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Caro Goffredo, il Pd è l’ostacolo, non Renzi. Ti aspettiamo a sinistra

Nov 11, 2017 by     No Comments    Posted under: appunti per il futuro

Caro Goffredo,

ho letto come sempre con grande attenzione e rispetto le considerazioni che hai espresso su Repubblica di ieri. Ho provato a replicare brevemente su facebook, ma non soddisfatto provo a buttare giù due righe. La profondità e la sofferenza che leggo nella tua analisi merita ben più che pochi caratteri digitati dal telefono. Parlo di sofferenza perché proprio tu, non senza destare stupore, avevi riposto grande speranza nella svolta renziana. A determinate condizioni, sintetizzo, pensavi che potesse far uscire il Pd dalle secche correntizie in cui si era arenato dopo un inizio che aveva suscitato speranze e attese nel nostro popolo. Questa svolta, convieni adesso, al contrario non solo non ha portato fuori da quelle secche, ma ha imprigionato la sinistra in uno schema alla Macron, senza peraltro averne i numeri. Con i voti presi a sinistra, banalizzo, si sono fatte le leggi che voleva la destra.

Vado sempre per sintesi, continui il ragionamento invitando esplicitamente il segretario del Pd a farsi un partito suo perché nel Pd non ci dovrebbe essere spazio per quel tipo di personalismo leaderistico.

Sull’analisi si può anche convenire. Il renzismo imprigiona tutt’ora un pezzo importante della sinistra italiana. Di gran lunga maggioritario, dici tu. Le conclusioni, però, sono francamente deludenti. Se, come tu sostieni, il centrosinistra è essenziale per dare un’impronta di natura progressista al governo del Paese, e se per farlo serve una sinistra forte, insieme al centro, io credo che il Pd, non Renzi, sia l’ostacolo fondamentale. Se non ci diciamo che bisogna uscire dall’equivoco alla base della nascita del partito democratico, ovvero la coesistenza del centro e della sinistra nello stesso contenitore, non si può ricominciare a costruire un futuro per la nostra comune cultura politica. Quella del comunismo democratico, che tanta parte ha avuto nella costruzione di questo Paese. Questa è l’emergenza di oggi. Non altro. Ridare spazio a una sinistra non velleitaria, radicale nella sua proposta, che punti a governare questo Paese su basi profondamente discontinue non solo rispetto a Renzi, ma anche rispetto ai governi degli anni ’90 del secondo scorso.

E dire a Renzi, che rappresenta a occhio circa l’80 per cento del partito, che se ne deve andare mi sembra francamente velleitario. Io non credo che lì ci sia ancora tanta parte della sinistra. Tante intelligenze forse. Perso a te, a Cuperlo, a Zingaretti. Ma il popolo non c’è più. E non si è classe dirigente se non si avverte quanto sia forte e profondo questo distacco. Già tre anni fa, da segretario di un circolo della periferia romana, nei volantinaggi sentivo non solo la distanza, ma il vero e proprio rifiuto che quel simbolo destava. E questi tre anni non hanno di certo attenuato questo sentimento. Come potete non avvertirlo voi che siete dirigenti politici?

La sinistra fuori dal Pd non è attrattiva, sostieni. E su questo siamo perfettamente d’accordo. Non è attrattiva per le tante incertezza, perché non sta più fisicamente nei luoghi del conflitto ma solo nei salotti buoni della città. Non perché è troppo radicale, ma perché lo è poco. Le ragioni sono tante e mi piacerebbe trovare un luogo dove poterne discutere insieme.

Non è attrattiva ma c’è. E con tutti i limiti che dicevo ci stiamo provando seréiamente a rifondare una casa. Una casa che, lo dico da sempre, non deve avere porte e finestre, ma un tetto solido, fatto con la nostra cultura e i nostri valori. Ecco, in quella casa, quando lo riterrai opportuno, sarete sempre i benvenuti.

Con immutato affetto e ammirazione,

Michele Cardulli

La sinistra c’è. Ora facciamo la sinistra.
Il pippone del venerdì/32

Nov 10, 2017 by     No Comments    Posted under: Senza categoria

Diciamolo chiaramente: quando, era il 7 novembre, a raffica, sono apparsi il documento unitario per la lista di sinistra, le date delle assemblee delle forze politiche che hanno elaborato la bozza che andrà discussa e approvata, fino al nome (importante) di quello che potrebbe essere il futuro “presidente” di questa aggregazione, diciamolo chiaramente, molti di noi hanno aperto la bottiglia buona. Quella che tieni da parte per le grandi occasioni. Senza neanche leggere le dieci scarne paginette prodotte dal comitato dei “saggi”. E anche questa “laconicità” è una positiva novità.

Non saranno i 140 caratteri che vanno di moda oggi, ma rispetto ai programmi dell’Ulivo è una rivoluzione. Abbiamo brindato senza neanche leggere, dicevo, perché dopo mesi e mesi di messaggini criptici, di mezzi passi in avanti seguiti da ampie retromarce, di silenzi imbarazzanti sui temi fondamentali dell’agenda politica, siamo stremati. Siamo come quei naufraghi che dopo mesi di navigazione senza meta vedono uno sperduto isolotto in mezzo al mare, con un’unica palma, e gli sembra il paradiso. Poi, magari, bisognerà anche ragionare su questi mesi che ci separano dalle elezioni e soprattutto su quello che dovrà succedere dopo. Datemi tempo che ci arrivo. Ma, intanto, per una volta non facciamo i rompiscatole e prendiamoci cinque minuti di gioia pura.

Sì, gioia pura. La sinistra manca in Italia da anni. Questo lo hanno capito anche le pietre ormai. Ma oggi siamo di fronte al fatto nuovo della possibile scomparsa di qualsiasi tipo di rappresentanza degli ultimi. Non solo in parlamento, ma anche nella società. Questo è il rischio che abbiamo di fronte. Perché la prossima legislatura senza una forza di sinistra in parlamento e nella società sarà quella del colpo definitivo ai sindacati, all’associazionismo, ai corpi intermedi che sono la vera garanzia per le libertà democratiche. Sarà quella in cui famoso “piano di rinascita nazionale” di Licio Gelli troverà la sua definitiva attuazione grazie all’asse Berlusconi-Renzi. Inutile che vi incazzate. Basta leggerlo e confrontarlo con le leggi approvate negli ultimi cinque anni, compresa la riforma della Costituzione. Salta agli occhi la perfetta convergenza di intenti: passare dalla democrazia avanzata descritta dai padri costituenti a una moderna forma di Stato autoritario dove gli spazi di partecipazione si esauriscono nell’acclamazione del leader.

Ecco perché abbiamo brindato. Con la bottiglia delle grandi occasioni. Non è che quel documento e quel percorso frettolosamente delineato risolvano d’incanto tutti i problemi. Ce ne accorgeremo nelle prossime settimane. I guastatori professionisti non mancano, sono già cominciati i distinguo, le accuse di verticismo e via dicendo. Sono gli stessi che denunciavano la mancanza di iniziativa politica di questi mesi. Non ce ne curiamo troppo. Come non ci curiamo troppo dei mal di pancia di Pisapia e soci. Che restano ancora sospesi tra un’alleanza con il Pd e una convergenza nella lista di sinistra. Decideranno. Siamo gente paziente. Ci piace, però, la determinazione e la nettezza delle posizioni e delle dichiarazioni dei dirigenti delle varie formazioni politiche di queste ore. Si respingono le tardive sirene che arrivano, più per strategia della disperazione che per convinzione politica, dal Pd. Compresi gli accordi tecnici lanciati da quel Parisi che tanti danni ha prodotti negli anni passati. Si affermano con ritrovata convinzione i valori della sinistra. Scopriamo la forza e la determinazione di Pietro Grasso, sempre meno presidente del Senato e sempre più in campo con noi. La sua spigolosità, le sassate che lancia, i suoi toni sempre decisi. Niente più timidi pigolii.

