad? Nulla. La compagnia è di nuovo sull’orlo del fallimento. Si tratta, i sindacati firmano l’intesa, è storia recente. Altri tagli al personale, altre diminuzioni di stipendio, con la prospettiva di mettere in vendita nuovamente la società. Questa volta i lavoratori non ci stanno e votano no all’accordo. Finisce quasi 70 a 30, non si tratta di un esito sul filo di lana, malgrado l’intervento a gamba tesa del presidente del Consiglio, Gentiloni: “Se votate no, l’azienda fallisce”, dice. Una specie di invito subliminale a votare no due volte.
E adesso che si fa? Prestito ponte per avviare le trattative e vendere a qualcuno. Si dice ai tedeschi. Perché i soldi per salvare Mps (10 miliardi) ci sono. I soldi per regalare i robot agli industriali ci sono (13 miliardi). Alitalia costa troppo, c’abbiamo già rimesso 7.4 miliardi. E poi è colpa dei lavoratori che si sono suicidati. Io tengo a pensare che si siano semplicemente rotti le scatole di essere presi in giro. Ma forse vivo su un altro pianeta. E poi, ma a nessuno viene il dubbio che la colpa sia di manager pagati milioni e liquidati a peso d’oro? Possibile, lo ripeto, che il traffico aereo continui ad aumentare e i passeggeri di Alitalia a diminuire?
Siccome non credo che il personale Alitalia, nel suo complesso, emani odori insopportabili, non è che qualcuno ha sbagliato la strategia aziendale? Sempre che ve ne sia mai stata una. L’attuale amministratore di Alitalia, tal Crames Ball guadagna nel complesso 2.2 milioni di euro l’anno, solo per restare all’attualità. Ma velo ricordate, per fare un altro esempio, Giancarlo Cimoli? Si prese 3 milioni come buonuscita. E mi fermo per carità di patria. Solo un altro: Montezemolo. Basta il nome.
Come sempre tendo a essere curioso, apro parentesi. Abbiamo salvato Mps o abbiamo salvato i suoi debitori, dei quali per questione di privacy non si può avere la lista? Io propendo per la seconda. E chi vi racconta che sono stati salvati migliaia di correntisti vi dice una balla, quelli sono garantiti comunque.
Su Alitalia, invece, il governo ha una brillante strategia: 300 milioni per garantire la continuità aziendale, due spiccioli, e nel frattempo si vende. In pratica, visto che gli aerei sono per la maggior parte in affitto che si vende? Gli slot, detta in parole povere il diritto di partire da un aeroporto ad una determinata ora, le rotte. Poco altro. I dipendenti? I tedeschi ne vogliono solo 3mila su 12mila. Insomma si smantella quel poco che resta di Alitalia. Come sempre.
Cosa resta di Alitalia l’abbiamo capito e dell’industria in genere? Poco. Non produciamo praticamente più nulla. I capitalisti coraggiosi hanno venduto a multinazionali o hanno de localizzato le proprie imprese. La nostra rete commerciale è in mano a multinazionali. Che ci resta? Turismo e pastorizia? E come si regge un paese solo sul turismo? Qualcuno si ricorda che fine hanno fare alla Grecia? Del resto siamo un paese dove un paio di anni fa il presidente del Consiglio spiegò che elaborare un piano di sviluppo industriale per l’Italia non era compito del Governo, questa è la logica conseguenza.
Io resto convinto che alcuni settori siano strategici per un paese che vuole essere competitivo. Quelli bravi li chiamano asset. Letteralmente vuol dire “beni”. Trasporti e reti di comunicazione, l’industria pesante. E in questi settori ci deve essere la mano pubblica. Lo fanno i francesi a piene mani, con qualunque governo e nessuno pensa che siano dei pericolosi bolscevichi. In Italia no, siamo ancora vittime della balla anni ‘90° per cui privato è bello e il pubblico non funziona.
Ecco, io la vedo così: cambiamo rotta in fretta, magari proprio a partire da Alitalia. Non sta scritto da nessuna parte e soprattutto in nessuna regola europea (e chi ve lo racconta dice balle) che lo Stato non possa essere azionista di società private o proprietario di industrie. L’economia da noi riparte soltanto se riprendono gli investimenti. Così si creano i posti di lavoro, non eliminando i diritti. Le imprese assumono se hanno bisogno di produrre. E lo Stato può dare il primo segnale, ricominciando a investire nel futuro del Paese. Lo diceva Keynes, un liberale, non un pericoloso comunista.
