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Allarmi son franzosi.
Il pippone del venerdì/21

Lug 28, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

 

Verrebbe voglia di dedicare l’appuntamento settimanale con il pippone a Pisapia e soci. Agli abbracci impuri dell’ex sindaco di Milano. Ai paradossi di chi sta nel Pd e vorrebbe speigarci come si costruisce una coalizione alternativa al Pd, oppure alla strana sindrome di Tafazzi che spinge Bersani e soci ad andare per sei mesi appresso a uno che non li vuole, oppure ancora a Lerner che si gratta quando D’Alema nomina lo stesso Pisapia. Verrebbe voglia, ma dura solo un attimo, fate conto che l’abbia fatto. Come la penso su Pisapia lo sapete. Elettoralmente conta lo 0,5 per cento e ho detto tutto. Andiamo oltre.

E allora alziamo lo sguardo, perché mentre noi stiamo a litigare sugli abbracci, sul fatto se sia necessaria o meno una forza unitaria di sinistra in Italia, l’idolatrato Macron ci piglia a pesci in faccia. E anche questo ci sta, negli ultimi anni ci siamo abituati a essere sbertucciati dai nostri presunti alleati internazionali. Ha cominciato Berlusconi, Renzi da ottimo allievo si è messo in scia. E adesso avere Alfano come ministro degli Esteri non aiuta di certo. No, non è una battuta, è proprio lui il ministro degli Esteri.

Comunque sia, dalle vicende degli ultimi giorni, la Libia, la crisi sulla proprietà della cantieristica, si possono imparare due cose. La prima è facile facile: quando tu, nel campo della sinistra, hai alcune personalità di livello internazionale, conosciute e apprezzate da tutti, che potrebbero guidare con autorevolezza la diplomazia italiana ma anche quella europea e le rottami per fare posto ad accordicchi di bassa lega e ai tuoi sodali, beh, allora poi non ti stupire se i francesi ti mettono le dita negli occhi.

Non sono un esperto di politica internazionale e quindi non sono in grado di analizzare la situazione in maniera compiuta e approfondita. Mi limito a ricordare, perché di memoria sono ampiamente dotato, che una volta in Medio Oriente eravamo i padroni di casa. Le carte le davamo noi, dal punto di vista politico e questo comportava ovviamente anche un notevole ritorno economico. Ora per entrare dobbiamo chiedere permesso. Certo gli attori sullo scenario internazionale erano gli Andreotti, gli Spadolini, i Craxi (per limitarci alla fine del XX secolo) adesso mettiamo in campo Alfano e Mogherini. Ci piace perdere facile.

L’altro ragionamento, più complesso, ma nel quale provo a muovermi con meno superficialità, riguarda le aziende private e il ruolo del pubblico. Se uno Stato ritiene che un’azienda sia strategica per il suo sviluppo o la sua sicurezza che fa? Beh le risposte sono diverse: se questo Stato è l’Italia le regala a imprenditori privati, preferibilmente stranieri e paga anche i debiti, se invece stiamo parlando della Francia, le nazionalizza. L’Italia dice: il governo non può intervenire, ci mancherebbe altro, ci sono le regole europee, la concorrenza, il libero mercato. La Francia dice: nazionalizziamo, l’Europa tace.

Insomma, secondo le regole europee si può nazionalizzare un’impresa o un settore? Fateci capire bene, non siamo né giuristi né economisti, ma l’anello al naso non lo portiamo più da anni. Noi abbiamo regalato Telecom, rete di comunicazione, Alitalia, trasporto aereo, le acciaierie, il polo chimico, l’Alfa Romeo. Insomma, settori che qualsiasi governante dotato di media intelligenza definirebbe “strategici” sono passati di mano per due lire. E spesso sono stati anche amministrati peggio dai colossi multinazionali che li hanno ereditati o sono stati fatti fallire scientificamente per favorire industrie analoghe in altri Paesi. Ma se si può nazionalizzare e quindi proteggere industrie chiave, anche sostenendole in periodi di crisi, per quale motivo noi abbiamo avuto negli anni passati questa sorta di sacro furore contro il pubblico?

E mica è finita, perché in Italia, e siamo al paradosso, ci sono ampi settori della politica che hanno premuto e premono per far gestire ai privati (meglio se stranieri) anche gli stessi servizi pubblici. Per fermarci a Roma abbiamo messo sul mercato Acea, l’abbiamo trasformata in Spa, pur mantenendo la maggioranza in mano pubblica, per fare cassa. E adesso ci lamentiamo per l’inefficienza aumentata negli anni. La Capitale rischia di rimanere senz’acqua. Non basta: abbiamo addirittura loschi figuri che raccolgono le firme perché vorrebbero privatizzare anche il trasporto pubblico. Per non parlare della sanità dove la maggioranza dei posti letto sono privati. Anzi, a essere puntigliosi sono “accreditati”, ovvero privati pagati dal Servizio sanitario nazionale, dai soldi nostri. Perché i nostri imprenditori sono talmente bravi e coraggiosi che vogliono tutti i guadagni ma non i rischi: non vogliono la concorrenza, vogliono la garanzia.

Se ci pensate bene c’è materia da psichiatri, ma di quelli bravi. Il meccanismo è un po’ questo: c’è un servizio che deve essere garantito dallo Stato, lo peggioro, metto il settore pubblico che lo gestisce in condizione di non funzionare (gli nego i fondi, lo infarcisco di raccomandati, lascio che tutto si sfasci) e poi invoco il santo intervento di imprese private. Che ovviamente costano di più (perché lo Stato non ci deve guadagnare, il privato sì) e spesso non garantiscono neanche un servizio migliore. Perché non avendo come interesse il bene comune, ma il proprio, quando chiedi una prestazione non ti propongono quella più appropriata, ma quella su cui guadagnano di più.