Insieme, questa volta si può dire davvero. Attendiamo con ansia non tanto le assemblee del fine settimana 18-19 novembre, quando arriverà il via libera al documento dai “costituenti”, quanto l’assemblea del 2 dicembre. Perché ci siamo stancati di riunirci divisi, ognuno nella sua casetta. E poco importa se qualche maître à penser della borghesia cosiddetta illuminata parla di ritorno ai riti burocratici dei vecchi comunisti. Congressi locali, regionali, nazionali, comitati centrali, commissioni, discussioni infinite. Poco importa perché, gli editorialisti pensosi non lo sanno, quei riti sono il sale della democrazia. La partecipazione è questo: non pagare due euro e imbucare il nome di un leader scelto da altri. Democrazia è discutere faticosamente per ore in sale sempre fredde e troppo piccole. Trovare una sintesi, legittimare dal basso una linea politica e in base a quella indicare una classe dirigente. Magari fosse.

E proprio questo, esauriti i brindisi voglio provare a dire. I passi fatti in queste settimane sono soltanto l’inizio della soluzione del problema. La condizione necessaria, come dicono quelli bravi. Ora bisogna non solo arrivare alla condizione sufficiente, ma anche andare oltre la sufficienza. La dico chiara: in questo periodo ho avuto modo di contattare tanti compagni, molti dei quali tornano ad affacciarsi dopo anni di disimpegno. Il messaggio è chiaro: siccome ci siamo stancati di votare il meno peggio come ci succede da tempo, diamoci da fare. Siamo anche disposti a rimboccarci le maniche in prima persona, ma sappiate che se il risultato è il meno peggio, ce ne restiamo a casa. E allora, secondo me, abbiamo poco tempo per fare due cose.

La prima, essenziale: avviare un vero processo dal basso. Non bastano le assemblee provinciali di Mdp, di Sinistra italiana, dei “civici” del Brancaccio. Non bastano perché siamo sempre gli stessi. E non siamo sufficienti. Bisogna lanciare appuntamenti unitari in tutte le città, in tutti i quartieri. Tornare nei luoghi del conflitto, dall’Ilva occupata a Ostia Nuova regno dei clan mafiosi e della destra fascista. Tornare per restarci. Aprire sedi, luoghi di confronto, luoghi utili anche a “mettere insieme il pranzo con la cena”, come si dice a Roma. Troviamo le forme moderne delle pratiche antiche della mutua assistenza. Sporchiamoci le mani senza paura. I comitati per la sinistra unita (il primo nome che mi viene in mente) devono piantare bandierine ovunque.

La seconda: scriviamolo chiaramente, non si torna più indietro nelle nostre casette. Del resto, lo abbiamo visto, se ci si arma di buona volontà, ci si siede a un tavolo, si discute e si arriva a una posizione comune. La voglia di unità, il bisogno di ritrovarsi insieme prevale sulle ragioni che ci hanno diviso negli anni. Quello della lista deve essere il punto di partenza, non di arrivo. Non illudiamoci di chissà quale risultato mirabolante. Saranno tempi grami. Riportiamo una pattuglia agguerrita della sinistra in Parlamento e nelle Regioni dove si vota. Che siano le nostre punte avanzate, non il fine della nostra iniziativa politica, ma lo strumento che ci permetta di costruire un futuro meno gramo. Queste forche caudine delle elezioni possiamo superarle con un risultato dignitoso. Date le condizioni io sarei più che contento di un 6 per cento a livello nazionale. Ma stiamo bene attenti, che se lo scopo è solo quello di garantire qualche poltrona a un pezzo di ceto politico stanco e consumato, non solo non arriveremo al 6 per cento, ma manco al 3. Per questo dico: scriviamolo subito che indietro non torneremo. Poi troveremo le forme per arrivare gradualmente a un nuovo partito. Una federazione, forme di adesione collettiva, tematiche. Inventiamo senza paura, tanto peggio di così non si può fare? Ma l’obiettivo deve essere un partito. Si, partito. Di quelli con le sezioni, i congressi, e tutto il rito della democrazia. Saremo anche noiosi. ma per tornare a incidere nella società serve una forza organizzata, di massa, in grado di contrastare il ritorno della destra. Della destra fascista, non dei moderati.

Buona sinistra, buon vento a tutti (il riferimento velistico non è casuale, diciamo).

Il mio sogno impossibile: andare in pensione.
Il pippone del venerdì/30

Ott 27, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Premessa doverosa: non tiratemi per la giacchetta non parlo di Grasso né di possibili futuri leader della sinistra. Non era un sabotatore delle istituzioni quando ha subito la fiducia imposta da Renzi sulla legge elettorale, non è un eroe adesso che ha tratto le conseguenze lasciando il gruppo del fu Pd. Una persona coerente. Certo di questi tempi non è poco, ma lasciamolo in pace. Quello che succederà in futuro lo scopriremo.

Parliamo del nostro di futuro, di quello concreto di tutti noi. Non per personalizzare, ma la dico semplice: mobbizzato e costretto in un sottoscala da un’amministrazione pubblica che si riempie la bocca di parole come merito e capacità, ma poi premia la prontezza della lingua più che della penna, non ho davvero ambizioni di carriera. Chiedo solo di essere lasciato in pace e di poter arrivare serenamente alla pensione, senza troppe rotture di scatole.

Ecco, la pensione. Da ragazzo, ingenuamente, pensavo che ci fosse una specie di contratto con lo Stato: quando comincio a lavorare so che dopo un certo numero di anni, prefissato, avrò una pensione che sarà pari a una certa cifra, determinata da parametri precisi, predefiniti anche questi. Non è un regalo dello Stato generoso, badate bene, perché per tutti gli anni che uno lavora versa una determinata cifra ogni mese, in percentuale sul suo stipendio, che viene messa da parte proprio per pagargli la pensione quando sarà il momento.

Quando ho cominciato a lavorare c’era ancora il sistema retributivo, in sintesi la pensione era calcolata non su quanto effettivamente versato, ma sullo stipendio degli ultimi anni di attività. Potrebbe sembra un sistema ingiusto, ma era pensato per tutelare chi – e in Italia non erano e non sono pochi – prima di avere uno stipendio regolare con regolari versamenti dei contributi aveva lavorato per decenni in nero o con formule variamente precarie. Per non farla troppo lunga, da quel momento, le regole sono cambiate una decina di volte. Una volta si passa al sistema contributivo, la volta dopo si allunga il tempo che uno deve lavorare, poi ancora si inseriscono complicati calcoli da fare considerando sia l’età che il numero di contributi versati. Ora siamo arrivati all’età variabile. Ovvero l’età a cui si va in pensione cambia a seconda dell’aspettativa media di vita calcolata dall’Istat. Se si allunga l’età sale, se si accorcia resta la stessa. Un po’ come il prezzo della benzina, che aumenta sempre anche quando il costo del petrolio diminuisce. Come se uno scalatore arrivasse alla cime a gli aggiungessero ogni volta una decina di metri in più.

Il mio professore di demografia all’università ci guardava con occhi comprensivi e ci spiegava: “Voi siete la generazione più sfortunata, siete gli ultimi del boom delle nascite e quindi avrete difficoltà enormi a trovare lavoro, ma siccome dopo di voi il dato delle nascite crolla non andrete mai in pensione perché non si sarà una base di contribuzione abbastanza ampia per garantirla a tutti”. Le condizioni in realtà sono un po’ cambiate, c’è stata una forte immigrazione a colmare quel vuoto nelle nascite. C’è stata la globalizzazione, la rivoluzione informatica. Insomma il mondo si è rivoltato, ma quella profezia si sta tristemente rivelando esatta. Perfino ottimistica.

Sì, ottimistica, perché qui non solo non ti mandano in pensione, ma ti prendono anche in giro. Ti dicono che campi di più e quindi deve lavorare di più, senza per altro fare distinzioni: la statistica è quella, prendere o lasciare. Poco importa se poi tu, personalmente, stai bene o stai male, hai fatto per una vita il minatore piuttosto che quello che conta il passaggio dei gabbiani davanti al faro di Malibù. Niente pensione.

