Il pippone del venerdì /16.
Salvate il soldato D’Alema
D’Alema di’ qualcosa, D’Alema di’ una cosa di sinistra. Ve lo ricordate Aprile? Quella frase che poi è diventata un tormentone? Beh, che dire, Moretti sarebbe stato contento. Perché di cose di sinistra, ieri, D’Alema ne ha dette tante. Ci voleva un caldo pomeriggio di fine giugno una iniziativa semiclandestina organizzata da un’associazione cattolica, nel centro di Roma. Si parla di povertà e diseguaglianze sociali, con religiosi, studiosi, politici. Uno strano parterre. Niente giornalisti, niente assillo della quotidianità. E un D’Alema assoluto mattatore. Quindici, venti minuti. E ti racconta il mondo. Le diseguaglianze, la finanza come generatore di ricchezza fuori da ogni forma di controllo sociale. Il ritrarsi delle masse degli esclusi dal protagonismo sociale e politico. La povertà viene sezionata: fenomeno economico, ma anche sociale. Si sentono le vite di scarto di Bauman che aleggiano nella sala. Ci sono Stiglitz e gli economisti francesi quando D’Alema parla della necessità di una tax autority internazionale per sottoporre a un nuovo controllo sociale le ricchezze che ormai hanno una dimensione non più nazionale.
Ma c’è anche tanta sinistra e tanta innovazione nell’analisi finale del. Due cose da fare per combattere la diseguaglianza: recuperare la funzione degli Stati, una dimensione pubblica di intervento e al tempo stesso favorire un nuovo stato sociale, un nuovo sistema di protezione, che veda protagoniste le persone e le comunità locali.
“C’è una tema enorme di fronte a noi – racconta chiudendo la sua relazione – nei prossimi anni, l’automazione crescente porterà alla perdita di milioni di posti di lavoro. L’Europa non può permetterselo. Che fare?” La risposta è di quelle che non ti aspetti da chi, qualche anno fa, era un alfiere della terza via e di Tony Blair. “Serve un taglio drastico dell’orario di lavoro a parità di salario. Se diminuisce il tempo di lavoro necessario – come lo definiva Marx – o calano gli occupati o si tagliano le ore e quelle ore devono essere messe a disposizione della comunità”. Occhio che in questa frase c’è tutto un programma politico. C’è la piena occupazione, c’è il tema del tempo del non lavoro, c’è il tema di un nuovo umanesimo che deve permeare la sinistra. C’è la convergenza, questa volta sui fatti non nella fusione di gruppi dirigenti, della cultura cattolica e di quella marxiana. C’è la liberazione dallo sfruttamento della catena di montaggio per arrivare a una concezione del lavoro che diventa, almeno in parte, una sorta di servizio civile permanente.
Ora, facciamo un salto, io non sono mai stato dalemiano. A Roma era infestato da una pletora di cortigiani che hanno approfittato del prestigio e del potere che quel nome portava con sé per creare una corrente che si muoveva con grande agilità in un intreccio grigio di politica e affari. Tutto (o quasi) lecito, per carità, ma meglio tenersi ben lontani da quelli che all’epoca chiamavamo “Talebani” o “Dalebani” che dir si voglia. Quando il potere è finito i dalemiani doc sono diventati renziani al mille per cento. Tutti, nessuno escluso. Dai Minniti, Latorre, Velardi, Rondolino fino al ragazzo di bottega, quel Matteo Orfini passato con un triplo salto carpiato dall’oscura segreteria di una sezione dei Ds di Roma a fare il capo corrente prima e il presidente del primo (o secondo) partito italiano. Tutti Talebani doc. Tutti pronti a ridere alle battute del capo, tutti pronti a correre al minimo battito di ciglia, anzi al minimo arricciarsi del baffo.
Insomma D’Alema, diciamolo, non ha avuto un gran fiuto nel selezionare i suoi collaboratori. Gente passata dal nulla a grandi quote di potere che adesso manco lo saluta se lo incontra per strada. E di errori, in generale, ne ha fatti davvero tanti. Li elenca lui stesso, anche perché non ama che lo facciano gli altri. L’esperienza di governo, quella passione per il new labour di Blair. Io ci metto anche una dimensione politica troppo legata alla contingenza del momento e poco tesa alla prospettiva, all’analisi.
Per questo dico che oggi sta vivendo una sorta di seconda giovinezza. Nel 2012 decide (lo fa da solo, non viene rottamato da Renzi come ripetono i costruttori di leggende prezzolati) di non ricandidarsi in Parlamento. Si dedica allo studio, alla sua fondazione, agli esteri. Nella lotta politica quotidiana appare poco. Fa la sua parte di militante, come ama definirsi, ma lo fa con un distacco quasi snob. Sono quasi cinque anni. Un’eternità. Poi ricompare impetuoso: il No al referendum del 4 dicembre, un ruolo importante nella scissione del Pd. Dice cose di sinistra, torna a essere “il Migliore”, l’erede ultimo di quella tradizione togliattiana che ha saputo essere egemone nella cultura politica italiana dal dopoguerra agli anni ‘90.
E subito riparte la caccia al D’Alema. C’è un accanimento decennale nei suoi confronti. Neanche il suo distacco dalla quotidianità lo ha cancellato. Erano solo in “sonno”. Pronti a ripartire. E gli ritirano fuori i presunti complotti contro Prodi, la Bicamerale, il patto della crostata, le bombe “illegittime” su Belgrado. Poi ripartiranno i dossier: dalle barche, al golfino, alle scarpe, al vino. La stagione di caccia è riaperta. Perché il Baffo è tornato. Non importa che non ricopra cariche. Non importa che non sia in Parlamento. Non importa che emani una naturale antipatia per quel suo essere volutamente scostante. Perfino quando dice “sono diventato buono”, ha una voce tagliente. E’ diventato nuovamente il nemico da abbattere numero uno. Ecco allora che parte la vendetta politica per cui in mezza Europa si lavora per toglierli la carica di presidente delle fondazioni del Pse. Ecco che si scatenano i giornalisti da cortile in fantastici retroscena in cui si raccontano – fonti certe ci mancherebbe altro – di dissidi continui con Bersani che starebbe manovrando per non riportarlo in Parlamento.
Ci si mettono anche quelli della sinistra cosiddetta radicale che quando sentono parlare di D’Alema usano perfino le parole di Renzi per attaccarlo. Tutti d’accordo.
Ora, io che dalemiano non lo sono mai stato, questo grido d’allarme posso lanciarlo senza tema di essere tacciato di cortigianeria. La mia stima è testimoniata dalla foto che apre questo pippone. Mi feci tutta la grande manifestazione del Circo Massimo con quel cartello al collo: “Liberate Baffino dai Talebani”. Un successone, devo dire. Ma una foto che testimonia anche la mia distanza. Eppure, ragazzi, ora che è libero, ci serve come il pane. Perché, sia pur senza cariche, è l’unico leader rimasto alla sinistra italiana. Abbiamo tanti dirigenti capaci, da Bersani, a Rossi, a Speranza, a Fratoianni, a Civati, alle new entry Falcone e Montanari. Abbiamo giovani che scalpitano e ai quali bisogna lasciare spazio. Ma di leader a tutto campo non ne abbiamo. Gli anni, le sconfitte, gli imporranno anche un ruolo di seconda fila. Di padre nobile, per così dire. Ma non ne abbiamo altri con la sua capacità di analisi, coraggiosa e ritrovata. Ci serve la sua passione, la sua volontà di unire, la sua capacità di immaginare una nuova sinistra, alternativa al Pd, perno di un altrettanto nuovo centrosinistra.
In questi mesi la navigazione non è stata facile, per usare una metaforica marinara che ci sta tutta. La barchetta sulla quale siamo saliti traballa parecchio. E i prossimi mesi saranno ancora più complicati. Mi chiedo però cosa sarebbe successo se non ci fosse stata l’iniziativa costante del soldato D’Alema. Quel pungolo, quell’assillo unitario che lo ha riportato in campo. D’Alema si deve o meno ricandidare? Si facciano le primarie che ha chiesto lui stessi a gran voce (primarie della sinistra, non del Pd, sia chiaro). E’ bene che i politici tornino a misurarsi con la ricerca del consenso. Nei mercati e nelle piazze. Che sia un oscuro comitato di garanti a decidere le nostre candidature mi sembra un’idea ottocentesca, lo dico sinceramente. Bene liste costruite nei territori, bene che siano liste giovani. Ma senza polli da allevamento.
Il soldato D’Alema ci serve, cari compagni. Non ha bisogno di essere salvato, si potrebbe dire, ci pensa bene da solo. Ecco, lo so, ma io credo, che ricordarci tutti l’importanza della solidarietà fra di noi sia di per sé un passo in avanti nella ricostruzione non tanto della sinistra, ma di quella comunità politica che negli anni abbiamo perso.
Per cui, senza esitazioni: guai a chi tocca il soldato D’Alema.
Lettera aperta alla Sinistra
Edizione straordinaria del “pippone”
Scena prima, una strada di Roma, giugno, volantinaggio di Articolo Uno.
Passante: “Ma che è?”
Militante: “E il nuovo movimento della sinistra, con Bersani, Speranza, D’Alema”.
Passante: “Bravi, ce l’hanno fatta a lasciare Renzi. Però mica farete un altro partito. Dovete stare tutti insieme, sennò io me ne rimango a casa”.
Militante: “Hai ragione pure tu, ma insieme con il Pd? Con Renzi?”
Sguardo truce del passante: “Ma de che? Insieme sì, ma la sinistra”.
Scena seconda, sfoglio dell’organo di stampa di un grande gruppo editoriale.
“Pisapia: no alla sinistra rancorosa. Tutti insieme, ma serve il centrosinistra, non un partito di testimonianza, dobbiamo puntare al governo. Con quelli del 18 giugno abbiamo un’altra visione”.