E allora ci sarà una ribellione, immaginerà chi non conosce noi italiani. E invece no. Troviamo qualche azzeccagarbugli che ci dice “l’Europa ci impone la concorrenza, bisogna fare le gare”. Qualche gruppo editoriale sostiene la balla e questa diventa verità assoluta. Poco importa che queste gare non le faccia nessun altro Stato. Noi siamo per il libero mercato. Loro nazionalizzano.

Il caso delle agenzie di stampa è emblematico. Il governo per affidare il servizio ha deciso di fare una gara europea. Un settore che più strategico non si può, quello dell’informazione alle e sulle istituzioni noi rischiamo di affidarlo a un’agenzia francese o inglese. In pratica le notizie sull’Italia al Governo e alle altre amministrazioni le daranno giornalisti di altri Paesi. E gli altri governi ovviamente faranno lo stesso? Manco per niente, sostengono le loro agenzie che danno occupazione ai loro giornalisti. Ma non era un obbligo europeo? Ma quando mai.

Questa ansia privatista ed esterofila è tipica del nostro Paese, tipica del nostro provincialismo, per cui abbiamo un senso di inferiorità innato. Ecco, questo, secondo me, è un bel campo di discussione per la ricostruzione di una sinistra autonoma e alternativa. Il ruolo del pubblico dell’economia deve essere quello di semplice spettatore, oppure deve lo sviluppo deve essere progettato e indirizzato, anche intervenendo direttamente? E quale deve essere il rapporto con gli altri Stati europei? Possiamo finalmente tornare ad avere un rapporto paritario e non essere sudditi? E’ possibile dare a questi temi una risposta che non sia quella di chiusura a riccio della destra populista?

Io credo che sia una delle sfide che dobbiamo raccogliere. Invece di pensare a improbabili leader, alla promozione dei nostri curricula, torniamo a ragionare, a confrontarci, torniamo a pensare il futuro.

L’Ulivetto, la rotazione e altre baggianate.
Il pippone del venerdì/20

Lug 21, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

E’ passata una settimana dall’ultimo appuntamento con il pippone del venerdì, ma non ho cambiato idea: sono sempre più convinto che l’ostacolo per l’unità della sinistra in Italia sia Giuliano Pisapia. Per non parlare della strana fauna che gli gira attorno: maestri della politica da salotto che sarebbe bene mandare ad attaccare robuste quantità di manifesti.

Pisapia, bontà sua, ha passato due giorni a Roma per incontrare personalità della sinistra, ma anche del Pd. E già questo si capisce poco. Il risultato di questo lavorio è stato uno striminzito comunicato congiunto con il coordinatore di Articolo Uno, Roberto Speranza, nel quale si auspica un’accelerazione nel processo di formazione di una nuova forza politica progressista. Poco altro. Poi, i soliti retroscena, vero scandalo del giornalismo italiano, ci fanno sapere, nell’ordine che:
1) Gad Lerner quando D’Alema nomina Pisapia si gratta parti non telegeniche;
2) Pisapia conta sempre nell’alleanza con il Pd di Renzi;
3) Prodi benedice l’operazione;
4) Orlando punta all’alleanza con Pisapia.

L’operazione, par di capire, sarebbe una riedizione in scala ridotta dell’Ulivo, un Ulivetto a esser magnanimi, che comprenderebbe equivoci personaggi del centro, ex galeotti compresi, per arrivare fino a Pippo Civati. Resterebbero fuori il movimento di Falcone e Montanari, Sinistra Italiana e ovviamente quelli di Rifondazione che vedono Articolo Uno come il braccio armato del liberismo. Secondo Pisapia, insomma, troppo rosso non va bene. Come il primo luglio, quando in piazza dal palco hanno chiesto di non far sventolare le bandiere per non disturbare. Troppo rosso, appunto.

Insomma, mentre in tutto il mondo la sinistra dà risposte in termini radicali alla crisi che la attanaglia da un decennio, in Italia torniamo a sventolare non le nostre bandiere ma le ricette degli anni ’90. Non è politica, è cinema. Per non parlare della prospettata cabina di regia che dovrebbe guidare questo percorso: un rappresentante per ogni forza politica, più i sindaci “arancioni” più singole personalità. Compito di questo coordinamento sarebbe, fra gli altri, quello di trovare le forme per partire dal basso. Insomma, si nomina dall’alto un coordinamento che deve poi partire dal basso. Se la raccontiamo in giro ci rinchiudono.

Ora, quello che manca, secondo me è proprio la percezione della realtà. Si continua a ripetere come un mantra la parola centrosinistra, mentre le coalizioni che si richiamano a questo concetto vengono letteralmente spazzate via in tutta Italia. Si continuano a nascondere il rosso, il socialismo. La nostra storia deve essere negata. Si tengono nascosti in soffitta i nostri padri ideali, da Marx a Gramsci (io che sono estremista ci metterei anche Togliatti, pensate un po’). Si continuano a progettare nuovi soggetti politici senza darsi una prospettiva, una base culturale. Per quale motivo, lo scrivo ancora una volta, abbiamo deciso che una intera cultura politica, quella che viene dal Pci, non può più avere cittadinanza in Italia? Per quale motivo siamo condannati a questa eterna sindrome di Tafazzi?

Altro argomento interessante è la strana fauna che attornia questo presunto federatore del nulla. Simpatici ragazzotti che si ergono a statisti del terzo millennio e proclamano solennemente che vogliono portare in Parlamento “il miglior ricercatore d’Italia”. Bella soluzione per l’annoso problema della selezione della classe dirigente: si mandino i curricula, si fa la rotazione delle cariche. Questa baggianata l’ho già sentita. Fa il paio con l’avversione per il finanziamento pubblico ai partiti, con le campagne contro la casta. Bisogna portare le competenze in Parlamento. Poi se questi non capiscono un tubo di politica poco male, tanto sono i migliori.
Altri vanno in giro per l’Italia a rivendicare il loro voto favorevole al referendum costituzionale. Altri ancora ci fanno la lezioncina sul fatto che bisogna evitare il rischio “sinistra arcobaleno”. Però sono pronti a tornare al loro ruolo naturale di foglia di fico per Renzi.