Poco importa se il tuo posto di lavoro potrebbe essere occupato da uno di quei giovani per cui l’occupazione resta un miraggio. Poco importa se sei rincoglionito e alcuni lavori non puoi proprio sostenerli per impossibilità fisica o intellettuale. Si lavora fino a 67 anni. Per ora. Quando arriverete a 67 anni ne riparliamo.

Io credo sia una vera e proprio truffa, alla quale dovremmo tutti ribellarci. Ma non con uno scioperetto, no, una ribellione vera. Tutti davanti al Parlamento fino a quando non cambiano quella norma infame. Tutto il paese bloccato, senza fasce di garanzia, precettazioni o limiti vari. Come fanno nelle altre nazioni europee. Quando c’è da protestare si protesta. Senza chiedere il permesso.

Per oggi la finisco qui. Sono un po’ più breve del solito, mi perdonerete. Ma l’età avanza e anche il pippone ne risente. Del resto anche i vostri occhi non sono più quelli di una volta.

I populismi, i supposti argini e il vero voto utile.
Il pippone del venerdì/29

Ott 20, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Sto leggendo in questi giorni un libro di Giorgio Amendola, trovato su ebay per pochi euro, che racconta la storia del Partito comunista italiano dal 1921 al ’43. Doveva essere il primo capitolo di un lavoro più complessivo, ma non ne ebbe il tempo. Di lui ho sempre apprezzato una grande capacità di raccontare i fatti più complessi in maniera chiara, intrecciando le vicende personali con gli avvenimenti più generali. Non freddi saggi, insomma, ma la storia che diventa concreta, che scende dalle cattedre universitarie e si colora di facce, persone,  passioni. In questo suo lavoro, meno romanzato rispetto ad altri, trovo la stessa facilità di racconto, unita al solito rigore nell’analisi.

Arrivo al punto. Una cosa mi colpisce sempre quando leggo qualcosa che riguarda la storia del Pci: la distanza fra il racconto dei protagonisti e la narrazione che degli stessi avvenimenti veniva rappresentata dai mass media. Mentre nella storiografia spesso si ritrova la descrizione di un partito e un gruppo dirigente chiuso e dipendente da Mosca, sia leggendo Togliatti, che Amendola, ma anche Ingrao, si percepisce sempre, sia pur nelle posizioni spesso differenti, un sentiero comune di tutt’altra natura: il bene del Paese. Questa sorta di stella cometa ha sempre guidato il gruppo dirigente dei comunisti italiani per settant’anni. Più che il destino personale, quello del Partito, contava il destino complessivo dell’Italia. E lo stesso progresso dei lavoratori, degli ultimi, dei proletari, veniva visto come condizione necessaria per il miglioramento del Paese.

Quando quella storia, quella del Pci, finisce si perde anche questo senso comune che aveva caratterizzato quella comunità? Sicuramente non è più stato quello il filo conduttore delle forze della sinistra. Di quel pensiero si ritrovano tracce, anche importanti. Penso, ad esempio, al Bersani che sostiene Monti, convinto che andare alle elezioni senza aver prima messo in sicurezza i conti sarebbe stato un disastro per l’Italia. Non ho condiviso quella strategia, Monti non era la medicina giusta, ma quella era la ragione. Perché una parte importante della classe dirigente della sinistra quel marchio di fabbrica ce l’ha impresso nel Dna.

Per questo mi capita, in questi giorni, di chiedermi cosa convenga davvero fare oggi per il bene dell’Italia. E credo anche che sarebbe bene che partissimo proprio da questa riflessione nel processo della ricostruzione della sinistra. Questa per me è la strada per ritrovare una connessione, anche emotiva, con il nostro popolo. Perché altrimenti si rischia di essere percepiti come quelli che si mettono insieme solo per riportare qualche deputato in Parlamento. E se questo è non si raggiunge neanche questo obiettivo francamente non particolarmente attraente.

E credo anche che sia una riflessione da fare a maggior ragione in questi giorni in cui l’offerta politica italiana appare in tutta la sua miseria. C’è una destra che si unisce per ragioni di potere dietro l’effige stinta di Berlusconi, dove la voce di Salvini è sempre più forte, ci sono i 5 stelle che a parole sono rivoluzionari ma quando governano si dimostrano soltanto apprendisti pasticcioni, c’è un centro che si affida a Renzi, forse il più populista della compagnia. Si odono sinistri scricchiolii a destra con l’avanzata dei fascisti veri e propri, di cui abbiamo già parlato.

Le vicende di questi giorni non sono altro che una conferma delle riflessioni di questi anni. Renzi si proclama a parole unico argine al populismo parolaio e poi ne usa gli strumenti a piene mani. Al di là del giudizio su Visco, sicuramente non univoco, la sgrammaticata mozione del Pd rappresenta uno schiaffo alle istituzioni. Il paradosso è che chi è fra i responsabili degli scandali che hanno colpito i risparmiatori negli ultimi anni si erge a paladino degli stessi andando a mettere sotto accusa l’organismo che sulle banche ha esercitato un’azione costante di controllo, sia pure con ritardi e omissioni, evitando guai peggiori. Insomma, invece che perseguire i malfattori si perseguono i controllori. Si indebolisce la Banca d’Italia, la sua indipendenza sancita dalla Costituzione.  Per qualche voto in più si mette a rischio una istituzione essenziale. La stessa cosa che rimproveravamo a Berlusconi, le stesse critiche che da sempre muoviamo a Grillo.

Anche a voler ignorare le inchieste giudiziarie in corso, questo modo di fare politica è di per sé un danno per il Paese. Perché non di discosta minimamente da quel populismo che vorrebbe combattere. Si fa forcaiolo quando il vento tira da quel lato, razzista quando le tensioni sui migranti fanno ondeggiare l’opinione pubblica, stucchevole nella sua deferenza verso i potenti, arrogante con i sindacati e gli studenti. Unico scopo è l’affermazione personale, la gestione del potere fine a se stessa.

Io resto convinto che fosse sbagliato il progetto stesso del Pd, ma ai Veltroni, ai Prodi, ai Franceschini, ai Gentiloni vorrei chiedere ugualmente: ma era questo il partito che sognavate? La famosa vocazione maggioritaria voleva dire che pur di raccattare un voto in più si può fare tutto? E pur di salvare qualche posticino in parlamento per voi e la vostra corrente siete disposti a digerire tutto?

Ecco, il bene del paese: cosa è oggi il bene del Paese? Arginare i populismi. Bene. Io credo che siano due le condizioni necessarie. Per prima cosa ricostruire un campo della sinistra. Senza altri aggettivi, radicale, di governo, riformatrice. La sinistra e basta. Quella che parte dalla cultura del bene comune e che non a caso in questi anni è stata costantemente sotto l’attacco concentrico di tutti. Per seconda cosa deve morire il Partito democratico, deve esplodere questo contenitore malato che ancora ingabbia e illude tante energie positive.

Solo ricreando una sinistra forte e autorevole e un partito che rappresenti i moderati, si può davvero mettere un argine ai populismi che sembrano oggi inarrestabili. Non è un compito che si esaurisce in due o tre mesi, lo dico da troppo tempo. Ma è essenziale che si cominci adesso a costruire un campo differente. Ognuno a casa sua. Noi dobbiamo lavorare per dare voce a quel popolo di sinistra che ormai puntualmente resta a casa a ogni elezione. I Veltroni, i Prodi devono abbandonare Renzi al proprio destino e dare vita a un nuovo progetto moderato con il quale poter interloquire.

Se ci ritroviamo su questi obiettivi è anche più facile capire cosa fare, sia a livello nazionale che a livello locale, dove bisogna lavorare per isolare il giglio magico e rafforzare le energie che in modo manifesto si dichiarano alternative, anche dentro il Pd. Questo sarà il vero voto utile.

Le elezioni, in questo quadro, sono un passaggio obbligato ma non dirimente. Un passaggio che può aiutare questo grande big-bang, questa complessiva scomposizione e ricomposizione su basi nuove che serve alla rinascita di un sistema politico che ormai è solo un danno per l’Italia, per noi tutti.