“Il primo luglio nasce Insieme, appuntamento a Roma. Prodi non ci sarà, ma in futuro potrebbe arrivare la sua benedizione. Letta non ci sarà ma si sente vicino. Cuperlo tentato. Sul palco Boldrini, Bersani e Pisapia. Obiettivo: dividere Bersani da D’Alema. Prodi incontra Renzi: farò da collante”.
Scena terza, dibattito sui social.
Militante di Sinistra italiana: “Eh no però, con chi ha votato Sì al referendum non ci voglio stare insieme. E poi D’Alema ha bombardato Belgrado. E Bersani che vuol dire che lui è liberale?”
Militante di uno dei partiti comunisti: “Ah, ma noi siamo comunisti, non ci interessano le istituzioni, siamo per la lotta nel lungo periodo”.
Militante di Articolo Uno: “Ma noi siamo per unire la sinistra, ma contro l’accozzaglia. Vi sento un po’ rancorosi oggi. E poi voi non siete neanche un prefisso telefonico”.
Sostenitore di Pisapia: “Bisogna tornare allo spirito dell’Ulivo, ma mica rivorrete fare l’Unione. E poi con il Pd, ma senza Renzi, bisogna dialogare”.
Insomma, qua non abbiamo capito nulla. Non abbiamo capito il grido del passante, a cui l’idea di un ritorno in campo di una sinistra piace anche, ma che nel guazzabuglio di gruppetti dirigenti, nei giochetti parlamentari non ci si ritrova proprio. Non vi capisce, cari presunti leader della sinistra. Non capisce cosa vi divide. E soprattutto, le elezioni amministrative ne sono l’ennesima riprova: non vi vota. Ritorna in campo solo quando vi presentate insieme e lo fate con un progetto radicato nella città e credibile. Alternativo e autonomo. E allora? Nel mio piccolo ci provo, con questa mia lettera-appello. Copiatela, condividetela, scrivetene una vostra, ma diamoci tutti (tutti tutti) da fare.
Lettera aperta alla Sinistra
Cara Sinistra,
da ragazzo, appeso davanti al mio letto, avevo un grande poster. C’era un Pasolini in bianco e nero, con accanto la sua poesia secondo me più bella: “Alla bandiera rossa”. Parla di una bandiera che era stata la speranza di milioni di persone e si sta sbiadendo, sta diventando un ricordo. Il poeta non era uno di quelli che te la mandava a dire, la conseguenza era drammatica, le parole impietose: “Chi era coperto di croste è coperto di piaghe, il bracciante diventa mendicante, il napoletano calabrese, il calabrese africano, l’analfabeta una bufala o un cane”. Quando guardavo quel poster, quando leggevo quelle parole, mi venivano sempre le lacrime agli occhi. Un po’ perché era un regalo di mia madre. Un po’ per quelle parole, violente, di Pasolini. Ecco, cara Sinistra, tu oggi sei come quella bandiera rossa.
Ti sei sbiadita dietro i giochi in Parlamento, ti sei nascosta nei retroscena dei giornali. Ti perdi ogni giorno di più nelle divisioni, nella frantumazione, nelle votazioni “tattiche” alla Camera e al Senato. E mentre tu ti sei persa, gli altri, le destre, mica stanno a aspettare. Siamo il paese con più diseguaglianze d’Europa. Fra lo stipendio di un manager e quello della sua segretaria passano vite intere. Dodici milioni di cittadini non si curano più. Non hanno i soldi e lo Stato pensa a dare i buoni ai figli dei ricchi. Invece di diminuire le tasse ai poveracci, cara Sinistra, chi governa in tuo nome, le ha diminuite ai padroni, non gli tassa neanche i villoni, quelli con la recinzione alta due metri, messa lì perché non si possa neanche vedere quello che c’è dentro.
Cara Sinistra, ti sei persa fra le righe dei comunicati stampa, dietro al dialogo via tuitte. In quei 140 caratteri maledetti che non ti fanno pensare. In quella gara a chi fa la battuta più fica, non ti abbiamo più ritrovato. Ti sei persa perché ai cancelli delle fabbriche non ti sei fatta più vedere. Ormai ci va soltanto, pensa un po’, Papa Francesco. Sei prigioniera nei gruppi parlamentari. Ti sei persa da quando non solo non vieni più ad ascoltare i compagni e i cittadini, ma pretendi pure di insegnar loro come devono vivere.
Cara Sinistra, io te lo dico con grande affetto: ci hai un po’ rotto le palle a tutti. Noi siamo quelli che ci sono sempre, che stanno alle cucine alle feste, che fanno i rappresentanti di lista estate e inverno, che riempiono le sale quando arriva il deputato. Quelli che votano, cercano le preferenze, si sgolano per strada e si prendono i pesci in faccia per te. Quelli che si incazzano, discutono, Quelli che ci hanno sempre creduto e sono sempre stati iscritti al Partito. Con la P maiuscola.
Ecco, proprio voi, cari militanti ignoti della Sinistra dispersa: qua ci stanno mandando a sbattere, gruppi dirigenti senza popolo, leoni da tastiera che non alzano la faccia dal computer. Serve una ribellione unitaria. E nel mio piccolo ci provo. Con questa lettera-appello, rivolta alla Sinistra ma ancora di più a voi. Ribellatevi, ribelliamoci. Inondiamo di mail i nostri parlamentari, facciamoci sentire ogni volta che convocano un’iniziativa, ma, ancora di più, facciamola da soli, la sinistra. Telefoniamoci, messaggiamoci, fissiamo incontri tra noi, militanti ignoti frantumati per motivi ancor più ignoti. Convochiamo noi assemblee (caseggiato per caseggiato) con un solo slogan: Unità. E invitiamo i parlamentari, i dirigenti, li facciamo sedere in platea e li costringiamo, per una volta, ad ascoltare noi. E se ancora non capiscono prendiamoli e chiudiamoli in una stanza.
Cara Sinistra, insomma, non servono le cose complicate. Nome: La Sinistra. Simbolo: Una stella rossa, una sola mi raccomando. Un bel cerchio, con un altro slogan: Uguaglianza è democrazia. No, cara Sinistra, non è uno sbaglio. Volevo proprio usare il verbo essere. L’accento è giusto. Perché la democrazia, se il tuo padrone guadagna mille volte più di te è una presa in giro. Senza uguaglianza le libertà democratiche sono una chimera. Cara Sinistra, chiama un grafico bravo, fatti fare un simbolo chiaro, di quelli che sulla scheda si vedono bene Il partito unico? Lascia perdere, cara Sinistra: siamo un arcipelago, costruiamo intanto una rete. Non una piramide, hai capito bene: una rete. Fatta da tutti i partiti e i movimenti esistenti, dalle liste civiche, dalle associazioni, dai singoli militanti ignoti.
Cara Sinistra, parla anche con i sindacati e spiegagli che si devono dare una mossa anche loro, perché hanno cominciato con l’articolo 18 e la “Buona scuola”, ma mica hanno finito. Non fate i buoni, neanche voi. Scendete in campo, aiutateci, non pensate che la contesa politica sia altra cosa, che non vi riguardi.
Insomma, cara Sinistra, non perdere altro tempo, torna nelle piazze, torna dalla parte del torto, con i migranti, con i pezzenti, torna a fare la Sinistra.
Come diceva Pasolini, cara Sinistra “ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.
Il pippone del venerdì/13
La sinistra, breve storia (triste) di un suicidio di massa
Punto primo: la sinistra vince, o meglio resiste, quando fa la sinistra. Perde quando si sposta al centro e sposa i vari liberismi, magari tentando di mitigarne gli aspetti più estremi. Succede in tutto il mondo.
Punto secondo: il centro, in politica, non esiste. E’ una finzione che ci siamo inventati in Italia, in tutto il mondo i partiti si schierano sull’asse progressisti/conservatori. Possono essere più o meno orientati verso uno dei poli, ma un partito neutrale rispetto a questa contrapposizione non esiste in natura. E anche quando qualche movimento politico proclama la sua neutralità è solo per mascherarsi.
Il ragionamento sarebbe ovviamente più complesso e articolato. La contrapposizione progressisti/conservatori appare a volte più o meno netta. I fattori che entrano in gioco vanno spesso oltre la contrapposizione di classe dell’800. Anche se, lo dico per onestà, io trovo che capitalisti contro proletari, in fondo in fondo, funzioni bene anche adesso, se ampliamo l’orizzonte a livello mondiale. Al netto delle semplificazioni, che ammetto, io credo che queste coordinate siano vere, questi due punti fermi rappresentino bene la situazione politica. Tranne che in Italia. Paese nel quale c’è ancora il fattore k.
Riassumiamo brevemente, non me vorrete per la rozzezza dl racconto. Nel dopoguerra in Italia si crea una situazione del tutto originale, rispetto al resto dell’Europa occidentale: c’è un blocco moderato, conservatore, che ha il suo fulcro nella Democrazia cristiana, non c’è un blocco progressista che possa competere per la conquista del potere, perché la sinistra è rappresentata essenzialmente dal Pci, partito che arriverà nelle stagioni migliori a due milioni di iscritti e al 34 per cento dei voti. Una forza considerevole, ma non spendibile per il governo. Perché l’Italia, nella spartizione del mondo fra Usa e Urss che avviene dopo la seconda guerra mondiale, fa parte dell’occidente. E, malgrado l’evoluzione democratica avviata da Togliatti e conclusa da Berlinguer, resta la pregiudiziale: il Pci può amministrare Comuni e Regioni ma non può partecipare al governo del paese. Lo chiamano fattore K. E quando con Moro si profila una convergenza fra Dc e Pci, il famoso compromesso storico, ecco che il dirigente democristiano viene rapito dalle Brigate rosse e ucciso. Un rapimento dietro il quale c’è chiaramente la mano dei servizi segreti. Non solo italiani.