Io mi chiedo dove li abbia trovati, perché mica deve essere stato facile mettere insieme una squadra così di livello. Non vorrei replicare punto per punto, perché ho già ampiamente scritto su ognuno di questi temi nel corso di questi ultimi mesi. Una sola domanda vorrei fargli: ma se uno è il miglior ricercatore d’Italia perché non metterlo in condizione di svolgere al meglio il proprio lavoro? In Parlamento non sarebbe meglio portarci i migliori politici d’Italia, quelli in grado di ascoltare le sue esigenze e di tradurle in proposta politica? Guardate che questo, come si seleziona la classe politica (e dunque come si rifondano partiti politici veri, democratici e utili) è il vero tema, il vero nodo che non riusciamo a sciogliere.  A meno che il loro fine ultimo non sia semplicemente costituire una sorta di sinistra delle larghe intese, da Berlusconi a Pisapia. Se è così, auguroni.

Ultima notazione, perché siamo ormai in pieno clima vacanziero e sarà bene che anche i pipponi siano più snelli: mentre noi stiamo a discutere sul nulla, quelli che contano già preparano il prossimo attacco. E’ proprio di oggi un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera (roba seria altro che Repubblica) nel quale si individua il vero obiettivo, il nemico da abbattere. La prima parte della Costituzione. Quella relativa ai principi. Va cambiata radicalmente perché sarebbero quei principi a ingessare la nostra società e a rendere il Paese non in grado di competere. Sia a livello di sistema politico che, ma guarda tu, di sistema economico.

Ecco, cari compagni, questo è quello che ci aspetta nei prossimi mesi. Altro che tende da spostare, altro che discussioni sulle cabine di regia, altro che raffinate dispute epistemiologiche sul sesso degli angeli.

Scarpe rotte, eppur bisogna andar.



Unità della sinistra, l’ostacolo si chiama Pisapia.
Il pippone del venerdì/19

Lug 14, 2017 by     5 Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Chi mi conosce sa bene che dico quello che penso. E non voglio di certo venire meno adesso che ce ne è più bisogno. Ho ascoltato tutti gli interpreti, a titolo vario, ho letto le dichiarazioni, digerito i retroscena, sono stato al Brancaccio, sono stato a Santi Apostoli, sono stato al confronto tra Fratonianni, Falcone e Rossi che c’è stato ieri sera alla festa romana di Si. Sono un paio di mesi che ci penso. E non me la spiego altrimenti. Sono tutti d’accordo sui temi, sono tutti d’accordo sul percorso, sulla necessità di non dare vita a una mera aggregazione elettorale ma di far partire un processo che porti a un nuovo soggetto politico unitario (non unico). Articolo 18, investimenti, progressività fiscale, tassazione dei grandi patrimoni, welfare. E poi identità di una nuova sinistra. Che si allontani dalla terza via di Blair e sia più simile a Corbyn. Nessuno dissente, si chiama fuori al massimo il solo Acerbo, nome omen verrebbe da dire, oscuro segretario di Rifondazione comunista, ma abbiamo detto lista unitaria, unica sarebbe impossibile. Dico di più: si moltiplicano gli appuntamenti, a livello locale, nelle feste estive soprattutto, dove in calendario c’è proprio il tema di come si scrive (prendo a prestito lo slogan di Sinistra italiana non me ne vorranno) una nuova agenda per la sinistra. Appuntamenti dove il carattere unitario è molto forte, a partire dagli interlocutori.

Dico ancora di più. Se escludiamo quattro esperti in settarismo da tastiera che farebbero bene a mettere la testa fuori dal web, più ci spostiamo dai vertici verso la base, verso quel popolo della sinistra evocato da tutti, più il messaggio è chiaro: questa volta o state tutti insieme oppure non ci provate neppure a chiederci il voto. Lo ha capito bene D’Alema, che in questi mesi è davvero quello più in forma. Lo sciopero del voto confermato nelle ultime amministrative si allarga, altro che storie. Si argina soltanto quando ci sono esperienze con tre caratteristiche: unitarie, autonome e alternative al Pd, con una forte radice nei territori.

E allora, ma se questa è la realtà, ma per quale diamine di motivo non si sono ancora seduti a un tavolo, lontano dai riflettori, per buttare giù quattro idee, quattro parole d’ordine? Guardate che noi siamo pronti, dateci i volantini e ci facciamo le spiagge metro per metro, ferragosto compreso. Ecco, la dico chiara, il motivo,l’ostacolo,  secondo me, ha un nome e un cognome: Giuliano Pisapia.

Per non farla troppo lunga e risparmiarvi in questo fine settimana caldissimo, procedo per punti.
Il primo luglio per lui è stato un flop di dimensioni gigantesche: una piazza entusiasta per le parole di un Bersani già in forma campionato, ha accolto con sconcerto i suoi farfugliamenti confusi. La gente si guardava sconcertata. Contenuti meno di zero. Quando ha detto (e ci mancherebbe altro) che bisogna reintrodurre l’articolo 18 c’è stato quasi un sospiro di sollievo collettivo. Carisma, non pervenuto. Capacità di analisi della realtà, nulla. Una figurina telecomandata da potenti gruppi editoriali e dai salotti buoni della borghesia italiana.

Campo progressista e le officine delle idee? Ma chi l’ha visti? Una finzione. La piazza l’ha detto chiaramente: Articolo Uno rappresenta l’unica forza organizzata. E chi farebbe il centro in questo fantomatico centro-sinistra evocato dall’ex sindaco di Milano? Tabacci e Carra? E i preannunciati Letta, Prodi dove stavano? Tutti in campeggio.