Questa furia antipubblica ci ha portato a svendere il nostro paese. Abbiamo privatizzato anche l’acqua, ci manca solo l’aria, ma state sereni…
Lo #spiegone del lunedì/5.
Appunti sui partiti politici
La scorsa settimana leggevo un articolo di Curzio Maltese nel quale il giornalista ed eurodeputato fa un’analisi impietosa sul nostro sistema democratico. Al di là dei ragionamenti più contingenti, la tesi di Maltese è netta: con la probabile affermazione di Matteo Renzi alle primarie del 30 aprile tramonta in Italia l’era dei partiti politici organizzati. Ormai sono tutte liste personali.
Andiamo con ordine. L’esistenza di partiti politici è prevista dalla Costituzione stessa. In particolar modo dall’articolo 49: ”Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Parole, come al solito, precise: i partiti vengono riconosciuti come l’anello di congiunzione fra cittadini e istituzioni, e determinano la politica nazionale, con metodo democratico. Da queste parole più volte si è rimarcata la necessità di normare il funzionamento dei partiti in maniera da favorire la partecipazione democratica, poi in realtà ci si è fermati alle proposte di legge. In questa legislatura si è arrivati a un testo unificato, approvato dalla Camera e in discussione al Senato.
Comunque sia, i costituenti davano grande importanza all’esistenza dei partiti. Che poi nel corso del dopoguerra hanno assunto in Italia il carattere di organizzazioni di massa, a cui aderivano milioni di cittadini. Ora, sostiene Maltese, l’ultimo dei grandi partiti si avvia a diventare lista personale, come Forza Italia, come il M5s, la Lega. Per non parlare delle sigle minori, di cui, appunto, spesso si ricorda il leader ma non il nome.
Non so, sinceramente, se abbia ragione Maltese. Di certo, fin dalla scelta delle primarie come meccanismo per la selezione del segretario, il Pd si è presentato come un partito dalla forma un po’ atipica. Tanto che si è parlato più volte di partito liquido, destrutturato, in contrapposizione al partito pesante del ‘900. Una forma liquida che ha sicuramente favorito quell’identificazione con li leader che denuncia Maltese. Resta da vedere cosa capiterebbe in caso di una nuova sconfitta elettorale: una lista personale tenderebbe a sfaldarsi e a scomparire, un partito vivrebbe un momento di crisi per poi rigenerarsi con nuovi dirigenti.
Ma perché, assumendo per valida la tesi del giornalista, sarebbe un fatto così grave? Cosa cambia? Noi siamo in una democrazia rappresentativa. In pratica eleggiamo i nostri rappresentanti nelle istituzioni a cui deleghiamo, detta banalmente, la sovranità che (articolo 1) appartiene al popolo. Il nostro potere si limita, nel caso in cui non siamo soddisfatti del loro operato, a sostituirli alle elezioni successive.
I partiti, in questo contesto, svolgono una duplice funzione:
1) Danno la possibilità ai cittadini di partecipare alla vita democratica fra un’elezione e l’altra;
2) Selezionano la classe politica che poi sarà sottoposta al giudizio degli elettori.
Sono tutte e due funzioni essenziali se non vogliamo vivere in una sorta di democrazia autoritaria, dove pochi, senza alcun controllo, decidono tutto e le possibilità di incidere da parte dei cittadini sono limitate al momento elettorale.
I partiti, insomma, sono il luogo principe dove si dispiega la partecipazione dei cittadini, dove la politica, nel senso più alto della parola, svolge a pieno la sua funzione di composizione del conflitto. A patto che non siano liste personali, perché in quel caso, invece che favorire una sorta di continuità democratica fra un’elezione e l’altra, diventano semplicemente strumenti per amplificare la linea politica del leader. Una sorta di megafono puntato costantemente verso i cittadini. Quella della propaganda, insomma, da funzione derivata, di secondo livello, diventa preminente. E una certa idiosincrasia dei partiti personali nei confronti degli altri corpi intermedi che esistono nella società di oggi, dalle associazioni ai sindacati, si spiega proprio per questo motivo. La propaganda soffre l’interlocuzione, il confronto tipico della democrazia, ha bisogno solo di un pubblico acritico.