E allora che succede? Quale è il senso di questa storia? Complice il fattore K, in Italia ci siamo inventati il centro: la Democrazia cristiana da partito conservatore diventa un grande contenitore in cui sono presenti sia la destra che la sinistra. E tutto ruota intorno alla balena bianca: si allea con le forze moderate, poi si apre ai socialisti che si allontano dal Pci. Quando servono ci sono i voti del Msi, la destra fascista, voti in frigo, ma a disposizione. Una grande ammucchiata. La sinistra comunista, un terzo del Paese è bene ricordarlo ancora una volta, resta esclusa. Fino a tangentopoli. Siamo all’inizio degli anni ’90. Il Pci, finita l’Unione sovietica, ha cambiato nome, crollano gli altri partiti tradizionali. Sembra arrivato il momento per avere un governo progressista. E invece che succede? Salta fuori Berlusconi, aggrega la destra, parte della vecchia Dc e del Psi, tira fuori dal frigo il Msi, diventato nel frattempo An, e rimanda i nipotini di Togliatti all’opposizione. Servirà Romano Prodi, un ex democristiano per portare i progressisti al governo. Insomma, il fattore K passa dall’essere elemento di esclusione totale a elemento di “necessità di tutela”: potete governare ma non troppo, vi controlliamo comunque noi. Perfino quando un ex comunista diventa presidente del Consiglio, succede con Massimo D’Alema dopo la caduta di Prodi in Parlamento, la gestione del potere, la stanza dei bottoni vera, ha un forte ancoraggio occidentale. Il suo governo tira avanti grazie alle truppe di Francesco Cossiga, l’ex presidente della Repubblica regista di gran parte delle trame anticomuniste dei tempi della guerra fredda. E D’Alema per dimostrare la sua fedeltà all’occidente, dovrà perfino far partire i bombardieri contro la ex Jugoslavia. Una sorta di sindrome dell’ultimo arrivato che deve dimostrare al gruppo quanto è fico.
E che si fa? La sinistra, per risultare ancora più digeribile al potere economico in Italia, si annacqua ulteriormente: nasce il Partito democratico. Lo guida il meno comunista degli ex comunisti, Walter Veltroni. E manco così va bene. Ci prova Pierluigi Bersani, esponente della sinistra del fare, ex presidente dell’Emilia Romagna. Insomma, uno che vuole aiutare l’economia capitalista, non trasformare l’Italia in un paese socialista. E niente, non va bene neanche lui. Quando la vittoria sembra a un passo gli piazzano Mario Monti, presidente del Consiglio di un governo chiamato a salvare il paese dall’emergenza economica. E gli dicono: lo devi sostenere, altrimenti l’Italia va verso la bancarotta. Probabilmente non è vero, malgrado la cura liberista siamo ancora un paese troppo importante economicamente. Ma il Pd ci crede. Più di un anno di agonia. Non sto a fare l’elenco, perché i provvedimenti decisi dai tecnici sembrano la trama di un film dell’orrore. Tutti sappiamo come è finita, la vittoria non vittoria, i 101 contro Prodi, le dimissioni di Bersani, le nuove primarie.
Qui si chiude il cerchio della storia del dopoguerra. Renzi, giovane virgulto democristiano con entrature importanti in ambienti finanziari e in oscure lobby, diventa il “capo” degli ex comunisti. E cosa ti fa fin dal primo giorno di lavoro? Lavora per farli estinguere. Questa è la famosa rottamazione, altro che storie: non il pensionamento di uno o due leader politici consunti dagli anni, ma la rottamazione di un’intera cultura politica italiana, la cultura comunista italiana che ha continuato, in varie forme a essere cervello e gambe della sinistra nel nostro paese. Lo fa, o almeno prova a farlo, perché la trova nel momento più basso della sua storia. I dirigenti sono consumati dalle sconfitte, sotto di loro c’è una classe di giovani rampanti che, il giorno dopo l’elezione di Renzi, provano già a salire sul carro del vincitore. E il ragazzotto fiorentino, magnanimo, li accoglie, ma lascia loro i posti più scomodi e marginali, non entrano mai nella vera stanza dei bottoni. In cambio pretende fedeltà assoluta. Una roba che neanche negli anni in cui il centralismo democratico era regola assoluta per la vita del Pci. Perché lì almeno si discuteva prima di decidere. Adesso il leader decide e hai una sola opzione: dire di sì. Chi contesta, educatamente, diventa gufo, rosicone, parruccone, rema contro. Succede all’interno del partito, succede con i giudici che bocciano le leggi del governo, succede con i – rari – intellettuali che provano a gridare che “il re è nudo”.
Il resto è storia di oggi. Una parte, piccola o grande si vedrà, di quella tradizione, di quella cultura comunista italiana, prova a rialzare la testa, se ne va dal Pd e dice: “Ragazzi, si riparte”. E scatta subito il fattore K. Questa volta assume le sembianze di un timido avvocato milanese, un esponente della cosiddetta borghesia illuminata che si autonoma leader federatore, prende le redini della baracca e dice: bisogna rifare il centrosinistra. Anzi più che dice, pigola. Perché fra un tentennamento e l’altro questo Pisapia sembra più un pulcino spaventato – il pulcino Pisapio appunto – che un capo politico. Ma al di là delle battute, quello che vorrei provare a spiegare è l’errore di fondo su cui si basa questa operazione, alla quale, a quanto pare, tutti stanno accodandosi in buon ordine.
Immaginatevi questa scena: per vent’anni vi danno da mangiare biscotti con olio di palma. Poi a un certo punto si scopre che l’olio di palma fa male. Lo eliminano dai biscotti e lo sostituiscono con il burro di palma. Non è che fa male anche quello no?
Insomma, provo a dirla semplicemente, da qualche anno oramai mi sono fatto questa convinzione: non è che il progetto originario del Pd è fallito. Era proprio questo il progetto originario, ovvero rendere inoffensiva una famiglia politica, una cultura che tanto aveva rappresentato nella storia del ‘900. E la cura qual è? Ne facciamo un altro, ma più piccolo. Invece di Franceschini ci mettiamo Tabacci che almeno è simpatico. Guardate che se la raccontiamo a un cittadino di un altro stato ci prende per matti. Non è che gli altri lavorano per farci scomparire, non è il destino cinico è baro: stiamo facendo tutto da soli. Siamo noi che lavoriamo alla nostra scomparsa. Ora, io passo per essere realista. E dunque, prima di tutto bisogna pensare alla sopravvivenza. Va bene tutto. E quindi Pisapia, che uso come personificazione di una sinistra moderata, può essere parte di un progetto in due fasi: a) sopravviviamo alle elezioni; b) abbiamo cinque anni di tempo per riorganizzare la sinistra. Ma non può essere che per far ripartire la sinistra ci facciamo scegliere il capo da qualche gruppo editoriale italiano al quale non siamo mai stati particolarmente simpatici.
Dunque, che fare? A me convince molto lo schema indicato da D’Alema, non a caso indicato come il cattivo da abbattere: si parta da assemblee quartiere per quartiere, sui programmi, per ritrovarsi, per ricostituire una comunità politica che altri hanno diviso. Poi si facciano le primarie per scegliere i candidati alle Camere (che altrimenti saranno tutti nominati, con la legge elettorale che stanno discutendo in parlamento) e soprattutto per scegliere il leader di questa alleanza. Di sinistra, di centrosinistra… ha ragione chi sostiene di essere stanco di nominalismi. Io sarei anche per evitare di indicare un leader unico, sarei per dare la sensazione di una squadra ampia e rinnovata, ma dicono all’epoca della comunicazione sfrenata ci serve. Magari non lo lasciamo solo. Mettiamoci i contenuti, mettiamoci facce nuove. Di gente che viene dalla vita reale, non dai salotti. Il tempo dei polli di allevamento è finito.
Il pippone del venerdì/7.
Sinistra, c’è una luce in fondo al tunnel (?)
Sala in centro di Roma, arrivo presto e conto le sedie. Circa 300. Non una folla, ma neanche poche. Quando entra Bersani si riempie in un attimo, restano una cinquantina di persone in piedi. Descrizione del pubblico: molti over 50, una quindicina di ragazzi estremamente giovani (diciamo sui vent’anni a occhio), una robusta presenza di quarantenni. Uno spaccato della società italiana, con tendenza alla prevalenza degli anziani.
E’ la “prima” di Articolo Uno a Roma. Il movimento che vuole ricostruire un nuovo centrosinistra in Italia, dopo un lungo peregrinare in giro per l’Italia arriva anche qui. E già il fatto di non partire da Roma è significativo. Incontro con Bersani, recita la locandina.
In realtà l’ex segretario del Pd concluderà soltanto un pomeriggio con interventi di professionisti, lavoratori, esponenti del mondo sindacale e del terzo settore. Si parte dall’ascolto. La platea, a occhio mi sembra un curioso mix di quadri di partito, dirigenti politici locali e intellettuali. Capita così di vedere seduti fianco a fianco Roberto Zaccaria, ex presidente Rai poi parlamentare di Margherita e Pd, e il segretario di un circolo Pd della periferia romana. Mancano, sempre a occhio, i militanti di base. Il livello si ferma ai quadri di partito. Il “popolo della sinistra”? Bersani risponderà che va riconquistato. E proverà a dire anche come, con quali parole d’ordine.
Prima notazione politica: avevo in testa il Bersani stanco della campagna elettorale del 2013, poi quello “sballottato” dalle vicende successive alle elezioni. Non l’avevo più sentito da allora, se non in dichiarazioni di pochi secondi. L’ho trovato differente. Meno metafore, non manca la concretezza emiliana ma viene meno banalizzata in immagini, questa volta. Più analitico. Parla più di un’ora e – per usare una metafora – ti mette le mutande al mondo. Poi forse restano un po’ strettine, per come la vedo io. Ma era da tempo che non ascoltavo un ragionamento così. Analisi, racconto, soluzioni. Mi dirà un collega, giornalista e compagno: “Guarda che quelli delle agenzie di stampa hanno preso il primo appunto dopo cinquanta minuti di intervento, quando ha nominato Renzi”. E’ la maledizione di esce dal Pd: per il mondo dell’informazione conta solo la contrapposizione al leader democratico. E poi Bersani non è tipo da 140 caratteri. Ma ci serve un tipo da 140 caratteri? Basta questo? Io non credo, non vorrei un altro partito del leader.