E poi la cronaca di queste settimane successive alla manifestazione: la richiesta, reiterata e nuovamente respinta al mittente, di sciogliere Articolo Uno. Non si capisce bene per quale motivo e in cosa si dovrebbe sciogliere. La sinistra si deve radicare nelle città, altro che sciogliere. E poi l’assenza di Pisapia sulle questioni che si pongono di giorno in giorno. Sui migranti, sulle banche, sul Ceta. Dove sta il sedicente leader? Poi la reazione allergica all’idea della cabina di regia della sinistra. Ieri quest’altra grande trovata: non mi candido alle elezioni. Ora, Giuliano caro, ma chi ti credi di essere? Non sei un generale, non hai un esercito, non federi alcunché, ci aggiungo anche che negli anni scorsi non ne hai azzeccata una. Insomma, datti una calmata. E sia chiaro: le prossime elezioni non sono la fine del mondo, ma sono una tappa decisiva nella ricostruzione della sinistra. E allora tutti in campo: quando si devono prendere i voti, i leader servono. E un leader dove lo vedi? Dal consenso che riesce a raccogliere. Tutti dentro la battaglia, territorio per territorio. Casa per casa, metro per metro. O si pensa che bastino gli editoriali benigni di giornalisti amici per generare automaticamente consenso? E poi il Parlamento è il centro della politica italiana, questa idea dei leader che si tengono lontani dalle Camere la trovo non solo sbagliata ma opposta alla mia concezione di democrazia.  Chi vuole contribuire a far crescere il Paese, chi vuole partecipare alla vita politica si candidi e dia il proprio contributo nelle aule del Parlamento. E’ un onore, non una vergogna.

Insomma, io ho sempre cercato, da quando sono uscito dal partito democratico, di essere inclusivo. Abbiamo aspettato gli altri che ancora erano dentro. Non sono per chiudere le porte a nessuno. Ma inclusivi verso chi? Io direi verso gli elettori soprattutto. E adesso non credo sia il momento dell’affermazione del proprio ego. A meno che, questo quello che penso davvero, a meno che non ci sia una profonda divergenza di prospettive.

Ecco, ma fosse sempre il solito il problema vero? Malgrado le affermazioni, la linea di Pisapia e soci resta la stessa: convincere Renzi che serve un’alleanza, che non può andare alle elezioni da solo. Insomma vorrebbero, con la regia di Prodi, ingabbiare, depotenziare il segretario del Pd, con una manovra di accerchiamento: da un lato loro, i padri nobili che gli fanno no con il ditino, dall’altro Orlando, ma anche Francheschini, Bettini e Veltroni che fanno il controcanto dentro il Partito. Da qui l’allergia a una alleanza a sinistra e, ancora di più, alla costruzione di un polo della sinistra in Italia. Pisapia dica chiaramente, per una volta, quale è la prospettiva a cui lavora: una forza alternativa e autonoma dal Pd o l’ennesima stampella a un progetto traballante? Se il suo piano è il piano B, non abbiamo nulla da dirci: uscire dal Pd per farci un’alleanza elettorale insieme, non avrebbe senso. Renzi è sempre quello del jobs act, della riforma costituzionale, delle leggi liberticide come il decreto Minniti.

Nel primo caso, invece, Pisapia scenda dal piedistallo e si metta al servizio, insieme a tutti gli altri, senza primogeniture o presunte leadership. Un leader ha due strade per diventare tale: o è riconosciuto da tutti oppure ha una legittimazione democratica. Secondo me, tra l’altro, alla sinistra italiana serve un gruppo largo e non un capo, la legge elettorale non prevede alcuna forma di indicazione del candidato premier. E comunque la questione sta in fondo all’agenda e non al primo punto.

Enrico Rossi, al confronto che citavo all’inizio ha fatto una proposta che mi pare di grande buonsenso: costruiamo l’unità sui temi, a partire dalla manovra di stabilità. Quello è il momento vero in cui – seppur in ritardo – affermare la nostra discontinuità con il passato e rompere con le politiche renziane che Gentiloni sta portando avanti. La sinistra si metta a sedere attorno a un tavolo e scriva un emendamento comune con quattro idee per il paese. Io alzo il tiro: presentiamo, tutti insieme, una contromanovra. Abbiamo le competenze per farlo. Facciamo vedere che siamo sinistra di governo non a parole ma con i fatti. E poi, niente scherzi: conseguenti fino in fondo. Ci bocciano le nostre proposte, nessuna fiducia a nessuno governo. Serve coerenza fra quanto affermiamo e i comportamenti dei parlamentari.

Allo stesso tempo, l’ho già proposto e lo rilancio, facciamo comitati unitari in tutti i quartieri. Usiamo le feste estive che si stanno moltiplicando in tutta Italia come occasione di dibattito e di incontro. E magari non lasciamo la parola solo ai dirigenti, facciamo parlare il nostro popolo, anzi i nostri quadri, il popolo ancora resta a casa, bisognerà andarlo a cercare a domicilio. Ascoltateci e capirete la nostra voglia di costruire. I retroscena lasciamoli agli editorialisti che guardano la società dal buco della serratura delle veline telecomandate.  Noi abbiamo un altro compito, dobbiamo guardare in faccia la società italiana, quello che non va. Dobbiamo ridare una prospettiva, una speranza. E per fare questo dobbiamo imparare a prenderci i pesci in faccia nelle strade delle periferie. Non discettare sui massimi sistemi in qualche apericena terrazzato.

Bandiera rossa, ridiventa straccio…

 

La fine dell’era dello streaming: partiti addio?
Il pippone del venerdì/18

Lug 7, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La notizia fa epoca (si fa per dire): dopo dieci anni, la direzione del Pd non va in streaming: niente diretta tv, si passa alle “porte chiuse”. Aveva cominciato Veltroni – grande comunicatore – nel 2008, poi la diretta internet è divenuta lo strumento preferito dei grillini (almeno a parole), adesso Renzi pone fine all’era della trasparenza totale (finta). Il presidente Matteo Orfini, all’inizio della seduta ha addirittura invitato tutti ad evitare di usare i social durante la riunione. Insomma, a leggere gli intenti, nello spazio di pochi giorni il Pd sarebbe tornato a costumi in stile Pc anni ’70. Quando le riunioni erano riservate e il giorno dopo trovavi solo le decisioni assunte e soltanto sulle pagine dell’Unità. Ora l’Unità l’hanno uccisa, quindi il problema non si pone.