Il tormentone infinito della legge elettorale.
Il pippone del venerdì/25

Set 22, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Non rimaneteci male, ho deciso, intanto per una settimana ma chissà per quanto tempo: lasciamo la sinistra alle sue contorsioni e Pisapia ai suoi pigolii tentennanti. Forse se li ignoriamo i nostri (autonominati) dirigenti e leader si accorgeranno di quanto siano inutili, se non dannosi, per la causa che dicono di voler perseguire e si daranno una svegliata.

Vorrei, invece, in questo mio sproloquio settimanale, fare qualche rapida considerazione sulla legge elettorale e sull’ultimo cilindro tirato fuori dal capello del Pd. Capisco che di argomenti meno appassionanti ce ne sono pochi, ma mi pare un tema fondamentale per il futuro di tutti noi. E il fatto che si vorrebbe liquidare in poche settimane una partita così delicata ci dovrebbe far scattare subito in piedi. Non parlerò di inciucio, lo dico a beneficio dei grillini: le regole si fanno tutti insieme o almeno con una maggioranza più larga possibile, dunque parlare di inciucio è un vero e proprio ossimoro. Vorrei entrare più nel merito della proposta.

Intanto, diciamolo, viene da chiedersi chi siano i tecnici (chiamarli costituzionalisti o anche esperti di diritto pare un insulto a chi lo è davvero) che si inventano a rotta di collo sistemi elettorali da manicomio. Siamo almeno alla quinta proposta differente in pochi mesi che arriva da parte dei democratici e tutte hanno in comune due punti: per capirle ci vuole uno studio complicato e quando arrivi alla fine ti rendi conto che non sono sistemi elettorali pensati per garantire governo e rappresentanza, ma per far fuori il nemico di turno.

Il punto non è neanche tanto che con l’ultima trovata di Renzi e soci il numero dei nominati direttamente dai partiti arriva alla cifra record del 64 per cento, senza contare i collegi uninominali sicuri, altro rifugio tranquillo. Non è uno scandalo in sé, dicevo, perché se in questo paese ci fossero dei partiti, con una democrazia interna regolata da norme precise e uguali per tutti, verrebbe quasi naturale che fossero loro a selezionare la classe dirigente. E’ proprio questa, del resto, la funzione principale delle formazioni politiche. I partiti sono la democrazia che si organizza, come diceva Togliatti. E dunque nulla di strano. Peccato che ormai in Italia di partiti non ce ne siano più e dunque l’indicazione della classe dirigente spetterebbe nella sostanza a quattro leader. E visti i leader non c’è da stare allegri.

Ma a parte questo, sono altri gli aspetti inquietanti del cosiddetto “Rosatellum bis” (in altra sede ci sarebbe  da disquisire sugli improbabili nomi latineggianti che cercano di coprire imbrogli degni di un magliaro di basso livello). Provo a raccontarvi come funziona questa idea su cui ci sarebbe l’accordo di Pd, Lega, Forza Italia e cespugli vari. I due terzi dei parlamentari viene eletto su base proporzionale con liste bloccate, gli altri in collegi uninominali a turno unico, chi prende un voto in più entra in parlamento. Nella parte proporzionale ci sono le liste dei partiti (devono superare il 3 per cento per concorrere alla ripartizione dei seggi) che possono unirsi e presentare un comune candidato nel collegio uninominale. Lo sbarramento per le coalizioni è del 10 per cento, ma non è previsto un programma comune e neanche un leader, ciascuna lista ha il suo “capo”. Se una lista che fa parte di una coalizione non raggiunge il 3 per cento ma ha superato l’1, quei voti vengono spartiti fra gli alleati. Una norma strana, ma che potrebbe favorire la nascita di una serie di liste civetta in grado di spingere i candidati nell’uninominale. Il voto è unico: votando la lista nel proporzionale si attribuisce automaticamente la propria preferenza anche al candidato collegato nella parte uninominale. Se si vota solo il candidato all’uninominale, il voto va (in proporzione) anche alle liste collegate.

La prima cosa che balza agli occhi è che questa legge non garantisce minimamente la stabilità del governo, perché non aiuta a formare una maggioranza e neanche farà immediata chiarezza su chi ha vinto e chi formerà il governo. Anzi, è facile prevedere che da una legge così, visto il nostro attuale sistema, non nascerà alcun governo se non una “grande coalizione dei moderati”, a patto che ci siano i numeri. Sottolineo che questi due punti (stabilità e certezza sui vincitori) sono stati per anni il tormentone che ci ha propinato mattina e sera il segretario del Pd. Ora sono improvvisamente spariti dall’agenda politica.

Il secondo aspetto che vorrei mettere in evidenza è questa bufala delle coalizioni elettorali. Il fatto che solo in Italia esistano dovrebbe accendere un campanello d’allarme. Nel resto del mondo, infatti, i partiti che hanno un programma comune non fanno coalizioni, presentano la stessa lista. Se hanno programmi differenti, invece, presentano liste concorrenti. Dopo le elezioni, questo sì, quando nessun partito raggiunge la maggioranza si formano delle coalizioni per governare fra i soggetti politici più vicini. In pratica: ci si pesa, le idee di ciascuno vengono giudicate dagli elettori e poi, solo dopo il voto, proprio in base al peso elettorale che i programmi hanno avuto, si indirizza l’azione politica del governo. L’invenzione italica delle coalizioni, invece, fa sì che partiti differenti e quindi con programmi altrettanto differenti, facciano una mediazione preventiva senza pesarsi prima. Gli elettori vengono di fatto, privati di un loro diritto fondamentale: scegliere il partito più vicino al loro modo di pensare. Nel caso di quest’ultima pensata dei democratici, non c’è manco il programma comune e dunque non si capisce per quale motivo si dovrebbero presentare insieme.

Raccontata così, è evidente come questa legge debba avere altri scopi, di certo non quello di creare un sistema politico rappresentativo del paese. Del resto, se le ultime due leggi elettorali, approvate da schieramenti opposti, sono state bocciate dalla Corte costituzionale, una ragione ci deve pur essere. Il motivo, secondo me, è evidente: non si pensa a una legge per rafforzare il sistema politico (e quindi che garantisca rappresentanza e aiuti la formazione di maggioranze), ma a una legge che favorisca alcune forze politiche rispetto ad altre. Il porcellum fu studiato da Berlusconi e soci per dimezzare la prevedibile vittoria di Prodi nel 2006, l’Italicum, secondo Renzi gasato dal 42 per cento delle Europee, doveva garantire al Pd una maggioranza solitaria. Non a caso fra le raccomandazioni del Consiglio d’Europa c’è quella di non fare leggi elettorali nell’ultimo anno del mandato delle Camere, proprio per evitare norme confezionate in base ai sondaggi del momento.

Ora, io non sono né un esperto né tantomeno un tecnico, solo un appassionato. Ma Lo scopo mi pare evidente, in questo caso: in primo luogo rendere marginale la forza del Movimento 5 stelle, che per la sua stessa natura non è disposto a partecipare a coalizioni, in secondo luogo ostacolare la formazione di una forza di sinistra che vedrebbe i suoi consensi potenziali messi a rischio dal consueto appello al cosiddetto voto utile. Supposto che la maggioranza potenziale regga alla prova del Parlamento e questa legge passi, a me sembra che Renzi, ancora una volta, abbia fatto male i suoi conti. Perché una legge con queste caratteristiche gli garantirebbe sicuramente di poter fare e disfare a suo piacimento il Pd. Ma il vero favorito sarebbe Berlusconi, che ottiene due vantaggi insieme: si può coalizzare con la Lega di Salvini ma non deve scegliere un leader, può infarcire le liste dei fedelissimi. Senza contare che già da tempo sta pensando a una serie di listarelle parallele a quelle principali cosa che, come abbiamo visto, questa proposta tende a premiare. Insomma, se lo scopo è quello di tornare a Palazzo Chigi anche come capo di un governo di grande coalizione, lo strumento non sembra essere adatto.