Seconda notazione politica: l’ex segretario del Pd capisce, lo dice chiaramente, di essere un reduce: fa un po’ lo stesso ragionamento di D’Alema. Noi ci siamo per dare solidità a questa nuova avventura. Ma non guardate a noi come ai futuri leader. Chiede – a se stesso e a tutti – un atto di generosità: siamo a disposizione, ma bisogna fare spazio. Mettiamo dunque al bando – questo il ragionamento – tatticismi e personalismi, non siamo un partito, ma un movimento, disposto a confrontarsi, nel merito, con tutti quelli che ci stanno. “E il rapporto con il Pd? – si chiede retoricamente Bersani – Costruiamolo noi il nuovo centrosinistra, poi sarà il Pd a dover decidere cosa fare”. Mi sembra convincente: un movimento, un raggruppamento di forze culturalmente autonomo che si pone l’obiettivo, non l’ossessione, del governo. Poi le alleanze verranno.
Terza e ultima notazione politica: nel suo intervento Bersani ha criticato duramente la globalizzazione e l’atteggiamento di quella sinistra che ha fatto spallucce continuando a proporre ricette di destra. “Ora – si chiede ancora retoricamente – arriverà il conto di questi anni in cui si è detto che tutto andava bene e il tema vero è: chi lo paga? Io avevo provato a dirlo nella campagna del 2013, forse non sono stato capito. Ma per me resta questo il discrimine fondamentale. Paghi chi ha di più”. Per chi è ossessionato dalle “cose di sinistra” questa è una. Bella chiara.
E ora vediamo ai punti dolenti. Non entro nella polemica di chi dice “eh ma che ve ne siete accorti adesso?”. Ci sarà stato anche qualcuno più bravo che ci era arrivato prima, senza dubbio, ma non ha lasciato grandi tracce della sua esistenza. Mi ci metto anche io, nel mio piccolo. Quello che mi interessa è l’aver finalmente capito la fase che sta vivendo il mondo, capito i problemi e capito quali sono stati gli errori della sinistra a livello mondiale. Non la faccio tanto lunga: “Mentre la destra – ha argomentato Bersani – ha cambiato radicalmente la sua ricetta passando dal liberismo sfrenato di Reagan e della Thatcher al sovranismo e al protezionismo di oggi, noi non abbiamo capito il cambio di fase”. E quindi la crisi della cosiddetta globalizzazione porta alla luce anche gli errori del passato, quando la sinistra ha vinto in tutto il mondo proponendo soltanto un modello un po’ più umano. Adesso invece spuntano fuori quelle che l’esponente di Articolo Uno chiama le spine: finanza senza controlli, diseguaglianze diffuse, attacco ai diritti, umiliazione del lavoro. Fin qui tutto bene, la parte che mi sembra debole nel ragionamento di Bersani è quella delle soluzioni al problema. Posto che la risposta che abbiamo dato fin qui, almeno in Italia, ovvero sostanzialmente assistere inerti alla deindustrializzazione del nostro paese, è del tutto inadeguata e ci porta dritti nel baratro, non basta ripartire dai tre classici capisaldi europei, ovvero diritti dei lavoratori, stato sociale universalistico e fiscalità progressiva. Non basta neppure aggiornando i contenuti.
Mi piace però ripartire, da due belle definizioni che ha dato nell’appuntamento romano. La prima: “Se l’Europa non è un’idea per il mondo non potrà mai farsi Europa”. La seconda: “La sinistra è quella cosa che esiste perché non gli piace il mondo così com’è”.
Io le stamperei e le attaccherei in tutte le sezioni, circoli, comitati o come diamine si chiameranno le articolazioni locali di Articolo Uno. Perché lì dentro ci sono le nostre radici e il nostro futuro. C’è la necessità impellente di trovare strade nuove, di dare risposte a quella fortissima crisi che sta vivendo l’idea stessa di democrazia rappresentativa. La risposta di Renzi è “più potere con meno consenso”. Ha ragione Bersani, questo volevano dire Italicum e riforma della Costituzione: spazzare via i corpi intermedi, smantellare il sistema della rappresentanza vuol dire avere meno democrazia. E la famosa democrazia diretta tanto decantata dal movimento 5 stelle vuol dire un sistema autoritario dove i cittadini non contano più nulla.
Rimango ai tre punti di cui ha parlato Bersani. Della questione del lavoro, ovviamente centrale, ho già parlato, ampiamente, qui. Vorrei soffermarmi, invece, nel “pippone” di oggi sulla questione delle diseguaglianze, che ieri sono state ridotte, in sintesi, alla necessità di garantire un welfare di natura universalistica. E’ importante porsi nuovamente questo tema, uscendo finalmente dalla retorica del merito. Ma credo che sia un errore limitarsi a questo ragionamento. E anche limitarsi a descrivere il tema delle diseguaglianze come tema interno a un paese. Fra gli stipendi dei supermanager e i vaucher, tanto per usare la semplificazione di Bersani. Chi vuole definirsi di sinistra non può continuare a leggere le diseguaglianze solo all’interno degli anacronistici confini nazionali. E allora la differenza è fra gli stipendi dei supermanager italiani e lo stipendio di un operai africano o cinese. Qua stanno le diseguaglianze, qua sta la vera lotta di classe del nostro tempo. Altrimenti continuiamo a essere prigionieri della contrapposizione fra migranti e proletari “interni”. Giochiamo la partita nel terreno di gioco scelto dalle destre. Continuare a parlare di stati e di nazioni, insomma, ci condanna a una visione miope e alla sconfitta. E allora che fare? Io credo che dobbiamo, ad esempio, mettere in discussione seriamente la casa del Partito socialista europeo. E usare il “metodo Bersani” anche a livello internazionale. Una cosa del tipo: “Guardate ragazzi che ognuno per sé mica reggiamo più, qua tocca mettersi insieme davvero”. Potrebbe sembrare eccessivamente ambizioso: non riusciamo a rimettere in piedi una sinistra italiana e ci preoccupiamo del livello europeo? Io credo sia essenziale, limitarsi ai patri confini sarebbe un errore tragico. Tornare a produrre, come Europa, idee che siano modello per tutti, sui grandi temi che abbiamo di fronte. Da quelle diseguaglianze che sono il concime per tutti i fondamentalismi, ai temi ambientali, a quelli economici, della produzione, della finanza. Io credo che una delle riflessioni che dobbiamo fare sia su questo.
Abbiamo di fronte un’ondata di destra senza precedenti, non basta chiudersi nei confini nazionali, non basta una strategia di difesa dei diritti del novecento. Occorre riaprire davvero la partita, sfidare le destre e i populismi, sfidare le paure di un occidente che si sta accartocciando sempre più su se stesso. Ancora una volta, come è ovvio, mi limito ai titoli. Non sono in grado di fare di più. Serve un vero e proprio intellettuale collettivo per un’elaborazione compiuta su questi e altri temi. Ma secondo me la strada da percorrere, la direzione da prendere è segnata.
Ecco, se cominciamo a fare questo possiamo dire che in fondo al tunnel in cui si è cacciata la sinistra, non solo italiana, c’è una luce. Senza punto interrogativo. Neanche fra parentesi.
Il pippone del venerdì/6.
Zingaretti? Speranze e perplessità
La dico subito chiara: il fatto che i turborenzini romani tacciano depone a favore della (auto)ricandidatura di Zingaretti a presidente della Regione Lazio. Poi uno avrebbe voluto un percorso diverso, magari anche meno mediatico. Annunciarlo ad Amatrice, insieme al sindaco che potrebbe essere addirittura il suo avversario, secondo me, è una caduta di stile.
Ma si capisce l’esigenza di mettere un punto in una situazione politica interna al suo partito che lo vede sconfitto nelle assemblee di circolo e probabilmente anche alle primarie del 30 aprile. Sarà anche vero che si vota sul segretario nazionale e che il congresso romano sarà a giugno, ma la progressiva orfinizzazione del partito è evidente. Nel Pd comanda chi gestisce il tesseramento. Da qui, mi pare di leggere fra le righe, la necessità di anticipare i tempi.
Ora però, Zingaretti deve avere ben chiara la strada da percorrere. Non baloccarsi sui presunti risultati raggiunti in questi quattro anni di governo del Lazio, anche perché molte delle promesse sono state disattese, e avviare un confronto serio con tutti gli attori politici e sociali (sottolineo sociali) disponibili a ragionare sulla costruzione di una nuova coalizione. Non del vecchio centrosinistra ormai seppellito da Renzi, ma di una nuova coalizione (sottolineo nuova). Non si accontenti dei peana dei vicini di stanza, insomma, sia esploratore di strade innovative.
Si svincoli, innanzitutto, dall’immagine di uomo di partito, di esponente del Pd che troppo spesso in questi anni ha taciuto sui disastri compiuti da Renzi e dai suoi. Sia a livello nazionale che romano. E si metta alla guida di un grande movimento di rinnovamento. Riformista. Progressista. Vero.
Abbiamo ancora un anno, intanto, per correggere la rotta. La giunta Zingaretti ha rimesso in ordine i conti della sanità, si dice. Il prezzo pagato, in termini di efficienza e di “giustizia” del sistema sanitario regionale, è stato altissimo. Diamo, in questo anno che rimane, un segnale forte di discontinuità? Possiamo dire che, risanati i conti, ora si parte alla ricerca della qualità, dell’eccellenza?
C’è un tema, ad esempio che mi ha sempre appassionato: come si fa a ragione sui costi della sanità, quando il pubblico rappresenta, nella nostra regione, meno della metà dei posti letto accreditati? Si ha intenzione di rimettere mano seriamente agli accreditamenti? Certo è materia complicata, mica dico di no. Altra questione. Riusciamo a creare un sistema di ticket come quello toscano, con un sistema progressivo in base al reddito? Ancora. Diamo un segnale forte sui servizi socio-sanitari, a partire dai consultori? Sono solo titoli e anche parziali ovviamente.