Resta da capire quanto questa trasformazione rappresenti un passo in avanti e non un ritorno, in forme differenti, al sistema ottocentesco dei “notabili”.
Tutto questo, per la precisione.
Lo spiegone del lunedì/4
Ve lo do io il congresso
E’ un dato di fatto che i renzini hanno un livello di confusione mentale al di sopra della norma. Per cui non è strano rilevare che sono addirittura convinti che nel Pd si facciano congressi, parlano di “interessante confronto”, qualcuno parla dei programmi dei candidati. Poi se gli chiedi “sì? Che dicono?” fanno scena muta. A sera, però, si chiedono fra loro “chi ha l’aggiornamento delle sezioni scrutinate?” Insomma, è un congresso o sono elezioni?
Ora, come al solito, è un’esercizio di stile, spiegare qualcosa a un renzino è come provare a accendere il fuoco con l’acqua. Eppure insistiamo. Qualche barlume di ragionevolezza in alcuni di loro dovrà esserci ancora. Partiamo da un assunto facile. Lo statuto del Pd non prevede lo svolgimento di congressi. L’articolo 9 è intitolato Scelta dell’indirizzo politico mediante elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea nazionale. Parole significative. E all’interno dell’articolo si spiega poi che ci sono due fasi: quella delle convenzioni (orribile traduzione delle convention americane) riservate agli iscritti che hanno sostanzialmente la funzione di selezionare le candidature da sottoporre poi alle primarie, che sono aperte a tutti gli elettori del Pd stesso.
Insomma, badate bene alle parole: l’indirizzo politico del partito si sceglie attraverso l’elezione del segretario. Il partito personale sta tutto in questa affermazione. Insomma, per dirla semplice, gli iscritti al Pd non fanno i congressi, selezionano candidati. Non vi date troppe arie.
Ma cosa è un congresso? Gli ultimi che ricordo sono quelli che svolgeva il Pci. E consistevano nell’esatto contrario di quanto previsto nello statuto del Pd, una formazione politica di natura primordiale che si potrebbe definire un meta partito. I congressi consistevano nella formazione di una linea politica, attraverso il concorso di tutti gli iscritti e nella selezione, una volta scelta la linea politica, della classe dirigente più adatta a portarla avanti. Insomma, il percorso era capovolto. E come si faceva? Era un percorso lungo. Il comitato centrale uscente approvava le cosiddette “Tesi congressuali”. Un documento, complesso, che analizzava la situazione politica a tutti i livelli, lo stato del partito, e poi proponeva le soluzioni e indicava l’azione che avrebbe dovuto compiere il Pci per cercare di far diventare realtà le soluzioni proposte.
Questo documento arriva nelle sezioni locali, dove si facevano i congressi. Si formavano tre commissioni. Politica, che esaminava i documenti presentati e gli emendamenti; elettorale, che proponeva i candidati al direttivo e i delegati al congresso di federazione; verifica poteri, che aveva il compito di garantire la regolarità del congresso. Da notare che la commissione verifica poteri non era composta da esterni, come succede adesso nel Pd. Perché nel Pci partivi dal presupposto che gli altri iscritti, i compagni, come si diceva allora, erano brave persone e non tendevano a fregarti neanche quando non la pensavano come te.
Apriva il congresso la relazione del segretario uscente, partiva da un panorama sulla situazione politica, poi faceva un bilancio dell’attività della sezione. A seguire iniziava il dibattito e si presentavano gli emendamenti alle tesi congressuali. Ciascun iscritto poteva, insomma, proporre una sua visione politica. Si andava avanti due giorni, come minimo. E poi si votava. Era però il momento meno partecipato, di solito, del congresso. Perché l’importante era il confronto, spiegare il proprio punto di vista e ascoltare quello degli altri. L’indirizzo politico si formava così. Un compagno dirigente inviato dalla federazione locale, concludeva il dibattito, facendo una sintesi e rispondendo agli interventi degli iscritti.