Ultima notazione e poi vi libero dal pippone settimanale: il voto utile. E’ un concetto che proprio non capisco. Utile a chi? Io dovrei votare un partito che di cui non condivido molto per evitare che ne vinca un altro di cui condivido ancora meno. Che poi sentire Renzi che evoca il rischio del populismo è anche divertente. Torniamo seri: l’equivoco sta nel concepire il governo come fine unico di una formazione politica. Io credo che non sia così. Sono convinto che un partito debba rappresentare interessi, organizzare un blocco sociale si sarebbe detto una volta. Arrivare al governo è uno dei modi per farlo, ma non l’unico. Continuo a pensare, ad esempio, che abbia influito di più il Pci stando sempre all’opposizione che i partiti suoi (indegni) eredi che nelle loro ragioni costitutive hanno sempre avuto scritta una vera e propria ossessione per il governo. Ecco, fossi nella testa degli (autonominati) dirigenti della sinistra sparsa, mi porrei questo come compito da svolgere per l’autunno: studiare come si fa a incidere nel paese senza per forza doversi alleare con Alfano e soci. Buon lavoro.

Il nodo gordiano delle elezioni siciliane.
Il pippone del venerdì/24

Set 15, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

 

Insomma il vertice degli autonominati dirigenti di Articolo Uno e Campo progressista c’è stato, hanno faticato a trovare un tavolo tanto grande così da poter permettere a tutti di sedersi, ma alla fine ce l’hanno fatta. Su una cosa si sono trovati tutti d’accordo: non si può rompere per non fare brutta figura. Tutto sta a capire come andare avanti. Cosa, a dire il vero, non proprio chiarissima. La sensazione è che la decisione vera sia quella di prendere tempo.

Ci sarà un grande momento di coinvolgimento popolare in autunno (leggasi dopo le elezioni siciliane del 5 novembre), si legge nel comunicato finale. Per fare cosa non è dato saperlo. Si eleggerà un leader? Si voterà un programma? Chi voterà? Sarà un appuntamento limitato solo agli aderenti di Articolo Uno (Campo progressista non esiste, è una finzione giornalistica) oppure si proverà ad allargarlo agli altri soggetti della sinistra italiana? Si sceglierà il nome? Su tutto questo dai partecipanti al vertice arrivano versioni contrastanti se non opposte.

Secondo punto di ambiguità. Il comunicato parla della “costruzione di un centrosinistra alternativo capace di battere le destre e i populismi e alternativo alle politiche sbagliate del Pd di Renzi”. E questo è il secondo punto di ambiguità. Alternativo al Pd non si può dire, ma almeno alternativo al Pd di Renzi si poteva osare? E invece no, alternativo “alle politiche sbagliate”. E ci mancherebbe altro. Ci siete usciti da quel partito, se manco si prova a criticarne la linea politica… altro che psichiatra. Non è una questione terminologica, ma di fondo. Io resto convinto che il Pd di Renzi sia diventato un partito fondamentalmente di destra, con forti connotati populisti che a tratti diventano addirittura razzisti. Per cui credo che una sinistra che ambisca a recuperare uno spazio importante nel panorama politico italiano non possa che definirsi alternativa. Ma la formulazione scelta va addirittura oltre, fino a spingersi a ipotizzare un’alleanza con Renzi stesso. Ora, sempre secondo me, Renzi è solo la conseguenza ultima dell’errore iniziale (fare il Pd appunto), ma anche a voler essere benevoli, almeno evitare di pensare ad alleanza con quel partito fin quando sarà guidato dal fiorentino si può scrivere? Evidentemente no. L’alleanza con il Pd diventa addirittura imprescindibile nell’interpretazione dei fedelissimi dell’ineffabile avvocato milanese.

Terzo punto di ambiguità. Il rapporto con il governo Gentiloni. Qua la divaricazione appare persino più netta. Da un lato la linea di D’Alema che dice da mesi che bisogna togliere la fiducia, dall’altra Pisapia e Tabacci che di rottura non ne vogliono proprio sentir parlare e parlano di “senso di responsabilità”. Espressione che dovrebbe quanto meno mettere in allarme anche Bersani che ha, diciamo, una certa esperienza di come si perdono le elezioni per eccesso di senso di responsabilità.

Sul rapporto con il governo Gentiloni, insomma, abbiamo raggiunto il massimo del politicismo incomprensibile, quello che allontana gli elettori sani di mente. In pratica: noi vorremmo costruire un centrosinistra alternativo alle politiche messe in campo in questi anni e poi votiamo un governo che di quelle politiche è l’erede e il prosecutore instancabile.

E non basta, facciamo di più: vogliamo “aprire un confronto, senza veti o pregiudizi, con tutti i soggetti politici e civici che condividono” la necessità di un’alternativa. Oggi, in una bella intervista sul Manifesto, il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, dice, in sintesi: carissimi, va bene tutto, non stiamo a discutere sui termini, centrosinistra, sinistra, parliamo di contenuti, ma almeno un voto per prendere le distanze da Gentiloni… un segnale datelo. Difficile dargli torto.

Anche perché in questi mesi, mediamente, i parlamentari di Articolo Uno hanno sempre votato la fiducia, tranne quelli che fanno riferimento a Pisapia che spesso hanno votato contro. Insomma, verrebbe da dire parafrasando un noto e volgarissimo detto romano, parlano di senso di responsabilità, ma con i voti degli altri.

Che poi, lo voglio dire chiaramente, io tutta questa santificazione dell’Ulivo e delle esperienza passate del centrosinistra mica la capisco. A leggere le dichiarazioni di molti sembra che quando c’era l’Ulivo nei fiumi scorresse latte e dagli alberi nascessero pomi di oro massiccio. Io continuo a pensare che in quel periodo abbiamo costruito i presupposti del deserto di oggi. Dal punto di vista sociale. Cedendo all’ideologia berlusconiana della società dell’immagine. Dal punto di vista del lavoro, costruendo le basi per l’attuale sistema precario. Dal punto di vista economico, rinunciando all’intervento pubblico e arrendendoci all’ideologia del libero mercato. Dal punto di vista politico, smantellando il partito di massa per arrivare al vuoto attuale. Ma anche prescindendo dagli aspetti concreti, da quello che davvero si è realizzato in quel periodo, è proprio questa l’unica strada percorribile per costruire una forza alternativa? Segnalo, anche ribadisco, che il risultato ultimo di quel processo è stata la distruzione di una cultura politica nel nostro paese. Quella dei comunisti italiani. Si vuole continuare su quella strada per eliminare anche il poco che resta?

Nel resto d’Europa, dove più o meno si sono fatti errori simili a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, la sinistra ha preso atto della cantonata ed è tornata a fare la sinistra. Rinnovando i partiti tradizionali, come nel caso del Labour in Gran Bretagna, costruendo forme originali e radicalmente alternative come in Spagna, in Grecia o in Francia. Si è tornati a pronunciare la parola socialismo, la usa perfino Sanders negli Stati Uniti. Ma da noi resta una parola proibita.

Si è preferito, per farla breve, un comunicatino stitico per dire che tutto va bene e poi tornare a parlare lingue diverse. Basta leggere le interviste sui giornali. Alternativi al Pd, dice Bersani. Il centrosinistra si fa con il Pd, risponde Luigi Manconi che parla a nome di Campo progressista, ma resta saldamente nel Partito democratico e lo rivendica pure.