In una sola frase: riusciamo ad uscire, in questo anno che ci rimane, dalla logica della propaganda e degli annunci, che se va bene fa guadagnare a ZIngaretti qualche titolo sui giornali, per entrare in quella dei reali servizi da garantire ai cittadini. Guardate che quando vai in ospedale e aspetti ore al pronto soccorso, quando prenoti una qualsiasi prestazione specialistica e devi aspettare mesi, quando ti rendi conto che assolute punte di eccellenza della sanità sono ridotte al collasso, mica te li ricordi più i titoli dei giornali. E temo che quando i cittadini andranno alle urne conterà di più la realtà dell’apparenza.
La stessa riflessione vale per altri temi. L’inizio dell’esperienza di questo governo regionale aveva suscitato grandi speranze. Un vero riformismo di sinistra poteva cimentarsi nel Lazio, con alla guida quello che tutti ritengono uno dei suoi esponenti migliori. Giudizio talmente unanime che nel Lazio non ci fu neanche bisogno di fare le primarie. Tutti d’accordo. Le attese sono però rimaste in gran parte tali. Non si ricordano provvedimenti legislativi epocali. La distanza fra gli annunci e i voti in aula è stata molto superiore a quella fra via Garbatella (dove ha sede la giunta) e la Pisana (dove c’è l’assemblea).
Serviva un’opera di accorpamento e semplificazione delle norme in materie complicate. Il testo unico sul commercio è rimasto, al momento, impigliato in qualche commissione. Di urbanistica meglio non parlare: anche qui al testo unico più volte annunciato come imminente, si sono sostituiti gli interventi tampone: dalla proroga del piano casa Ciocchetti-Polverini (con poche correzioni e neanche tutte positive) alla legge sulla rigenerazione urbana in discussione in queste settimane che, di fatto, rende permanenti ampie parti dello stesso piano casa. Invece di tagliare radicalmente le troppe leggi che ci sono in questo campo e farne una sola, complessiva, si aggiungono altre norme. La legislazione urbanistica nel Lazio è talmente incomprensibile che diventa inapplicabile. Norme buone soltanto per foraggiare schiere di azzeccarbugli. E nelle pieghe delle quali prospera l’abusivismo.
Per non parlare dei rifiuti. Ora, va ricordato che in questo campo sono innegabili le responsabilità del Comune di Roma nelle varie declinazioni amministrative e politiche: la capitale produce la gran parte dei rifiuti del Lazio e dunque il nodo resta questo. Ma anche qui si è andati avanti senza un progetto organico, invece di presentare un nuovo piano rifiuti, che metta in pratica i buoni propositi più volte annunciati, ci si limita a una serie di provvedimenti scollegati che correggono il piano esistente, anche questo risalente all’epoca Polverini.
Nulla, infine, dal punto di vista della mobilità, dove la annunciatissima agenzia regionale è rimasta impantanata nell’intricato gioco di assetti societari e non è più in calendario. Serviva un ente unico di programmazione e controllo dei trasporti del Lazio. Che creasse un sistema coordinato fra Roma e le Province. La coincidenza di colore politico fra Roma, la sua area metropolitana e la Regione rappresentavano un’occasione da cogliere al volo. Tutto sfumato. E ci ritroviamo ancora con un sistema capace soltanto di moltiplicare i debiti senza assicurare un servizio decente.
Mi limito a questi flash sugli argomenti che conosco meglio per non farla troppo lunga. Ha ragione, insomma, Stefano Fassina quando mette in guardia sui troppo facili entusiasmi di questi giorni: “Un modello Lazio non esiste”, sostiene il deputato di Sinistra italiana. Il che non significa che non si possa e si debba lavorare per costruirlo. Ma per fare questo bisogna tornare al punto uno. Costruiamolo questo modello, che rappresenti un’indicazione per il futuro a livello nazionale.
Provo a buttare giù un paio di punti, di sicuro non esaustivi, ma credo siano argomenti su cui aprire una discussione.
Intanto ragioniamo sul fatto che si andrà a votare probabilmente lo stesso giorno per regionali e politiche. Un fatto che, inevitabilmente, complicherà le cose. Soprattutto se resterà questa la legge elettorale nazionale. Ora, in politica non si può mai dire, ma è facilmente prevedibile che, in questo caso, la campagna elettorale nazionale prevarrà su quella per il Lazio. E le divisioni che è facile prevedere sulle schede per la Camera e il Senato, tenderanno a prevalere rispetto alle ragioni di unità che Zingaretti avanza con la sua candidatura. Il quadro, insomma, bisogna averlo ben presente: avremo un Renzi scatenato a livello nazionale che farà la sua compagna isolazionista, tutta basata sul Pd e uno Zingaretti che invoca l’unità per vincere il Lazio. E’ evidente a tutti quanto il primo rischi di travolgere il secondo. Anche perché che senso avrebbe presentarsi a livello nazionale e regionale con due programmi divergenti in nome dello stesso partito?
Insomma, c’è il rischio, non lo nascondo, che questa ricandidatura rappresenti più che altro una foglia di fico, utile soltanto a puntellare quella che, se le elezioni nazionali andassero male, potrebbe essere dal prossimo anno la postazione di governo più importante a livello nazionale per il centro sinistra. E se fosse solo questo, è evidente, non riuscirebbe neanche in questo intento.
D’altro canto il sistema elettorale con cui si vota alle regionali è chiaro: turno unico, il candidato presidente che prende più voti vince. E dunque, ove le forze del centro sinistra scegliessero di non andare unite alle urne, una sconfitta sarebbe quasi automatica. Non dimentichiamo che nel 2013, in una situazione di gran lunga più favorevole di quella attuale, Zingaretti, candidato strafavorito, superò di poco il 40 per cento. Una vittoria ampia, perché il suo avversario, Francesco Storace, non arrivò al 30, indebolito però dalla candidatura di Giulia Bongiorno (Fli, Udc, Sc) che spacco il fronte della destra. Il movimento 5 stelle, allora, si fermo al 20 per cento.
Insomma, se non ci si coalizza si rischia non solo di perdere (nel caso del Pd), si rischia la totale irrilevanza (nel caso delle forze alla sinistra del Pd). Ora io non sono un innamorato del governo a tutti i costi. Tutt’altro: credo che l’opposizione sia addirittura utile per rinnovare e formare la propria classe dirigente. Però, al tempo stesso, credo se uno corre debba avere quanto meno la possibilità di vincere. E proprio se non riesce a vincere deve avere la possibilità di entrare in consiglio regionale. La democrazia rappresentativa funziona se hai il cuore e la testa nel tuo blocco sociale, nelle città, nei quartieri, ma i piedi ben piantati nelle istituzioni, altrimenti svolgi un ruolo di mera testimonianza. Perfino rispettabile, ma sostanzialmente inutile. Se non si ha la possibilità di realizzare le proprie idee, di metterle alla prova del governo, si cambi occupazione.
Dunque che fare? Io credo che i propositi annunciati da Zingaretti in forma molto mediatica vadano verificati lontano dai riflettori. La sinistra non può tirarsi indietro e deve rispondere alla sfida. Io ci sto, se la sua volontà è quella di lavorare a un nuovo modello di coalizione “sociale”, così la chiamo io, non civica si badi bene. Ovvero una coalizione che si assume come compito la rappresentanza di un blocco di interessi. E dichiara prima con chiarezza quali sono. Se riproponessimo una semplice riedizione dell’alleanza elettorale del 2013 ci andremmo a schiantare, lo voglio dire chiaramente. Per questo ben vengano anche gli stati generali del centro sinistra del Lazio, annunciati dal presidente per l’autunno. Ben vengano se però evitiamo la solita passerella dove facciamo parlare un’operaia di una fabbrica in crisi, un giovane imprenditore che ha aperto un’impresa innovativa, un impiegato dell’Alitalia, un giovane volontario possibilmente brufoloso, quale amico molto smart che ci parla dei diritti civili.
Io credo che serva un luogo di confronto vero e che non siano sufficienti un paio di giorni chiusi in qualche luogo caro alla sinistra romana per sciogliere i nodi e dare nuovo vento a vele stanche. Credo che queste vele dobbiamo metterle nuove. E per farlo serva un percorso di partecipazione dal basso. Servono comitati locali che diano radici diverse alla coalizione sociale e insieme costruiscano un percorso dal basso. Serve una campagna radicale: assemblee in ogni città del Lazio, in ogni quartiere di Roma. In cui non si vota un candidato, ma si discutono e si votano le idee per rifondare questa Regione.
Zingaretti, insomma, può fare due cose: essere semplicemente il candidato del Pd – un brand in profonda crisi (come direbbero quelli bravi) – il candidato che poi si porta appresso qualche cespuglietto irrilevante e magari vince anche stancamente, nella migliore delle ipotesi. Fa il presidente per altri cinque anni in cui si tira a campare, la stampa non gli ostile, alla fine un posto da parlamentare glielo danno. Oppure può essere il costruttore di una rete sociale nuova. Che può rappresentare il modello da replicare poi a livello nazionale. Una rete, lo ripeto al di là e oltre le forze esistenti che non rappresentano più il proprio blocco sociale. I punti da cui partire sono sempre quelli: lavoro, uguaglianza nei diritti – primo fra tutti quello alla salute – amministrazione sana ed efficiente.
Io credo che Zingaretti abbia l’intelligenza e le qualità per guidare, fare il regista di un progetto simile. Una nuova speranza, si potrebbe dire. Ma credo anche che il troppo consenso interessato non gli faccia bene. Che debba confrontarsi di più con chi gli fa notare quello che non va. E magari ascoltare meno chi fa sempre e comunque la ola. Si può ripartire dal Lazio, insomma. Con un po’ di coraggio e anticonformismo.