E infatti, in realtà, non è andata proprio così: i giornali online hanno pubblicato in tempo reale la relazione di Renzi, gli interventi di Franceschini e Orlando, i commenti e i soliti retroscena. Cuperlo, che non fa più parte della direzione ma è invitato senza diritto di parola ha già annunciato che pubblicherà oggi quello che avrebbe voluto dire. Pare che per l’attesa migliaia e migliaia di iscritti al Pd abbiano passato la notte insonne.

Al di là delle battute, mica si è capita bene la motivazione dell’oscuramento della Direzione. Le telecamere sarebbero un’istigazione al litigio, si dice nei corridoi, eccitano gli animi e aumentano il protagonismo. Di motivazioni ufficiali non ce ne sono. Si paventava un regolamento di conti da duello rusticano tra Renzi e Franceschini. In realtà, Renzi lo ha un po’ preso per il sedere, Franceschini come tutta risposta ha votato a favore della relazione del segretario. Il senso dell’importante documento? “Mi hanno votato alle primarie, ora faccio come mi pare”. Il ministro dei Beni culturali se ne faccia pure una ragione: dovrà lavorare meglio e di più per accoltellare il leader. Dopo Veltroni, Bersani e Letta, del resto oramai è un esperto.

Ora, direte voi, ma che ce ne frega se la direzione del Pd va in streaming oppure no? Davvero poco in realtà, anche perché, come già detto, chi vuole sapere cosa è successo viene ampiamente informato praticamente in diretta dalle solite veline che fanno circolare gli staff.  Una Meli che le virgoletta e te le stampa sul Corriere si trova sempre. A buon mercato, non costano neanche tanto. La diretta streaming, insomma, è roba da addetti ai lavori. Al massimo aiuta quei giornali locali che non si possono permettere un inviato a Roma.

La cosa interessante, però, è il cambiamento direi quasi “di costume” direi che avviene nella politica italiana. I 5 stelle, in questo caso, sono stati i primi assoluti a dismettere lo streaming. Del resto la segretezza, al di là dei proclami ufficiali, è il loro marchio di fabbrica. Segreti sono i meccanismi di votazione, riservatissimi tutti i colloqui, segretissimi i criteri per la scelta di tutte le cariche. Lo streaming lo hanno preteso solo per sbattere in faccia il loro no alla proposta di Bersani dopo le elezioni del 2013. Vollero umiliare l’allora segretario del Pd. Continuo a pensare che un governo Pd-Sel con l’appoggio esterno del M5s (una sorta di riedizione della non-sfiducia dei tempi antichi) avrebbe rappresentato una rivoluzione per il nostro Paese. Ma questa è un’altra storia.

Insomma, la fine della diretta streaming in politica rappresenta davvero la fine di un’epoca. Ma non quella della trasparenza nella vita interna dei partiti, che, se permettete, è una grossa stupidaggine. La data di ieri, cosa davvero più rilevante, rappresenta la fine certificata dell’ultimo partito di massa presente in Italia. Che Renzi avesse da sempre una sorta di “invidia penis” nei confronti di Grillo, Berlusconi e Salvini, questo si sa. Tutti leader che fanno e disfano senza dover fare congressi, primarie, direzioni. Che il segretario del Pd provasse una sorta di fastidio per le forme democratiche di partecipazione lo avevano già intuito gli italiani: tutte le riforme istituzionali tentate dal fiorentino tendono ad eliminare la possibilità per i cittadini di scegliersi i propri rappresentanti.

Nella direzione di ieri ha esplicitato il suo ragionamento: sbagli – ha detto all’ex fedelissimo Franceschini – a esternare le tue critiche sui giornali. Ci sono gli organismi dirigenti di partito per parlare. Parla qui. Tanto non me ne frega nulla perché io rispondo soltanto ai due milioni di cittadini che mi hanno eletto. Insomma, non puoi parlare sui giornali perché danneggi il partito, ti puoi sfogare qui, tanto non ti ascolta nessuno. E attento, caro Dario, perché c’è da fare le liste. Per la cronaca: i due milioni, sono un milione e otto scarsi, e solo il 70 per cento di loro ha votato Renzi. Cambia poco, ma in questo Paese le leggende a forza di essere ripetute diventano realtà, meglio essere pignoli.

Insomma per farla breve, io la vedo così: perché trasmettere in streaming un “non dibattito” in un “non partito”? Il Pd, ormai, è affare interno di casa Renzi, che per caso voi trasmettete in streaming i pranzi di famiglia?  Se ne facciano una ragione quelli che si definiscono “sinistra” o “minoranza” del Pd. Ormai sono soltanto la foglia di fico piazzata lì dallo stesso Renzi per cercare di frenare la vera e propria diaspora che il Partito democratico sta subendo giorno dopo giorno. Centinaia di quadri e dirigenti che se ne tornano a casa. Fogli di fico utile fino a quando non alzano troppo la testa. Perché allora arriva la mannaia. Inesorabile. E del resto, fra un po’ c’è da fare le liste. Meglio starsene buoni, in fondo.

E’ finito il sistema dei partiti. Questa è la verità. La cosa può far felici anche i populisti di tutte le risme, ma la verità è che si produce una grave ferità, perché i partiti rappresentano uno strumento insostituibile di partecipazione alla vita democratica che non può essere limitata al fare una croce su una scheda, dove, tra l’altro, molto è stato già deciso. Questa è la verità e questa è un’emergenza. Perché rappresenta un po’ lo specchio estremo della nostra società. Una società in cui, malgrado l’illusione della comunicazione permanente, si è sempre più isolati, chiusi nel narcisistico isolamento del like sui social, si è sempre più singoli e meno comunità. Per questo è importante non solo ricostruire una forza politica che dia una rappresentanza alla sinistra nel nostro Paese, è importante ricostruire una comunità politica, una casa fatta di un “cielo”, una identità precisa, e una “terra”, una piattaforma di proposte nette e radicali che possano dare un futuro a questa terra stanca. E questo lavoro, non sarà facile, ma è quello che serve davvero non solo alla sinistra, ma al nostro Paese.