Lo schema si ripeteva ai vari livelli organizzativi per arrivare poi al congresso nazionale. Che durava più giorni e si concludeva con l’approvazione del documento finale, dopo aver discusso tutti gli emendamenti che avevano superato i congressi locali. E l’elezione dei nuovi organismi dirigenti, dal comitato centrale alla commissione di garanzia. Organismi snelli, tra l’altro: nel Pci che superava i 2milioni di iscritti il comitato centrale (ovvero il parlamento) era di meno di duecento persone. Il Comitato centrale, a sua volta, eleggeva il segretario generale e la direzione nazionale. Nell’ultimo periodo, primo elemento di degrado il segretario venne eletto dal congresso. Poi nei Ds si istituì l’elezione diretta del segretario e la discussione politica, vero fulcro dei congressi di un tempo, ha perso man mano significato e i congressi sono infine diventati convenzioni. Ultima notazione, utile anche ai compagni di altri partiti che hanno idee confuse. Il percorso del congresso partiva dalla base e andava verso il livello nazionale, fare il contrario si chiama cooptazione, non congresso.
Ovviamente non si vuol dare un giudizio di merito, quale della forma sia migliore, ma semplicemente fare un po’ di chiarezza. Di confusione in giro ce n’è già troppa.
Tutto questo per la precisione.
Il pippone del venerdì/4
Immigrazione e contorsioni della sinistra
I giorni scorsi, i frequentatori più affezionati dei gruppi social di sinistra ne avranno avuto un qualche sentore, sono stati caratterizzati da un’aspra polemica sull’immigrazione. Un peso, un problema che si scarica sui ceti più deboli, hanno sostenuto alcuni, partendo da un’intervista di un dirigente di Sinistra italiana. Che evito di nominare per non personalizzare la discussione. Forse così si potrà ragionare serenamente senza scatenare gli ultras di ogni parte. Secondo me, tra l’altro, si è soltanto espresso male. Sarebbe bastata una precisazione per chiudere la discussione. Così non è stato. Dopo un timido tentativo ho evitato di intervenire, vista la virulenza dei toni, ma credo che sia un tema fondamentale per capire dove va la sinistra italiana. Poi è arrivato anche il decreto Minniti che, in fondo, segue la stessa logica dell’immigrato che va punito in quanto tale.
Io credo, la dico semplice e precisa, che sia una posizione sbagliata. Perché questo concetto dell’immigrazione come problema, che per giunta pesa sulle condizioni dei ceti più deboli, è un’impostazione di destra. Con una venatura nazionalista e razzista.
Primo punto di divergenza. Io sono cresciuto con l’utopia di un mondo senza confini. E mi piacerebbe conservare quel sogno, quella visione. Non tanto per un attaccamento nostalgico alle suggestioni giovanili, ma perché credo, a maggior ragione nella situazione attuale, che sia un assurdo pensare a un mondo dove la semplice nascita, ovvero un fatto del tutto casuale, possa dar luogo a qualche diritto esclusivo.
La faccio semplice: se sono nato in Italia non ho più diritto a stare qui di uno nato in un qualsiasi altro paese del mondo. Provate a spiegarmi perché questa sarebbe casa mia, perché avrei qualche diritto in più di Miguel piuttosto che di Azizi. Se è un furto la proprietà privata lo sono a maggior ragione le frontiere. Gli stati nazionali, del resto, sono una costruzione recente e stanno diventando sempre più drammaticamente vecchi di fronte a un mondo reso più piccolo dalla comunicazione e da un’economia a dir poco globale. I capitali non hanno frontiere, ma le impongono agli uomini perché proprio sulle divisioni politiche basano gran parte della loro forza.
E’ dunque un controsenso, se questa è la visione, dare un connotato negativo alle migrazioni (sarò snob ma mi piace parlare di migrazioni, senza indicare il “verso”). Non sono un problema. Sono un semplice dato di fatto. Se sono libero di spostarmi, come posso essere un problema? Diventa un problema se si stabilisce, come succede in Italia che migrare è addirittura un reato e si creano i “clandestini”. Un altro ragionamento, più profondo, andrebbe fatto sulle cause delle migrazioni. Intervenire sulle guerre che creano milioni di profughi, lavorare sulla diffusione dei diritti e delle libertà civili, intervenire sugli intollerabili squilibri che sono alla base delle migrazioni per necessità. E tornare a ragione in termini non localistici, non nazionali. Questo, non solo secondo me, è il limite della politica e del sindacato negli ultimi decenni: continuare a pensare in termini nazionali, non essere riusciti a trovare quella dimensione più grande che forse permetterebbe di governare un’economia che quei confini non li considera proprio più. E addirittura oggi c’è chi teorizza che bisogna uscire dall’Europa. Serve più Europa, non meno. E se la politica, la sinistra in particolare, non vuole essere un semplice strumento di cui il potere economico indica limiti e compiti deve tornare a ragionare oltre i confini delle nazioni.