Lo #spiegone del lunedì/5.
Appunti sui partiti politici
La scorsa settimana leggevo un articolo di Curzio Maltese nel quale il giornalista ed eurodeputato fa un’analisi impietosa sul nostro sistema democratico. Al di là dei ragionamenti più contingenti, la tesi di Maltese è netta: con la probabile affermazione di Matteo Renzi alle primarie del 30 aprile tramonta in Italia l’era dei partiti politici organizzati. Ormai sono tutte liste personali.
Andiamo con ordine. L’esistenza di partiti politici è prevista dalla Costituzione stessa. In particolar modo dall’articolo 49: ”Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Parole, come al solito, precise: i partiti vengono riconosciuti come l’anello di congiunzione fra cittadini e istituzioni, e determinano la politica nazionale, con metodo democratico. Da queste parole più volte si è rimarcata la necessità di normare il funzionamento dei partiti in maniera da favorire la partecipazione democratica, poi in realtà ci si è fermati alle proposte di legge. In questa legislatura si è arrivati a un testo unificato, approvato dalla Camera e in discussione al Senato.
Comunque sia, i costituenti davano grande importanza all’esistenza dei partiti. Che poi nel corso del dopoguerra hanno assunto in Italia il carattere di organizzazioni di massa, a cui aderivano milioni di cittadini. Ora, sostiene Maltese, l’ultimo dei grandi partiti si avvia a diventare lista personale, come Forza Italia, come il M5s, la Lega. Per non parlare delle sigle minori, di cui, appunto, spesso si ricorda il leader ma non il nome.
Non so, sinceramente, se abbia ragione Maltese. Di certo, fin dalla scelta delle primarie come meccanismo per la selezione del segretario, il Pd si è presentato come un partito dalla forma un po’ atipica. Tanto che si è parlato più volte di partito liquido, destrutturato, in contrapposizione al partito pesante del ‘900. Una forma liquida che ha sicuramente favorito quell’identificazione con li leader che denuncia Maltese. Resta da vedere cosa capiterebbe in caso di una nuova sconfitta elettorale: una lista personale tenderebbe a sfaldarsi e a scomparire, un partito vivrebbe un momento di crisi per poi rigenerarsi con nuovi dirigenti.
Ma perché, assumendo per valida la tesi del giornalista, sarebbe un fatto così grave? Cosa cambia? Noi siamo in una democrazia rappresentativa. In pratica eleggiamo i nostri rappresentanti nelle istituzioni a cui deleghiamo, detta banalmente, la sovranità che (articolo 1) appartiene al popolo. Il nostro potere si limita, nel caso in cui non siamo soddisfatti del loro operato, a sostituirli alle elezioni successive.
I partiti, in questo contesto, svolgono una duplice funzione:
1) Danno la possibilità ai cittadini di partecipare alla vita democratica fra un’elezione e l’altra;
2) Selezionano la classe politica che poi sarà sottoposta al giudizio degli elettori.
Sono tutte e due funzioni essenziali se non vogliamo vivere in una sorta di democrazia autoritaria, dove pochi, senza alcun controllo, decidono tutto e le possibilità di incidere da parte dei cittadini sono limitate al momento elettorale.
I partiti, insomma, sono il luogo principe dove si dispiega la partecipazione dei cittadini, dove la politica, nel senso più alto della parola, svolge a pieno la sua funzione di composizione del conflitto. A patto che non siano liste personali, perché in quel caso, invece che favorire una sorta di continuità democratica fra un’elezione e l’altra, diventano semplicemente strumenti per amplificare la linea politica del leader. Una sorta di megafono puntato costantemente verso i cittadini. Quella della propaganda, insomma, da funzione derivata, di secondo livello, diventa preminente. E una certa idiosincrasia dei partiti personali nei confronti degli altri corpi intermedi che esistono nella società di oggi, dalle associazioni ai sindacati, si spiega proprio per questo motivo. La propaganda soffre l’interlocuzione, il confronto tipico della democrazia, ha bisogno solo di un pubblico acritico.
Resta da capire quanto questa trasformazione rappresenti un passo in avanti e non un ritorno, in forme differenti, al sistema ottocentesco dei “notabili”.
Tutto questo, per la precisione.
Io la vedo così.
Articolo Uno, si può fare. I motivi della mia adesione
Sono stato molto indeciso nelle settimane scorse. Rimanere a casa, continuare a fare il semplice commentatore o tornare a impegnarmi in prima persona? La tentazione di restare ai margini è forte. Mi diverto molto a stare seduto sulla riva del fiume a contare i cadaveri di quelli che sempre sicuri che non sbagliano mai.
E poi si sta comodi. Intanto perché, chi mi conosce sa quanto sia vero, sono un pigro, iperattivo ma molto pigro. E dunque l’idea di rimettermi al lavoro, per giunta riprendere una sfida sostanzialmente da zero, senza strutture, senza sedi… da un lato stimola il mio lato iperattivo, ma dall’altro atterrisce il mio lato pigro.
Ma l’idea di ricostruire una casa insieme a tante persone di cui ho stima mi piace. Lentamente prende il sopravvento. E nei giorni scorsi, andando a curiosare in riunioni private e pubbliche, ho provato questa sensazione, perduta da tempo, di aver ritrovato la mia comunità politica. Poi magari mi sbaglio, magari come dice qualcuno fra tre mesi ci ripenso. Può darsi, non per calcolo personale. Qualcuno troppo abituato ad applicare agli altri i propri schemi pensa che si partecipi a un movimento politico solo in base agli incarichi che ti vengono garantiti. Io dalle scissioni della mia vita c’è sempre rimesso, devo essere strano. E non ho incarichi da pretendere. Militante semplice è pure troppo. Anche perché ho sempre pensato che le medagliette non servono a nulla. Sono state dirigente dei Ds del Lazio, poi del Pd, è tempo che forze fresche conducano la baracca, io se serve posso attaccare i manifesti.
Una casa, da costruire, dicevo, senza sentirsi ex di qualcosa. Ma parte di un progetto che guarda al futuro. Un progetto che va oltre i nostri destini personali e guarda alla realizzazione delle libertà della costitutuzione.
Ecco, Articolo Uno mi piace. Ho sempre letto con commozione quelle parole. La prima parte della Costituzione. Ho sempre cercato di difenderla e di renderla più vera, concreta. E credo che questo possa essere il compito della sinistra in Italia. Perché nella Costituzione abbiamo scritto i nostri valori, dopo settanta anni sarebbe il caso di renderli anche concreti, di farli vivere nella realtà disastrata del nostro paese. Questo, insomma, è il tempo di ripartire. Di costruire non un recinto, ma un villaggio senza mura accanto, che possa essere un punto di riferimento per chi è in viaggio e cerca un nuovo approdo, Un movimento, dunque, dove tutti, anche quelli che arrivaranno fra un po’ si sentano a casa e non ospiti. I
Questo è ancora il nostro tempo. Ripartiamo da Articolo Uno.
Io la vedo così
Quante carogne da tastiera!
Il pippone del venerdì/1
Pd o non Pd
Da oggi, continuando nel progetto di voler rendere più strutturale il mio contributo da osservatore del dibattito politico, social e non social, inauguro questa nuova rubrica, “il pippone del venerdì”. Sarà una sorta di bilancio della settimana, in cui vorrei ragionare sugli aspetti che mi sembrano interessanti. Ci provo, combattendo con la mia nota pigrizia. E vorrei anche provare a rinnovare e utilizzare con maggior costanza il mio sito. Chissà, non scommetterei su me stesso.
Comunque sia, cominciamo il pippone.
In realtà non è proprio “il tema della settimana”, questa storiella va avanti da almeno un paio di anni. Da quando, cioè, Pippo Civati ha lasciato il Pd e ha fondato il suo “Possibile”, movimento di cui non si ricorderanno tracce durature nella storia dell’uomo, ma che tuttavia merita una menzione, quanto meno per essere alla base di un disastroso equivoco. Nello statuto di Possibile, mi dicono, sta scritto a chiare lettere che non faranno mai, a nessun livello, alleanze con il Pd. Il che è una novità assoluta. Che un partito escluda di potersi alleare con un altro partito dell’arco democratico, ci sta. Ma che si metta nero su bianco nello statuto è un fatto di assoluta rilevanza e, come vedremo, sia pur in forma indiretta, ha condizionato il dibattito politico nella galassia della sinistra italiana.
E’ successo con la tornata delle scorse elezioni amministrative. Con grandi scontri fra chi diceva che non si poteva rompere il centro sinistra per principio e chi diceva che l’esistenza di un campo alternativo al Pd doveva essere visibile e omogenea su scala nazionale. Sostanzialmente ha vinto la secondo tendenza, fra mugugni e resistenze, con la sia pur rilevante eccezione di Milano. Devo ammettere di essermi lasciato prendere da questo dibattito. Sbagliando.
E devo dire che, alla fine dei giochi, tutta sta visibilità di uno schieramento alternativo al Pd mica l’abbiamo vista. Abbiamo visto, piuttosto, uno scontro da stadio fra gli ultras degli opposti schieramenti. Salvo poi andare a piangere perché, dopo aver parlato di periferie a tutto spiano, a Tor Bella Monaca abbiamo preso il 2 per cento. Elettori eroici, verrebbe da dire.
Eppure non è che si sia imparato dagli errori. Anzi la situazione è peggiorata. Per chi esce dal Pd si propone l’analisi del Dna, suo e delle tre generazioni precedenti. Il congressino di Sinistra italiana, oltre ad aver prodotto un gruppo dirigente, ha anche prodotto un secondo anatema: mai con il Pd di Renzi, a tutti i livelli. Manco nel condominio di via Carugatti 53 si faccia l’alleanza con il Pd di Renzi. Scelta applauditissima da Possibile che ha deciso di fondere i gruppi parlamentari, “pur mantenendo l’autonomia dei rispettivi partiti”. In giro si leggono addirittura moderni soloni che si scandalizzano perché Pisapia non ha definito la sua posizione sul renzismo. Quello, dicono, sarebbe il minimo richiesto per definirsi di sinistra.