Un’ultima notazione, fuori tema, e vi lascio prima del solito, fa caldo e non voglio sterminare i lettori. Regione Lazio: avanza la candidatura del sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, arretra quella di Nicola Zingaretti, tentato da un più comodo seggio in Parlamento. Tempi duri ci attendono, non che questi anni siano stati rose e fiori, tutt’altro. I prossimi, con questi dati di partenza, saranno peggio.

Rossi: “Articolo Uno rompa con il governo Gentiloni”

Lug 6, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

Un centinaio di persone che discutono fino a notte. Succede nella campagna romana ma, come dice Enrico Rossi, presidente della Toscana e oratore principale della serata, sta succedendo in tutta Italia. Il tema è “La lezione inglese”, ma da Corbyn, su cui fa un ampio quadro Pietro Folena, recuperato all’impegno politico, dopo anni di “studio”, si arriva ben presto all’Italia. E Rossi, con il suo modo pacato, mette in fila in rapida sequenza tutti i temi in campo. Si spazia dall’appoggio al governo Gentiloni, alla ricostruzione della sinistra, alle scadenze elettorali. Su Gentiloni, in particolare, usa parole molto ferme. Lo definisce “fotocopia sbiadita del governo Renzi, da cui dobbiamo prendere rapidamente le distanze”. E il presidente della Toscana indica anche i provvedimenti su i gruppi parlamentari di Articolo Uno devono prendere una posizione netta, nelle prossime settimane: “Il Ceta, l’accordo fra Europa e Canada, che rischia di mettere in crisi la nostra agricoltura, e il decreto sulle banche: non è possibile che i debiti siano pubblici e i profitti privati. Ecco su questi due provvedimenti, secondo me, serve un voto contrario. Una posizione che forse avremmo dovuto prendere anche sui voucher. Ma ora non si possono più rinviare le scelte, non possiamo aspettare la manovra di stabilità. E sono sicuro che anche al Senato il governo troverà comunque i voti per andare avanti, arriveranno da Forza Italia, chiarendo così, di fronte al Paese, qual è il progetto di Renzi e del Pd”.

Quando Rossi dice queste parole, ormai è buio. L’incontro è iniziato in ritardo, complice un traffico reso ancora più infernale del solito dalla chiusura della Colombo all’Eur. Ma il grande gazebo della Cooperativa Agricoltura Nuova, in via di Castel di Leva si riempie rapidamente. E non si svuota fino alla fine, quando si passa alla cena di sottoscrizione. E dopo un primo giro di Folena e Rossi, a sottolineare il bisogno di politica e la voglia di partecipazione, c’è anche lo spazio per una decina di interventi: 5 luglio, ore 21, cento persone arrivate da tutta Roma, ascoltano, si appassionano. Forse, invece, di tante parole a spiegare la parola sinistra basta questa immagine.

Tornando a Rossi. Il fondatore di Articolo Uno delinea un percorso preciso: “Noi non ci sciogliamo. Vogliamo essere non solo l’infrastruttura, ma anche l’anima, il pensiero di un nuovo soggetto politico federato, insieme a tanti a altri. Io credo che questa sia la condizione: se uniamo la sinistra, il nostro popolo è disposto darci ancora fiducia. Non sarà facile riportarlo alle urne, ma, lo ripeto: l’unità è la condizione. Altrimenti ci direbbero che vogliamo solo arrivare in Parlamento. Dobbiamo intensificare il dialogo. Con Sinistra Italiana, con Montanari, con tutti i soggetti, anche più moderati che si riconoscono in un programma chiaro e netto. Avviamo un percorso, in cui Articolo Uno si deve rafforzare e organizzare, per arrivare, dopo le elezioni a un congresso che dia vita a un nuovo partito della sinistra”.

E in questo percorso, lo dicono un po’ tutti, la “lezione inglese” deve essere tenuta ben presente: c’è bisogno di ricostruire una precisa identità, Rossi usa spesso anche le parole “ideologia” e “socialismo”.  E c’è bisogno di rompere nettamente con la stagione del liberismo, dalla quale “anche noi troppo spesso ci siamo lasciati ingannare. Il mercato senza regole, senza intervento dello Stato, portano sempre più squilibri. “Sanders negli Stati Uniti, Corbyn in Inghilterra – spiega il dirigente di Articolo Uno – fanno un’analisi di classe della società: all’interno della crisi individuano i gruppi sociali che vogliono rappresentare. E si prefiggono di dare voce a quella larga maggioranza della società, quei ceti popolari che in questa crisi soffrono, vengono messi ai margini. Pensano a un ruolo forte dello Stato che redistribuisce la ricchezza che in questi anni si è concentrata sempre più nelle mai di pochi. Renzi ha programma neoreganiano, noi abbiamo idee radicalmente differenti”.

Investimenti, uguaglianza, sanità pubblica su cui tornare a investire, la scuola, le case popolari, i trasporti, reintrodurre l’articolo 18. Queste le priorità su cui puntare. Tassare i patrimoni e i redditi più alti per trovare le risorse. “C’è ricchezza in questo Paese – conclude Rossi – va redistribuita per produrre quella svolta che serve all’Italia”.

Feste de L’Unità? Cancellate quel nome, non lo meritate

Lug 4, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

La vicenda de L’Unità ha dei contorni scandalosi. Andiamo con ordine per capire cosa è successo negli ultimi anni. Il Pd lo appalta a un gruppo imprenditoriale, mantenendo una quota del 20 per cento e il diritto di indicare il direttore. Il risultato è un giornale quasi illeggibile. Un bollettino renziano, con punte di assurdità mai raggiunte prima: la rubrica quotidiana per descrivere le presunte malefatte di un altro quotidiano è una vera e propria bestialità non solo per quello che l’autore ogni giorno ci propina, ma per la natura stessa dell’operazione. Che senso ha un quotidiano che invece di raccontare la realtà spiega cosa scrive la concorrenza? La faccio breve: morale della favola, un giornale così scritto non vende una copia, entra a malapena nelle rassegne stampa. I redattori chiedono più volte un progetto editoriale serio, con gli investimenti  necessari a far tornare una testata gloriosa ad essere un giornale vero.