Il nodo vero sono le elezioni siciliane. Lì, alla prima prova sul campo, l’alleanza fra Orlando-Tabacci (i due luogotenenti di Pisapia nell’isola) e la sinistra non ha retto. La sinistra, unita, presenta la candidatura di Claudio Fava, Il duo di Campo progressista, malgrado ufficialmente non si schieri, avrà la sua lista a sostegno del candidato di Renzi e Alfano, che del resto è stato indicato dallo stesso sindaco di Palermo. Ora,non sto a cavillare sulle qualità di Fava, sul valore delle elezioni siciliane. Certo, prenderle come test nazionale, viste le specificità dell’isola, potrebbe quanto meno apparire azzardato. Ma al momento rappresentano il vero nodo sulla strada delle elezioni nazionali e degli schieramenti che si presenteranno ai blocchi di partenza. Per due ragioni: intanto è evidente che un risultato positivo di Fava aiuterebbe la creazione di un’alleanza di sinistra, magari anche un qualcosa di più che una semplice lista elettorale. Al tempo stesso, però, una netta sconfitta di Renzi e Alfano potrebbe dare fiato a quanti, nel Partito democratico, vedono nel fiorentino l’incarnazione della sconfitta permanente. Già adesso, a mezza bocca, non sono pochi i dirigenti democratici che evocano la possibilità di una figura meno divisiva come candidato premier. Queste voci diventeranno più forti e riapriranno la partita dopo il 5 novembre? Ho i miei dubbi, ma l’idea di una sconfitta a livello nazionale, nel Lazio e in Lombardia, potrebbe non essere digeribile a chi da sempre dà le carte fra i democratici, Franceschini in primo luogo. E Renzi avrebbe la forza di resistere?

Basta aspettare per capire. Per queste due ragioni, al di là delle schermaglie quotidiane, si muoverà poco nel prossimo mese e mezzo. Io credo, però, che sia sbagliato attendere inerti. Perché c’è il rischio che le elezioni politiche arrivino prima del previsto e perché credo sia un errore grave lasciare che a decidere il nostro futuro sia un appuntamento elettorale parziale, seppur importante. Noi, anche questo l’ho già scritto, abbiamo il dovere di mettere in campo un progetto per il futuro, non lontanissimo magari, ma neanche immediato. Un progetto che si deve confrontare con le urne, non c’è dubbio, ma che non può avere quello come unico traguardo. La sopravvivenza di un piccolo ceto politico non ci interessa.

Ci interessa che una cultura politica importante ritrovi la propria casa e il proprio spazio. Attendere inerti dunque? Io credo che i processi vadano aiutati, magari dal basso. Proviamoci. Proviamo in questo mese a fare dei passi in avanti, a costruire esperienze unitarie nei quartieri, nelle città, nei luoghi di lavoro. E anche in Parlamento con un’iniziativa comune. Sul lavoro. Articolo Uno è nato con questa funzione, quella di fare da cerniera. Nello schema attuale, al contrario, rischia di rimanere in mezzo fra Pisapia e il resto della sinistra. E chi sta in mezzo, si sa, prende schiaffi da una parte e dall’altra. Usciamo dalle ambiguità e andiamo avanti.

Me ne vado in vacanza, non fate danni.
Il pippone del venerdì/22

Ago 4, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Arrivati ai primi di agosto, nella calura dell’estate più calda del secolo, tutto procede per il meglio.

Invece di combattere i moderni trafficanti di schiavi il governo italiano combatte le Ong che salvano i migranti dal mare, tanto fra un po’ non serviranno più, visto che ci prepariamo a pattugliare le coste libiche per ricacciarli all’inferno.
L’occupazione cresce come un soufflé, mai avuto così tante donne al lavoro. Peccato che poi se vai a leggere sono tutti posti precari. E mi piacerebbe anche capire quanti di questi sono lavori a tempo indeterminato a cui sono scaduti i benefici fiscali previsti dal jobs act.

Negli Stati uniti Trump ha licenziato tutto il suo staff e ne ha assunto uno nuovo. Anche quelli sono posti di lavoro in più, con il metodo di calcolo dell’Istat. E aiuta anche la Raggi che, finiti a quanto pare i posti nelle segreterie degli assessorati, pensa di assumere direttamente due nuovi assessori. Due donne, si legge sui giornali, una delle quali crede anche a Babbo Natale e quindi va benissimo per gestire i lavori pubblici a Roma. Argomento che rientra nella letturatura fantasy. Se questi sono gli assessori immagino i loro staff.

La sindaca, in un sussulto di efficientismo estremo, ha perfino varato il piano antincendi per la pineta di Castelfusano. La pattuglierà addirittura l’esercito. Peccato che nel frattempo sia ridotta a una landa desolata di tizzoni ardenti, ma non si può avere tutto.

Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, per non essere da meno, ha risolto l’emergenza idrica che rischiava di assetare i cittadini romani. E’ bastato ritirare l’ordinanza che aveva fatto due settimane prima e tutto è tornato a posto.

Nelle zone devastate dal terremoto di un anno fa i lavori fervono. Ad Amatrice è stata perfino aperta la prima zona commerciale, con tanto di ristoranti. Torneranno i turisti, si dice. A guardare la distesa di macerie.

Per quanto riguarda la politica, Renzi ha superato tutti i record di vendite con il suo nuovo libro. E visto che le elezioni le perde tutte, almeno ha un futuro come scrittore. Pisapia ha fatto pace con Speranza. L’ex sindaco di Milano si è fatto un paio di settimane di ferie, non ha fatto interviste, non ha abbracciato nessuno. Gli italiani sono vissuti benissimo lo stesso. A ottobre nascerà “Insieme”. Insieme a chi non è ancora dato saperlo. Grillo nel frattempo si è rifatto la piattaforma web, subito preda degli hacker. Sul fronte della destra, infine, Berlusconi si è fatto l’ennesimo lifting. Ora tutto è pronto per le elezioni.

La Camera ha perfino approvato una serissima norma che ridimensiona i vitalizi degli ex parlamentari. E che diamine basta con i privilegi della casta. Poi ci sono amministratori delegati che se ne vanno con liquidazione che sono più cospicue del bilancio del Molise, ma quelli producono mica sono parassiti come deputati e senatori. Certo lo Jus soli è stato rinviato a tempi migliori, ma non si può avere tutto. Certo la legge sul fine vita è scomparsa dal radar, ma tanto non sono annunciati altri suicidi assistiti di personaggi famosi. Non sarebbe carino in campagna elettorale.

Insomma, in questa Italia che si prepara a chiudere per ferie, va tutto bene. Non fate i gufi come al solito. Il calcio mercato procede, tra colpi da centinaia di milioni e onesti pedatori che cercano un contratto per allungarsi la carriera di un anno. Non avremo più a quanto pare la tessera del tifoso, si farà lo stadio della Roma, sarà tre volte natale e festa tutto l’anno.

E allora, sapete che c’è? Me ne vado anche io. Verso il mare, verso le pinete della Versilia, verso gli ombrelloni schierati in parata militare. Non fate danni, tra un mese torno e vorrei ritrovare qualcosa.

Allarmi son franzosi.
Il pippone del venerdì/21

Lug 28, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

 

Verrebbe voglia di dedicare l’appuntamento settimanale con il pippone a Pisapia e soci. Agli abbracci impuri dell’ex sindaco di Milano. Ai paradossi di chi sta nel Pd e vorrebbe speigarci come si costruisce una coalizione alternativa al Pd, oppure alla strana sindrome di Tafazzi che spinge Bersani e soci ad andare per sei mesi appresso a uno che non li vuole, oppure ancora a Lerner che si gratta quando D’Alema nomina lo stesso Pisapia. Verrebbe voglia, ma dura solo un attimo, fate conto che l’abbia fatto. Come la penso su Pisapia lo sapete. Elettoralmente conta lo 0,5 per cento e ho detto tutto. Andiamo oltre.

E allora alziamo lo sguardo, perché mentre noi stiamo a litigare sugli abbracci, sul fatto se sia necessaria o meno una forza unitaria di sinistra in Italia, l’idolatrato Macron ci piglia a pesci in faccia. E anche questo ci sta, negli ultimi anni ci siamo abituati a essere sbertucciati dai nostri presunti alleati internazionali. Ha cominciato Berlusconi, Renzi da ottimo allievo si è messo in scia. E adesso avere Alfano come ministro degli Esteri non aiuta di certo. No, non è una battuta, è proprio lui il ministro degli Esteri.

Comunque sia, dalle vicende degli ultimi giorni, la Libia, la crisi sulla proprietà della cantieristica, si possono imparare due cose. La prima è facile facile: quando tu, nel campo della sinistra, hai alcune personalità di livello internazionale, conosciute e apprezzate da tutti, che potrebbero guidare con autorevolezza la diplomazia italiana ma anche quella europea e le rottami per fare posto ad accordicchi di bassa lega e ai tuoi sodali, beh, allora poi non ti stupire se i francesi ti mettono le dita negli occhi.