Il secondo aspetto che non condivido è considerare le migrazioni come un fattore che tende a far peggiorare le condizioni di vita dei più deboli. I più intellettuali hanno addirittura scomodato il vecchio con la barba e la sua definizione di “esercito industriale di riserva”. I meno intellettuali hanno invece invitato chi faceva notare qualche contraddizione nel ragionamento ad andare a verificare quello che succede nelle periferie delle nostre città. Lo hanno fatto ovviamente comodamente seduti nei loro salotti del centro. Insomma, secondo questa visione, la banalizzo, gli immigrati rubano il lavoro agli italiani.
Due considerazioni. Marx, con una delle tante intuizioni geniali che ritroviamo nel “Capitale”, individuava un paradosso per cui gli operai producendo plus valore tendono a rendere eccedente il proprio stesso lavoro. Il capitalista, infatti, una volta abbassato il salario fino ai livelli di sussistenza, per aumentare il proprio profitto investe nell’automazione rendendo il lavoro dell’operaio meno necessario. E la massa dei disoccupati crescente (l’esercito di riserva) contribuisce a mantenere lo status quo, ovvero il continuo peggioramento delle condizioni di vita dei proletari. Ho sintetizzato molto.
Ora, anche a voler mutuare pari pari, senza la dovuta cautela, l’analisi marxiana, considerando gli immigrati come l’esercito industriale di riserva di oggi (ma vedremo quanto sia problematica una simile trasposizione) permettemi di rilevare che Marx non ha mai detto che i “disoccupati sono un problema per i ceti meno abbienti”. Chi era – ed è – un peso sono i capitalisti che sfruttano questa situazione per massimizzare il loro profitto, senza curarsi delle condizioni di vita di strati sempre più larghi della popolazione. Con questo vorrei provare a sostenere una tesi differente. Quello che voleva fare Marx (e che dovrebbe provare a fare la sinistra) era creare una coscienza di classe, spiegare che il conflitto fra occupati e disoccupati era proprio quello che serviva ai padroni per mantenere gli operai in condizioni disumane. Insomma, banalizzando il concetto, la sinistra oggi non può dire che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani. Intanto perché non è vero. E poi perché queste cose le fa la destra, le fanno i Salvini di turno e sono anche più credibili.
Io sono convinto che la sinistra abbia un altro compito, più alto. Intanto deve tornare davvero nelle periferie. Perché a guardarle dalle terrazze borghesi del centro storico di rischia di avere una visione distorta dalla lontananza. E il risultato è la disfatta delle scorse amministrative. E ve lo dice uno che abita a Magliana, in una zona dove le etnie si mescolano e accanto all’odore del ragù della domenica senti le spezie profumate dell’oriente. Tocca alzarsi dalle poltrone dei salotti bene. E bisogna tornare in periferia con una proposta chiara, con una visione chiara. A dire via gli immigrati ci pensano Salvini e Casapound.
Io credo che dovremmo andare a spiegare nelle periferie che il problema non sono i profughi in fuga dagli orrori. Non sono i migranti che occupano casolari abbandonati. Non sono quelli, più “fortunati”, a cui qualche italiano per bene affitta letti accatastati l’uno sull’altro a cifre esorbitanti. Non solo loro il “nemico di classe”. E bisognerebbe tornare a praticare la solidarietà di classe, non la carità cattolica, perché oggi nelle periferie non ci sono due povertà, due debolezze da mettere in competizione. C’è una sola grande questione. Baumann le chiamava “le vite di scarto”, i prodotti di risulta della società globale. Ed è qui il ruolo di una sinistra che fa la sinistra. Tornare a prendere in mano la bandiera degli ultimi. Tornare a pensare la politica come quello strumento che serve a rovesciare i rapporti di forza, quello strumento che fa delle moltitudini un popolo. E questo va fatto con azioni concrete. Dobbiamo aprire sedi, nelle periferie. Spazi aperti, utili, delle moderne case del popolo, grande e originale esperienza italiana. Case di tutti, italiani vecchi e nuovi. Nuovi italiani, mi piace questa definizione.