Nulla di tutto ciò. L’editore, nel silenzio del Pd, non paga lo stampatore, non paga gli stipendi ai giornalisti. Il giornale sospende le pubblicazioni e i redattori restano in un limbo assurdo, nel silenzio quasi totale: senza stipendio, ma anche senza cassa integrazione o indennità di disoccupazione.

Fine dei danni? Neanche un po’. Perché nel frattempo, annunciato come il nuovo giornale del Pd, arriva “Democratica” un foglio digitale di pessima fattura, diretto dall’ex condirettore de L’Unità, un oscuro parlamentare ex montiano. E viene pubblicato, se non fosse abbastanza, sul sito de L’Unità stessa, che era rimasto, per un gioco schifoso di proprietà del Pd e aveva una redazione autonoma.

Insomma, si chiude un giornale glorioso, si lasciano i giornalisti a bagno. E si utilizza il sito per lanciare un nuovo giornale. In altri tempi la Fnsi (il sindacato unitario dei giornalisti) avrebbe preteso (non chiesto), quanto meno, che nel nuovo quotidiano fossero assorbiti, almeno in parte, i giornalisti ex Unità. In altri tempi i colleghi di Democratica si sarebbero rifiutati di dar vita a un’operazione così squallida. Tant’è, ognuno fa i conti con la proprio coscienza. Io da ragazzo quelli così li chiamavo crumiri e mi facevano anche un po’ schifo.

Una cosa però è davvero insopportabile: il Pd, come niente fosse continua a organizzare in tutta Italia feste de L’Unità. Cioè feste intitolate allo stesso giornale che hanno violentato e ucciso. E questo lo trovo davvero incredibile. La decenza è stata superata da tempo, ormai siamo oltre. Di tanto.

Piazza Santi Apostoli, primo luglio: le mie pagelle

Lug 3, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

Intanto diciamolo: una piazza molto inclusiva che ha saputo accogliere i tanti compagni (e non solo) arrivati da esperienze diverse senza neanche una smorfia. Nessun fischio, solo tanti abbracci per amici ritrovati e con cui speriamo di percorrere una nuova strada insieme. Qualcuno deve ancora scegliere, ma noi siamo gente che aspetta. Detto questo vediamo i voti, come sempre siamo severi

Cosa mi è piaciuto.

La piazza. Come detto, molto allegra, colorata (molto rosso che ci sta bene). Eravamo quasi sorpresi di ritrovarsi tutti lì, senza troppe nostalgie per il passato, ma consapevoli che le radici comuni sono importanti per andare avanti. Voto: 9.

Pierluigi Bersani. Da settimane ogni volto che lo ascolto mi convince di più. Sembra liberato dai pesi che lo hanno frenato in passato  ai tempi del governo Monti e della campagna campagna elettorale. Giustamente invoca discontinuità non solo con il passato recente, ma anche con le politiche del centrosinistra negli anni ’90 (di cui però non vogliamo buttare tutto, anzi). Ci mette i contenuti giusti. Unica notazione: l’incoronamento di Pisapia come leader potevamo anche lasciarlo perdere. La legge non prevede l’indicazione di un candidato premier, la sinistra ha bisogno di un gruppo dirigente plurale e giovane. Non di capi. Voto: 8.

Gli interventi dal palco. Tanti, brevi, alcuni anche molto interessanti. Tutti pieni di contenuti, rappresentano una sorta di “mappa della sinistra diffusa”, dalla quale attingere energie e intelligenze. Voto: 8.

Massimo D’Alema. Per la seconda volta assiste senza intervenire, la prima era stata al Brancaccio.  Il fatto che un leader sappia anche ascoltare e non solo parlare, a me piace molto. E poi quando parla si capisce che ha ascoltato. Però alla prossima un suo intervento lo vogliamo. Voto: 8.

I leader in mezzo alla gente. Da Stefano Fassina a Pippo Civati, ma anche parlamentari come Marco Miccoli, personalità come Livia Turco, Angelo Bonelli, consiglieri regionali come Riccardo Agostini. (Sono quelli che ho visto, mi scuso per le sicure omissioni). In tanti hanno preferito non stare nel retropalco riservato ai vip, ma in piazza, da comuni cittadini. E anche questo fa bene alla sinistra. Voto: 9.

Le cose che non mi hanno convinto.

Il palco. La scritta con i palloncini, che andava di moda ai compleanni vip negli anni ’80, non la usano più neanche alle sagre di paese. Da rivedere la grafica, senza mordente. Troppo poco da piazza, infine, la conduzione di Gad Lerner. Voto: 6-.

Giuliano Pisapia.  Il ragazzo si impegna, si vede che studia signora mia. Ma per raggiungere la sufficienza piena dovrà ancora lavorare. Ora. Aapprezziamo il fatto che abbia abbandonato la follia delle primarie di coalizione con il Pd, una sorta di suicidio preventivo. Apprezziamo il fatto che abbia sottolineato il fatto che stiamo dando vita a una nuova casa del centrosinistra, un soggetto politico alternativo al Pd. Però ragazzo mio, non basta mettere insieme il ricordo dell’amministrazione milanese con un po’ di buon senso alla Prodi (troppo citato, lasciamolo nella sua tenda). Qua dobbiamo ridefinire la nostra identità. Serve uno sforzo, collettivo, molto maggiore. Voto: 6 – – (di incoraggiamento).

Cosa non mi è piaciuto.