Non sono un esperto di politica internazionale e quindi non sono in grado di analizzare la situazione in maniera compiuta e approfondita. Mi limito a ricordare, perché di memoria sono ampiamente dotato, che una volta in Medio Oriente eravamo i padroni di casa. Le carte le davamo noi, dal punto di vista politico e questo comportava ovviamente anche un notevole ritorno economico. Ora per entrare dobbiamo chiedere permesso. Certo gli attori sullo scenario internazionale erano gli Andreotti, gli Spadolini, i Craxi (per limitarci alla fine del XX secolo) adesso mettiamo in campo Alfano e Mogherini. Ci piace perdere facile.

L’altro ragionamento, più complesso, ma nel quale provo a muovermi con meno superficialità, riguarda le aziende private e il ruolo del pubblico. Se uno Stato ritiene che un’azienda sia strategica per il suo sviluppo o la sua sicurezza che fa? Beh le risposte sono diverse: se questo Stato è l’Italia le regala a imprenditori privati, preferibilmente stranieri e paga anche i debiti, se invece stiamo parlando della Francia, le nazionalizza. L’Italia dice: il governo non può intervenire, ci mancherebbe altro, ci sono le regole europee, la concorrenza, il libero mercato. La Francia dice: nazionalizziamo, l’Europa tace.

Insomma, secondo le regole europee si può nazionalizzare un’impresa o un settore? Fateci capire bene, non siamo né giuristi né economisti, ma l’anello al naso non lo portiamo più da anni. Noi abbiamo regalato Telecom, rete di comunicazione, Alitalia, trasporto aereo, le acciaierie, il polo chimico, l’Alfa Romeo. Insomma, settori che qualsiasi governante dotato di media intelligenza definirebbe “strategici” sono passati di mano per due lire. E spesso sono stati anche amministrati peggio dai colossi multinazionali che li hanno ereditati o sono stati fatti fallire scientificamente per favorire industrie analoghe in altri Paesi. Ma se si può nazionalizzare e quindi proteggere industrie chiave, anche sostenendole in periodi di crisi, per quale motivo noi abbiamo avuto negli anni passati questa sorta di sacro furore contro il pubblico?

E mica è finita, perché in Italia, e siamo al paradosso, ci sono ampi settori della politica che hanno premuto e premono per far gestire ai privati (meglio se stranieri) anche gli stessi servizi pubblici. Per fermarci a Roma abbiamo messo sul mercato Acea, l’abbiamo trasformata in Spa, pur mantenendo la maggioranza in mano pubblica, per fare cassa. E adesso ci lamentiamo per l’inefficienza aumentata negli anni. La Capitale rischia di rimanere senz’acqua. Non basta: abbiamo addirittura loschi figuri che raccolgono le firme perché vorrebbero privatizzare anche il trasporto pubblico. Per non parlare della sanità dove la maggioranza dei posti letto sono privati. Anzi, a essere puntigliosi sono “accreditati”, ovvero privati pagati dal Servizio sanitario nazionale, dai soldi nostri. Perché i nostri imprenditori sono talmente bravi e coraggiosi che vogliono tutti i guadagni ma non i rischi: non vogliono la concorrenza, vogliono la garanzia.

Se ci pensate bene c’è materia da psichiatri, ma di quelli bravi. Il meccanismo è un po’ questo: c’è un servizio che deve essere garantito dallo Stato, lo peggioro, metto il settore pubblico che lo gestisce in condizione di non funzionare (gli nego i fondi, lo infarcisco di raccomandati, lascio che tutto si sfasci) e poi invoco il santo intervento di imprese private. Che ovviamente costano di più (perché lo Stato non ci deve guadagnare, il privato sì) e spesso non garantiscono neanche un servizio migliore. Perché non avendo come interesse il bene comune, ma il proprio, quando chiedi una prestazione non ti propongono quella più appropriata, ma quella su cui guadagnano di più.

E allora ci sarà una ribellione, immaginerà chi non conosce noi italiani. E invece no. Troviamo qualche azzeccagarbugli che ci dice “l’Europa ci impone la concorrenza, bisogna fare le gare”. Qualche gruppo editoriale sostiene la balla e questa diventa verità assoluta. Poco importa che queste gare non le faccia nessun altro Stato. Noi siamo per il libero mercato. Loro nazionalizzano.

Il caso delle agenzie di stampa è emblematico. Il governo per affidare il servizio ha deciso di fare una gara europea. Un settore che più strategico non si può, quello dell’informazione alle e sulle istituzioni noi rischiamo di affidarlo a un’agenzia francese o inglese. In pratica le notizie sull’Italia al Governo e alle altre amministrazioni le daranno giornalisti di altri Paesi. E gli altri governi ovviamente faranno lo stesso? Manco per niente, sostengono le loro agenzie che danno occupazione ai loro giornalisti. Ma non era un obbligo europeo? Ma quando mai.

Questa ansia privatista ed esterofila è tipica del nostro Paese, tipica del nostro provincialismo, per cui abbiamo un senso di inferiorità innato. Ecco, questo, secondo me, è un bel campo di discussione per la ricostruzione di una sinistra autonoma e alternativa. Il ruolo del pubblico dell’economia deve essere quello di semplice spettatore, oppure deve lo sviluppo deve essere progettato e indirizzato, anche intervenendo direttamente? E quale deve essere il rapporto con gli altri Stati europei? Possiamo finalmente tornare ad avere un rapporto paritario e non essere sudditi? E’ possibile dare a questi temi una risposta che non sia quella di chiusura a riccio della destra populista?

Io credo che sia una delle sfide che dobbiamo raccogliere. Invece di pensare a improbabili leader, alla promozione dei nostri curricula, torniamo a ragionare, a confrontarci, torniamo a pensare il futuro.

La fine dell’era dello streaming: partiti addio?
Il pippone del venerdì/18

Lug 7, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La notizia fa epoca (si fa per dire): dopo dieci anni, la direzione del Pd non va in streaming: niente diretta tv, si passa alle “porte chiuse”. Aveva cominciato Veltroni – grande comunicatore – nel 2008, poi la diretta internet è divenuta lo strumento preferito dei grillini (almeno a parole), adesso Renzi pone fine all’era della trasparenza totale (finta). Il presidente Matteo Orfini, all’inizio della seduta ha addirittura invitato tutti ad evitare di usare i social durante la riunione. Insomma, a leggere gli intenti, nello spazio di pochi giorni il Pd sarebbe tornato a costumi in stile Pc anni ’70. Quando le riunioni erano riservate e il giorno dopo trovavi solo le decisioni assunte e soltanto sulle pagine dell’Unità. Ora l’Unità l’hanno uccisa, quindi il problema non si pone.

E infatti, in realtà, non è andata proprio così: i giornali online hanno pubblicato in tempo reale la relazione di Renzi, gli interventi di Franceschini e Orlando, i commenti e i soliti retroscena. Cuperlo, che non fa più parte della direzione ma è invitato senza diritto di parola ha già annunciato che pubblicherà oggi quello che avrebbe voluto dire. Pare che per l’attesa migliaia e migliaia di iscritti al Pd abbiano passato la notte insonne.

Al di là delle battute, mica si è capita bene la motivazione dell’oscuramento della Direzione. Le telecamere sarebbero un’istigazione al litigio, si dice nei corridoi, eccitano gli animi e aumentano il protagonismo. Di motivazioni ufficiali non ce ne sono. Si paventava un regolamento di conti da duello rusticano tra Renzi e Franceschini. In realtà, Renzi lo ha un po’ preso per il sedere, Franceschini come tutta risposta ha votato a favore della relazione del segretario. Il senso dell’importante documento? “Mi hanno votato alle primarie, ora faccio come mi pare”. Il ministro dei Beni culturali se ne faccia pure una ragione: dovrà lavorare meglio e di più per accoltellare il leader. Dopo Veltroni, Bersani e Letta, del resto oramai è un esperto.