Detto questo, permettetemi però un passo indietro: io credo che sia proprio sbagliato l’assunto. Punto primo. L’apporto dei migranti sul mercato del lavoro non fa aumentare la disoccupazione, non c’è questa concorrenza di cui si favoleggia. Sono gli stessi imprenditori a chiedere un aumento delle quote previste da quella sciagurata legge Bossi-Fini : perché non trovano italiani disposti a determinati lavori. Punto secondo: anche dal punto di vista del welfare, non solo la presenza dei migranti non riduce in maniera rilevante le risorse a disposizione per lo stato sociale, ma i contributi versati da loro, contributi dei quali non usufruiranno mai, permettono di pagare le pensioni a quegli italiani che vorrebbero cacciarli. Altro che pippe mentali, altro che esercito industriale di riserva.
E allora diciamolo forte. Ci servono i migranti e campiamo bene proprio sul loro sfruttamento, vera schiavitù moderna. E una sinistra che fa la sinistra va nelle periferie e lo scrive sui muri. Altro che timidezze da salotto borghese. Una sinistra che fa la sinistra fa non uno ma mille cortei non per, ma insieme ai migranti. E mette in rete le debolezze, non aizza la guerra fra gli ultimi.
Insomma, la sinistra torni a essere internazionalista. Torni a battersi per un mondo senza confini. Che sarà anche un’utopia, ma sono le utopie che fanno muovere il mondo, non le catene del realismo.
Io la vedo così.
Articolo Uno, si può fare. I motivi della mia adesione
Sono stato molto indeciso nelle settimane scorse. Rimanere a casa, continuare a fare il semplice commentatore o tornare a impegnarmi in prima persona? La tentazione di restare ai margini è forte. Mi diverto molto a stare seduto sulla riva del fiume a contare i cadaveri di quelli che sempre sicuri che non sbagliano mai.
E poi si sta comodi. Intanto perché, chi mi conosce sa quanto sia vero, sono un pigro, iperattivo ma molto pigro. E dunque l’idea di rimettermi al lavoro, per giunta riprendere una sfida sostanzialmente da zero, senza strutture, senza sedi… da un lato stimola il mio lato iperattivo, ma dall’altro atterrisce il mio lato pigro.
Ma l’idea di ricostruire una casa insieme a tante persone di cui ho stima mi piace. Lentamente prende il sopravvento. E nei giorni scorsi, andando a curiosare in riunioni private e pubbliche, ho provato questa sensazione, perduta da tempo, di aver ritrovato la mia comunità politica. Poi magari mi sbaglio, magari come dice qualcuno fra tre mesi ci ripenso. Può darsi, non per calcolo personale. Qualcuno troppo abituato ad applicare agli altri i propri schemi pensa che si partecipi a un movimento politico solo in base agli incarichi che ti vengono garantiti. Io dalle scissioni della mia vita c’è sempre rimesso, devo essere strano. E non ho incarichi da pretendere. Militante semplice è pure troppo. Anche perché ho sempre pensato che le medagliette non servono a nulla. Sono state dirigente dei Ds del Lazio, poi del Pd, è tempo che forze fresche conducano la baracca, io se serve posso attaccare i manifesti.
Una casa, da costruire, dicevo, senza sentirsi ex di qualcosa. Ma parte di un progetto che guarda al futuro. Un progetto che va oltre i nostri destini personali e guarda alla realizzazione delle libertà della costitutuzione.
Ecco, Articolo Uno mi piace. Ho sempre letto con commozione quelle parole. La prima parte della Costituzione. Ho sempre cercato di difenderla e di renderla più vera, concreta. E credo che questo possa essere il compito della sinistra in Italia. Perché nella Costituzione abbiamo scritto i nostri valori, dopo settanta anni sarebbe il caso di renderli anche concreti, di farli vivere nella realtà disastrata del nostro paese. Questo, insomma, è il tempo di ripartire. Di costruire non un recinto, ma un villaggio senza mura accanto, che possa essere un punto di riferimento per chi è in viaggio e cerca un nuovo approdo, Un movimento, dunque, dove tutti, anche quelli che arrivaranno fra un po’ si sentano a casa e non ospiti. I
Questo è ancora il nostro tempo. Ripartiamo da Articolo Uno.