L’Italia intera dibatte e si accalora su questi affascinanti temi.
Scherzi a parte, come la vedo? Pur tra i mille errori commessi resto convinto di tre cose.
1) Resta l’esigenza di ricreare un movimento ampio della sinistra italiana, non un partito, una gabbia escludente, ma un percorso aperto, che guardi al futuro e non agli errori del passato. Senza esclusione alcuna. Per me l’unica pregiudiziale resta l’antifascismo.
Un percorso che se ne freghi delle forme strutturate, del fatto che stiamo in partiti differenti e parta dalle persone. Possibilmente parta da quelle “vite di scarto”, da quelle periferie, come luogo sociale ma anche come spazio culturale, di cui parliamo sempre, ma dalle terrazze dei palazzetti d’epoca. Il Partito arriverà quando il percorso sarà compiuto e tutti saranno pronti a lasciare le casette di provenienza non per un condominio scomodo e spersonalizzante, ma per una grande casa di tutti. E non con le forme del ‘900, perché il ‘900 è finito. Tutto questo, sia chiaro, nelle pur rinnovare forme ha bisogno di mettere radici fisiche nei territori. Primo obiettivo dunque, trovare spazi, tanti, nei quali costruire un agire politico comune. Spazi utili ai cittadini, accoglienti. Per rovesciare il ragionamento di un autorevole ministro, un luogo in cui un Pio La Torre di oggi si troverebbe a suo agio, avrebbe modo di crescere e, al tempo stesso, di mettersi al servizio di un progetto collettivo.
2) Questo movimento non si crea contro o in alternativa al Pd o al renzismo o al populismo. Si coltiva, da più parti, la sensazione che sia sufficiente definirsi di sinistra per poter essere annoverati automaticamente nell’olimpo dei rivoluzionari. Non funzionava così manco ai tempi del Pci, figuriamo adesso. Solo che allora, con quel nome, con quella storia, potevi pure permetterti di essere conservatore ogni tanto. Oggi no.
E ritorniamo a quella che io mi intestardisco a considerare l’origine di tutti i mali. La nascita del Pds. In quegli anni sciagurati in cui si buttò a mare un patrimonio di 80 anni, ci si dimenticò di un particolare: che quella operazione aveva bisogno di definire un nuovo orizzonte, ideale e culturale, per dare testa alla sinistra. Le gambe c’erano, la testa no.
Il problema sta tutto qua. Chissenefrega di Renzi, del Pd, delle alleanze. Ma si può dibattere da Roma se a Parma si debba appoggiare Pizzarotti o fare una coalizione di centrosinistra classica? E quelli di Parma che stanno a fare? Danno i volantini? Guarda che poi, ne abbiamo le prove provate, quelli di Parma finisce che non ti votano. E poi mica puoi dire “date le condizioni abbiamo fatto il massimo”. La politica, la sinistra, servono a cambiarle le condizioni, mica a subirle.Dicevamo: identità, bagaglio culturale e ideale. Queste sono le condizioni essenziali. Poi possiamo anche chiamarlo davvero Arturo, se in contenuti e le idee sono quelle di un nuovo movimento socialista. Serve un grande lavoro prima di tutto culturale, chiamando a tornare in campo tutte le energie migliori, i famosi intellettuali che non si sa che fine hanno fatto. Bisogna definire quale sia “il nostro cielo”, il nostro orizzonte ideale, quale sia la nostra cassetta degli attrezzi con la quale interpretare la realtà. Con mi alleo poi? Semplice con chi ci sta. Bisogna, insomma, avere la capacità e la pazienza, di rovesciare il percorso. E guardate che non parlo di “un programma”. Vanno bene le officine delle idee, va bene tutto. Ma non basta. Un programma siamo bravissimi a scriverlo. Anzi, magari neanche più tanto quello perché ormai scriviamo cose che non capiamo neanche noi. Quello che manca è un manifesto dei valori, un campo ideale. E guardate, la butto lì, non credo che sia neanche sufficiente la dimensione nazionale. Le coordinate: io credo possano essere tre: la dicotomia lavoro/non lavoro (perché dovremo porci prima o poi il problema di una società in cui il lavoro sarà sempre meno parte fondamentale della nostra vita e quindi assumere anche il tempo del non lavoro come valore) l’uguaglianza (perché ci hanno fatto una testa tanta con la meritocrazia, ma senza uguaglianza diventa soltanto una maniera più elegante per disfarci degli ultimi) l’ambiente (non perché l’economia green fa tanto fico, ma perché se non mettiamo l’ambiente come base di tutto il nostro agire ci siamo giocati il pianeta e altri non ne abbiamo). Mi fermo perché altrimenti altro che pippone.
3) Fatto questo si torna alla conclusione del punto 1. Ovvero: come si creano le condizioni per far in modo che un giovane Pio La Torre del terzo millennio si senta a casa? La traduco in politichese: come si crea un nuovo meccanismo di selezione della classe dirigente? Perché sicuramente dobbiamo sapere cosa fare, ma anche con chi farlo.
Ora, negli ultimi venti anni (il Pd ha soltanto estremizzato questo processo) i partiti non sono stati più gli “intellettuali collettivi” di cui parlava Gramsci. Ossia quei luoghi in cui un cervello collettivo elabora le soluzioni ai problemi. Ma non sono neanche quei luoghi dove si sperimenta e si mette alla prova la classe dirigente. Tutto questo è stato sostituito dal partito del leader e delle correnti. Si tratta di un processo generale che in Italia ha coinvolto l’intero panorama politico. Non è un caso se la contesa nel Pd è sostanzialmente fra due populisti. Perché nel momento in cui non sei più intellettuale collettivo e non sei più luogo di selezione della classe dirigente, il partito diventa mero luogo di gestione del potere. Il mezzo diventa fine e allora servono solo un leader e i suoi lacchè. Il processo decisionale non è più tra linee politiche alternative, ma fra capi alternativi. E vince chi è più populista e arrogante dell’altro.
Essere di sinistra, oggi, vuol dire anche invertire questa tendenza, costruendo un movimento dove il nodo non sia il leader ma la classe dirigente, diffusa e riconosciuta.
Dico non a caso riconosciuta, perché oggi esistono soltanto i grandi leader mediatici, non abbiamo più i dirigenti di base, quelle figure essenziali se si vuole avere un legame forte con il territorio. Abbiamo una classe politica (non la chiamo dirigente non a caso) completamente slegata dal territorio. Sento autorevoli parlamentari che ti dicono candidamente “non abbiamo capito cosa stava succedendo”. E’ successo ad esempio sul referendum costituzionale. Bastava andare a dare un volantino in giro per capire che gli italiani non solo avrebbero votato no, ma che gli stavate proprio sulle palle.
Tre cose da fare subito, insomma, avendo bene in testa che non serviranno due giorni. Ma bisogna partire. E allora: Pd o non Pd? Machissenefrega.
Costruiamo ponti, non steccati
Il 15 luglio del 2015, forse un po’ paradossalmente, conclusi così l’intervento con il quale annunciavo al direttivo del circolo Pd Capannelle le mie dimissioni da segretario e dal Pd stesso: “Dobbiamo, anche in questa fase, avere sempre l’obiettivo di costruire ponti e non steccati”. Paradossale perché anche in quel momento, di rottura, facevo riferimento al bisogno di trovare le forza di proseguire un dialogo, anche se una storia comune si interrompeva. Il bisogno di continuare a esplorare insieme terreni sconosciuti. La risposta fu più che uno steccato: la commissaria di zona, una sorta di Orfini un po’ più arrogante, ordinò di cambiare immediatamente le chiavi del circolo e mi diffidò via mail dall’entrare in quelle stanze. Come dire: mi hanno sbattuto le serrande in faccia. Poco male.
Da allora mi è sempre rimasta in testa quella frase, quell’obiettivo. E per questo ho lavorato da subito, quando il gruppo di compagni con cui avevamo lavorato in quei mesi, mi propose di essere il “referente romano” (nome un po’ bizzarro che vuol dire coordinatore) di Futuro a sinistra, l’associazione a cui aveva dato vita Stefano Fassina, anche lui appena uscito dal Pd.
Costruire ponti era la mia ossessione perché vedevo con forte preoccupazione quello che stava succedendo: invece di provare a lavorare per riunire il campo disgregato della sinistra italiana, ognuno coltivava soltanto il proprio orticello. Troppo sigle, poco popolo. La dico così in sintesi. Tutti gruppi tesi ad alimentare esclusivamente la sopravvivenza del proprio gruppo dirigente. Dove si parla di partecipazione e poi manco ti comunicano le decisioni, le leggi sui social. Troppi recinti, troppe casette magari rassicuranti e protettive per chi sta dentro, ma poco attrattive e poco utili se non ci si vuole accontentare di sopravvivere. Settarismi, si sarebbe detto un tempo, che non portano da nessuna parte.
L’ho detto ogni volta che ho potuto. Non chiudiamoci, inventiamoci forme nuove per stare insieme. E anche quando è stato avviato il percorso che poi ha portato alla nascita di Sinistra italiana, ho sempre insistito sulla necessità che non fosse un partito classico, ma un arcipelago di mille isole, autonome, con la propria identità, ma messe in rete. Perché non bisognava escludere nessuno. Anzi.
Per questo ho proposto, dove mi è stato concesso, che si partisse da un manifesto, pochi punti chiari. E su questo si avviasse un processo costituente dal basso, che non fosse un accordo fra gruppi dirigenti ma un processo che, al contrario, si aprisse a quanto è nato e cresciuto in questi anni nelle città e nei quartieri. Non serviva che qualcuno scrivesse la storia per noi, che qualcuno scrivesse in qualche bel documento che “bisogna ridare centralità al lavoro, tornare a parlare al popolo della periferia”. Serviva che il lavoro e le periferie tornassero a essere protagonisti nella scrittura di una storia comune.