Ora, direte voi, ma che ce ne frega se la direzione del Pd va in streaming oppure no? Davvero poco in realtà, anche perché, come già detto, chi vuole sapere cosa è successo viene ampiamente informato praticamente in diretta dalle solite veline che fanno circolare gli staff.  Una Meli che le virgoletta e te le stampa sul Corriere si trova sempre. A buon mercato, non costano neanche tanto. La diretta streaming, insomma, è roba da addetti ai lavori. Al massimo aiuta quei giornali locali che non si possono permettere un inviato a Roma.

La cosa interessante, però, è il cambiamento direi quasi “di costume” direi che avviene nella politica italiana. I 5 stelle, in questo caso, sono stati i primi assoluti a dismettere lo streaming. Del resto la segretezza, al di là dei proclami ufficiali, è il loro marchio di fabbrica. Segreti sono i meccanismi di votazione, riservatissimi tutti i colloqui, segretissimi i criteri per la scelta di tutte le cariche. Lo streaming lo hanno preteso solo per sbattere in faccia il loro no alla proposta di Bersani dopo le elezioni del 2013. Vollero umiliare l’allora segretario del Pd. Continuo a pensare che un governo Pd-Sel con l’appoggio esterno del M5s (una sorta di riedizione della non-sfiducia dei tempi antichi) avrebbe rappresentato una rivoluzione per il nostro Paese. Ma questa è un’altra storia.

Insomma, la fine della diretta streaming in politica rappresenta davvero la fine di un’epoca. Ma non quella della trasparenza nella vita interna dei partiti, che, se permettete, è una grossa stupidaggine. La data di ieri, cosa davvero più rilevante, rappresenta la fine certificata dell’ultimo partito di massa presente in Italia. Che Renzi avesse da sempre una sorta di “invidia penis” nei confronti di Grillo, Berlusconi e Salvini, questo si sa. Tutti leader che fanno e disfano senza dover fare congressi, primarie, direzioni. Che il segretario del Pd provasse una sorta di fastidio per le forme democratiche di partecipazione lo avevano già intuito gli italiani: tutte le riforme istituzionali tentate dal fiorentino tendono ad eliminare la possibilità per i cittadini di scegliersi i propri rappresentanti.

Nella direzione di ieri ha esplicitato il suo ragionamento: sbagli – ha detto all’ex fedelissimo Franceschini – a esternare le tue critiche sui giornali. Ci sono gli organismi dirigenti di partito per parlare. Parla qui. Tanto non me ne frega nulla perché io rispondo soltanto ai due milioni di cittadini che mi hanno eletto. Insomma, non puoi parlare sui giornali perché danneggi il partito, ti puoi sfogare qui, tanto non ti ascolta nessuno. E attento, caro Dario, perché c’è da fare le liste. Per la cronaca: i due milioni, sono un milione e otto scarsi, e solo il 70 per cento di loro ha votato Renzi. Cambia poco, ma in questo Paese le leggende a forza di essere ripetute diventano realtà, meglio essere pignoli.

Insomma per farla breve, io la vedo così: perché trasmettere in streaming un “non dibattito” in un “non partito”? Il Pd, ormai, è affare interno di casa Renzi, che per caso voi trasmettete in streaming i pranzi di famiglia?  Se ne facciano una ragione quelli che si definiscono “sinistra” o “minoranza” del Pd. Ormai sono soltanto la foglia di fico piazzata lì dallo stesso Renzi per cercare di frenare la vera e propria diaspora che il Partito democratico sta subendo giorno dopo giorno. Centinaia di quadri e dirigenti che se ne tornano a casa. Fogli di fico utile fino a quando non alzano troppo la testa. Perché allora arriva la mannaia. Inesorabile. E del resto, fra un po’ c’è da fare le liste. Meglio starsene buoni, in fondo.

E’ finito il sistema dei partiti. Questa è la verità. La cosa può far felici anche i populisti di tutte le risme, ma la verità è che si produce una grave ferità, perché i partiti rappresentano uno strumento insostituibile di partecipazione alla vita democratica che non può essere limitata al fare una croce su una scheda, dove, tra l’altro, molto è stato già deciso. Questa è la verità e questa è un’emergenza. Perché rappresenta un po’ lo specchio estremo della nostra società. Una società in cui, malgrado l’illusione della comunicazione permanente, si è sempre più isolati, chiusi nel narcisistico isolamento del like sui social, si è sempre più singoli e meno comunità. Per questo è importante non solo ricostruire una forza politica che dia una rappresentanza alla sinistra nel nostro Paese, è importante ricostruire una comunità politica, una casa fatta di un “cielo”, una identità precisa, e una “terra”, una piattaforma di proposte nette e radicali che possano dare un futuro a questa terra stanca. E questo lavoro, non sarà facile, ma è quello che serve davvero non solo alla sinistra, ma al nostro Paese.

Un’ultima notazione, fuori tema, e vi lascio prima del solito, fa caldo e non voglio sterminare i lettori. Regione Lazio: avanza la candidatura del sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, arretra quella di Nicola Zingaretti, tentato da un più comodo seggio in Parlamento. Tempi duri ci attendono, non che questi anni siano stati rose e fiori, tutt’altro. I prossimi, con questi dati di partenza, saranno peggio.

Feste de L’Unità? Cancellate quel nome, non lo meritate

Lug 4, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

La vicenda de L’Unità ha dei contorni scandalosi. Andiamo con ordine per capire cosa è successo negli ultimi anni. Il Pd lo appalta a un gruppo imprenditoriale, mantenendo una quota del 20 per cento e il diritto di indicare il direttore. Il risultato è un giornale quasi illeggibile. Un bollettino renziano, con punte di assurdità mai raggiunte prima: la rubrica quotidiana per descrivere le presunte malefatte di un altro quotidiano è una vera e propria bestialità non solo per quello che l’autore ogni giorno ci propina, ma per la natura stessa dell’operazione. Che senso ha un quotidiano che invece di raccontare la realtà spiega cosa scrive la concorrenza? La faccio breve: morale della favola, un giornale così scritto non vende una copia, entra a malapena nelle rassegne stampa. I redattori chiedono più volte un progetto editoriale serio, con gli investimenti  necessari a far tornare una testata gloriosa ad essere un giornale vero.

Nulla di tutto ciò. L’editore, nel silenzio del Pd, non paga lo stampatore, non paga gli stipendi ai giornalisti. Il giornale sospende le pubblicazioni e i redattori restano in un limbo assurdo, nel silenzio quasi totale: senza stipendio, ma anche senza cassa integrazione o indennità di disoccupazione.

Fine dei danni? Neanche un po’. Perché nel frattempo, annunciato come il nuovo giornale del Pd, arriva “Democratica” un foglio digitale di pessima fattura, diretto dall’ex condirettore de L’Unità, un oscuro parlamentare ex montiano. E viene pubblicato, se non fosse abbastanza, sul sito de L’Unità stessa, che era rimasto, per un gioco schifoso di proprietà del Pd e aveva una redazione autonoma.

Insomma, si chiude un giornale glorioso, si lasciano i giornalisti a bagno. E si utilizza il sito per lanciare un nuovo giornale. In altri tempi la Fnsi (il sindacato unitario dei giornalisti) avrebbe preteso (non chiesto), quanto meno, che nel nuovo quotidiano fossero assorbiti, almeno in parte, i giornalisti ex Unità. In altri tempi i colleghi di Democratica si sarebbero rifiutati di dar vita a un’operazione così squallida. Tant’è, ognuno fa i conti con la proprio coscienza. Io da ragazzo quelli così li chiamavo crumiri e mi facevano anche un po’ schifo.

Una cosa però è davvero insopportabile: il Pd, come niente fosse continua a organizzare in tutta Italia feste de L’Unità. Cioè feste intitolate allo stesso giornale che hanno violentato e ucciso. E questo lo trovo davvero incredibile. La decenza è stata superata da tempo, ormai siamo oltre. Di tanto.

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