Lo spiegone del lunedì/3
La legge elettorale in vigore: genesi e prospettive
Dopo anni di tentativi di dialogo sono arrivato alla triste conclusione che i renzini non sono umani e quindi discutere con loro è abbastanza inutile. Con gli ultras – di tutte le razze – non c’è dialogo possibile. O ci fai a botte, oppure sei d’accordo con loro. E’ pur vero che si possono avere opinioni differenti, ma a raccontare bugie si finisce dritti dritti all’inferno. Siccome, però, siamo buoni e alle loro anime ci teniamo, proviamo a ricapitolare.
Cosa dicono i nostri eroi? E’ presto detto: per loro il no al referendum ha provocato il ritorno al proporzionale e dunque il proliferare di partiti che ci porterà all’ingovernabilità. Aggiungono indomiti: dove sono finite le riforme che D’Alema aveva annunciato? Non aveva detto che le faceva in sei mesi?
Andiamo con ordine. Cosa si è votato il 4 dicembre, con il referendum? Si è votata la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi e approvata a colpi di canguro dalle camere. Cosa prevedeva? Molte cose. In sintesi: trasformazione del senato in organo nominato dai consigli regionali, con meno poteri (non era più, fra l’altro titolare della fiducia al governo), ridisegnava i poteri di governo e regioni, aboliva il Cnel. Una riforma molto complessa alla quale quasi il 60 per cento degli italiani ha detto no. Cosa ha provocato questo no sul piano della legge elettorale? Assolutamente nulla, vediamo perché.
Dopo il referendum è rimasto in vigore lo stesso sistema zoppo derivante da due fatti: la bocciatura da parte della corte costituzionale del vecchio porcellum (2014) che aveva sostanzialmente consegnato al Parlamento un sistema proporzionale (con uno sbarramento molto alto al senato) e la nuova legge elettorale approvata nel 2015, il cosiddetto Italicum approvato nel maggio del 2015.
Tale situazione è cambiata in seguito alla sentenza della Corte costituzionale della fine del gennaio scorso che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’Italicum su due punti: il ballottaggio e la possibilità di chi è candidato in più collegi elettorali di scegliersi il seggio dopo le elezioni. Eliminando il ballottaggio la sentenza ha creato, di fatto, un sistema proporzionale. Resta, infatti, il premio di maggioranza (alla Camera) per la lista che supera il 40 per cento dei voti, ma in un sistema politico in cui avremo almeno 4 o cinque liste che andranno oltre il 10 per cento diventa maticamente molto complesso. Senza contare che la maggioranza sarebbe limitata a una sola Camera.
Appare evidente, dunque, e questo è un fatto, non un’opinione, che l’attuale sistema elettorale non deriva dal referendum del 4 dicembre, ma da due distinte sentenze della Corte costituzionale, che, come è ovvio, basta leggerle, con l’esito del referendum non hanno nulla a che vedere.
Punto secondo: la riforma proposte da D’Alema. Riporto i tre punti per chiarezza con le stesse parole di D’Alema: «Solo tre articoli, il primo riduce sia deputati che senatori, 400 i primi e 200 i secondi. Articolo due: fine della navetta parlamentare adottando il sistema degli Usa. Articolo tre: il rapporto di fiducia del governo è solo con la camera».
Chiaro e semplice. Si vuole fare? D’Alema non ha incarichi né di partito né tanto meno istituzionali, complicato dunque dargli la colpa di una mancata iniziativa legislativa. Che spetta, come è ovvio, a chi ha la maggioranza del Parlamento, ossia al Pd. Dunque avete i numeri sia per approvare una riforma costituzionale davvero utile che per approvare una nuova legge elettorale. Siete d’accordo con il ritorno all’Italicum? Avete la maggioranza per proporlo e approvarlo in tempi rapidi. Sicuramente è una legge che rispetta la Costituzione, sicuramente aiuta la governabilità senza comprimere troppo la maggioranza. Ma c’è davvero da parte di Renzi, che resta il padrone del Pd anche in questa fase congressuale, la volontà di dare all’Italia una legge elettorale seria e funzionale? Lo vedremo nei prossimi mesi.
Tutto questo per la precisione.
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