Nell’appello con cui lanciammo Futuro a sinistra a Roma scrissi: “La sinistra a cui pensiamo nasce dal basso, non dalla fusione di ceti politici. Non vogliamo essere i reduci delle sconfitte dell’ultimo ventennio che si mettono insieme alle rinfusa dimenticando le divisioni e le ragioni che le hanno prodotte. E’ una sinistra nuova, inclusiva, plurale e che raccoglie anche culture differenti. Una forza di governo e riformatrice”.
Poi sono arrivate le dimissioni di Marino, il notaio, insomma la vicenda è nota. E tutto è precipitato. A Roma si è decisa non si capisce bene dove, la candidatura di Stefano Fassina a sindaco. Ho espresso timidamente a chi mi prospettava questa eventualità le mie perplessità. Per il profilo nazionale di Fassina, per la sua storia politica complessa, per la mancanza di un legame con la città.
Una volta tratto il dado, sono fatto così, ho sostenuto la sua candidatura con tutte le mie energie. In campagna elettorale servono gli eserciti, i soldati, non le discussioni.
Ho cercato comunque di portare le mie idee e di calarle in questo percorso, troppo breve. E qui ho trovato muri robusti. Tutto si è deciso in stanzette anguste. In riunioni di pochi. E invece bisognava davvero ascoltare la città, chiedere a Roma di mettersi in gioco insieme a noi. Di non delegare, ma esporsi in prima persona. Ho proposto di fare le primarie delle idee, quartiere per quartiere. Grandi assemblee con tutta la sinistra diffusa, i lavoratori, le associazioni locali, le forze disperse di una sorta di sinistra sociale che in questi anni di vuoto si è organizzata fuori dai canali tradizionali e li ha anche sostituiti. Non, insomma, le primarie sulle persone, ma un confronto vero sui temi. Da cui poi nascesse il confronto sulle persone da scegliere. C’erano energie che sono state disperse. Tante energie. E invece si è scelta la strada del “tavolo fra le forze politiche”. Interminabili trattative fra partitini inesistenti per decidere chi andava candidato. Esponendosi alle azioni di disturbo di chi ci vedeva come il fumo negli occhi.
Avendo manifestato una forte contrarietà per il metodo e anche per le persone scelte mi è stato prima proposto di candidarmi, nell’ordine: al Comune, come presidente in VII e in VI Municipio. La cosa non mi entusiasmava particolarmente, ma mi misi, come si dice, a disposizione. Poi furono fatte altre scelte, che lessi sui giornali.
Contro di me e contro gli altri compagni che avevano osato dissentire cominciarono a girare le letterine infami. Una sorta di riflesso staliniano che porta chi si sente attaccato a rivolgersi al capo cercando la sua benedizione. La faccio breve perché ho ancora molto da dire: siamo gente con le spalle grosse, le lettere e gli infami ci scivolano addosso.
E in silenzio mi sono fatto tutta la mia campagna elettorale, pacchi di volantini, strada per strada, casa per casa. Strade e case di quella periferia che i leader invocano, ma da rassicuranti distanze. Salvo poi stupirsi se in quelle strade dilagano i diversi populismi. Vi faccio un promemoria: non ci sono soli i 5 stelle, Casapound sta diffondendosi con una rapidità e una profondità impressionante nelle periferie romane. Poi non dite che non lo sapevate.
Continuando in questo racconto, i risultati delle elezioni li sapete. Per la nascente sinistra è stata un risultato rovinoso, altro che storie. Gli eletti si contano sulla punta delle dita. E non è una metafora. Fuori da quasi tutti municipi, salvo che, guarda caso nel centro della città e a Garbatella, dove si ricandidava il presidente uscente, evidentemente molto radicato. Ho provato ad analizzare serenamente il risultato con una lunga lettera inviata ai miei compagni di viaggio, ribadendo il mio giudizio su una campagna elettorale nata male e proseguita peggio. Unica risposta ricevuta, da Fassina: abbiamo fatto il massimo data la situazione.
Ora, sia chiaro, una sconfitta elettorale ci sta. Non hai una forza politica definita e riconoscibile dietro, paghi lo scotto della mancata chiarezza sui valori, sulle prospettive future. E però devi capire dove hai sbagliato e cercare di cambiare strada. E invece che si fa? Si chiude ancora di più il recinto: la coalizioncina elettorale che aveva sostenuto Fassina diventa un’associazione fatta dagli ex candidati, che si scelgono anche un coordinatore e un coordinamento. Tutto questo lo apprendo su Facebook. Nel frattempo lo stesso Fassina riunisce Futuro a Sinistra di Roma e nomina un nuovo coordinatore.
E di Sinistra italiana? Si perdono le tracce. Della costituente dal basso che tutti avevano giudicato come necessaria non se ne parla più, dell’unione con altri partiti e movimenti neanche. Non si fa neanche la fusione tra gruppi dirigenti. C’è solo Sel più alcuni esponenti ex Pd. C’è un comitato esecutivo nazionale, li si discute e si decide. Nulla più.
Io me ne vado in vacanza, dove maturo la decisione, sofferta, di abbandonare l’impegno politico. Definitivamente? Mai dire mai. Ma questo anno vissuto così, la delusione, le speranze disattese, la fiducia che – come è evidente – ho riposto nelle persone sbagliate… insomma mi sono sentito svuotato. Troppa cattiveria per poter portare avanti le proprie idee. Non che la battaglia mi abbia mia spaventato. Ma mica puoi guerreggiare sempre, anche dentro casa. Sono talmente distaccato che mi scordo pure di togliere “militante del Pd” da questo blog. Sta ancora lì.
Insomma ho scelto il distacco totale. Seguendo da osservatore lontano e disincantato le vicende delle sinistre. Da un lato Sinistra Italiana che ha rinunciato a un processo costituente vero e proprio e ha scelto di fatto di fare solo un congresso nazionale per eleggere un segretario. E si sono persi per strada metà o più dei parlamentari. Ai congressi provinciali hanno partecipato, se ho capito bene, circa 8mila persone. Un condominio o poco più. Poi c’è il nuovo campo di Pisapia. In divenire.
E c’è questa vicenda della scissione (forse ci siamo) del Pd. E qui devo fare un po’ di autocritica. Ho sbagliato a lasciare il partito nel 2015. Non perché mancassero le ragioni: continuo a ritenere che andarsene oggi sia una scelta tardiva e poco comprensibile. Ma perché uscendo da solo mi sono auto isolato da quella comunità con cui avevo percorso un tratto importante del mio impegno politico e – in ultima istanza – della mia vita. Un errore, senza dubbio.
Incontrarli di nuovo, all’assemblea che si è svolta sabato a Testaccio mi ha fatto piacere. Non mi sono sentito ospite, la dico così.
E ora che succede? Io sono sempre convinto che non serva un nuovo partito della sinistra italiana. O meglio. Sono convinto che quello debba essere l’obiettivo da raggiungere, ma aprendo l’orizzonte. Facendo rete fra le realtà che ci sono e che vogliono rappresentare la loro identità, la loro specificità. E riprendere un cammino comune non è facile se si chiede di annullarsi. Ancora una volta torna il tema dei ponti. Un movimento plurale dove ci sia spazio per tutti. Non una casa dove si entra bussando, ma un cantiere dove per entrare nessuno ti chiede da dove vieni, cosa hai fatto, quanti globuli rossi hai nel sangue. Perché stare insieme significa arricchirsi se si considerano le storie, le esperienze, le forme organizzative e le diverse intelligenze come parti da esaltare e non come semplici cellule che devono uniformasi. Un partito non si creare fondendo gruppi parlamentari, insomma. Anche se i gruppi parlamentare servono eccome.
Si potrebbe finirla, ad esempio, di dire: il Pd è un alleato naturale oppure mai con il Pd. Io credo che Si debba riannodare un rapporto con l’Italia che la sinistra, nelle sue diverse forme, non ha più. Scuola, lavoro, movimenti, sindacati, un ceto medio sempre più marginalizzato. Chi ci parla più con questi mondi? Chi li ascolta. Da sempre, faccio un esempio, ho ritenuto che lo scontro con la scuola fosse l’inizio del declino del Pd. Perché la scuola rappresenta tutto il paese. Scontrarsi con famiglie, studenti, insegnanti vuol dire litigare con l’Italia. E come ci rimettiamo in sintonia adesso? Non è che bastano i social o le televisioni. O ancora le periferie. Come tornare a metterci piedi e cuore dentro? Come tornare a essere percepiti come un interlocutore utile e non come la peste da evitare? Come si torna a essere presenti nei luoghi del conflitto, come ci si sta dentro e non ci si limita più a descriverlo?
Invece di preoccuparsi delle alleanze, le sinistre si devono preoccupare di ricostruire un rapporto, un intesa con la loro base sociale. Poi le alleanze serviranno. Perché io a essere condannato a essere minoranza non ci sto, non fa parte della mia cultura politica. Alleanze sulle cose, non sulle sigle. Guardando alla realtà non al curriculum. Possiamo dialogare se tu ti fai un giro di campo sui ceci. A me queste cose fanno impazzinre. E dai su, smettiamola di dare giudizi sugli altri e sediamoci ad ascoltarci. Si torni a fare politica. Non comizi, ma luoghi di confronto.
E come si organizza questo movimento? Con quali strumenti di partecipazione? Le primarie modello Pd, altro abbaglio che ho preso anni fa, hanno distrutto la partecipazione, riducendo il partito a un seggio. E adesso che fare? Quale forma dare all’impegno? Come si seleziona, oggi, una nuova classe dirigente? Vogliamo puntare ancora sulla fedeltà al capo? Occhio che così si producono i Rondolino e gli Orfini.
Pongo domande, non credo che nessuno abbia la risposta. Di certo c’è bisogno di un luogo dove si provi a darne qualcuna di risposte. In questo luogo, se mai ci sarà, metterò la mia passione e la mia intelligenza.
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