Chi non c’era. A partire dai promotori dell’assemblea del Brancaccio. E la sparata del giorno prima da primedonne offese peggiora il giudizio. Il 18 giugno siamo venuti ad ascoltarvi, i nostri leader si sono seduti e hanno ascoltato per ore, seduti e silenti. Ora siccome siete anche bravi, ma non siete il Papa, potevate fare lo stesso. Vale quanto detto per D’Alema. Serve anche ascoltare, serve anche guardare le facce della gente per capire quanta voglia di ripartire (insieme) ha il nostro (anche vostro) popolo. Voto: 4.

La ragazza contro le bandiere. Benedetta aspirante suicida, ma che ti metti a polemizzare con una piazza intera che aveva voglia di far vedere la propria presenza? Inutile e (per i maligni) anche tesa a minimizzare il rosso prevalente, l’appello a non sventolare alcun vessillo per non disturbare le immagini televisive. Lo sventolio ha un suo corso, parte intenso, poi ci si stanca e si ripongono le bandiere. Voto: 3 (sulla fiducia).

La foto di gruppo. Ragazzi l’ho già scritto, qua bisogna che la generazione dei Bersani, D’Alema, Pisapia, Tabacci, Prodi, Lerner e via dicendo faccia spazio ai giovani dirigenti che abbiamo. Che non sono pochi e sono anche bravi e coraggiosi. Qualcuno l’ha capito e prova a svolgere il ruolo, essenziale, di “padre nobile”. Altri per me tendono a occupare ancora troppo la scena. E la foto di gruppo che ne esce fuori appartiene al secolo scorso. Voto: 4 (con affetto).

E domani si torna in piazza: per fare la sinistra.
Il pippone del venerdì/17

Giu 30, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

E domani si torna in piazza: per fare la sinistra. <br>Il pippone del venerdì/17

Mettetevi seduti che ve la dico brutale: secondo me ha ragione Renzi. I ballottaggi delle elezioni amministrative di domenica scorsa dimostrano una cosa semplice: la formula del centrosinistra che è in voga dal 2007, ovvero Pd più liste civiche e cespuglietti della sinistra, non funziona più. Le conclusioni del neosegretario del Partito democratico, insomma, sono esatte, anche se muove da un’analisi del voto completamente errata. E’ falso, infatti, che non ci sia bisogno in Italia di un’aggregazione che unisca le forze progressiste – mi piace chiamarle così perché centrosinistra mi sa tanto di politichese – e che rappresenti un’alternativa credibile al liberismo della destra e al sovranismo che tanto va di moda anche in spezzoni della sinistra. Tutt’altro. Non solo ce ne è bisogno, ma è essenziale. Quello che è finito, al contrario, è un modello di alleanza dove c’era un soggetto centrale, il Pd, che con la sua forza attrattiva faceva da traino agli alleati, deboli, subalterni, utili soltanto a rappresentare quella foglia di fico necessaria per arrivare a vincere i ballottaggi. E non funziona più per un semplice motivo: il Partito democratico, da elemento attrattivo è diventato una sorta di veleno che inquina i pozzi, anche quelli dove andiamo a bere noi. Basta guardare i miseri risultati delle liste di sinistra quando si alleano con i renziani. E anche quelli delle liste che fanno dell’antirenzismo il loro unico punto politico, paradossalmente, non paiono un granché. Vanno bene, al contrario le esperienze che partono dal basso, dalle realtà locali (ecco, io eviterei il termine liste civiche perché serve soltanto a generare confusione). E dove la sinistra si presente in maniera autonoma non solo raggiunge risultati considerevoli,  anche oltre il 20 per cento, ma riesce a trascinare il Pd alla vittoria al secondo turno. Padova è un esempio, ma ci sono tanti realtà più piccole sparse per il Paese.

Di questo processo si sono accorti anche autorevoli esponenti del Pd che si affrettano a invocare un nuovo tipo di coalizione, con un forte connotato civico. Che, tradotto dal politichese, vuol dire più o meno due cose:
1) Renzi può restare segretario del Pd ma non può essere lui il nostro candidato premier, serve un leader meno consumato dalle sconfitte a ripetizione;
2) Bisogna mascherare un marchio che non tira più, quello democratico appunto, dietro una qualche aggregazione che si tinga di civico. E torna ancora questa parola che adesso sembra diventata magica.

Ancora una volta io non sono d’accordo. Servono due cose. Intanto serve una sinistra forte, che rinasca dal basso, unendo le diverse esperienze cresciute in questi anni, da quelle politiche, a quelle sociali, alle forze sindacali. Non una coalizione civica. Serve una forza politica, molto politica. Che riparta dalle analisi degli economisti della sinistra europea, di quelli che hanno archiviato la terza via blairiana per tornare a parlare il linguaggio della sinistra. E quindi una forza che dica chiaramente di essere contro i privilegi, per l’uguaglianza, per i diritti dei lavoratori, per una scuola pubblica e democratica, per un nuovo stato sociale costruito sulle comunità e non sul dirigismo statale e regionale, per la riconversione ecologica dell’economia. Poche cose dette in maniera netta. Questa forza deve essere costruita nelle strade e nelle piazze delle città. Non in convegni chiusi dove si ritrova sempre la compagnia di giro dei reduci di mille sconfitte. E deve parlare alle forze sociali organizzate, dalle associazioni ai sindacati. Deve parlare ai sindaci indipendenti, da Orlando a De Magistris a Coletta (per restare nel Lazio). E deve essere una forza plurale, che rompa la logica maggioritaria dell’uomo solo al comando per valorizzare una classe dirigente diffusa, per tornare a formare una classe dirigente fatta di persone indipendenti e non di portaborse.

E poi serve la capacità di allargare il campo, di dettare i temi dell’agenda politica e non subirli. Di affermare i nostri valori anche quando i sondaggi te lo sconsigliano. Guardate che sembra semplice, ma non è così: da Berlusconi in poi non abbiamo più scritto noi la il menu, ma lo abbiamo solo letto e subito. Quella che Gramsci chiamava l’egemonia, l’abbiamo subita. Altro che storie.

Io credo che il primo luglio, la manifestazione lanciata da Articolo Uno e da Pisapia, possa essere la giornata giusta per lanciare un progetto di questo tipo. Mi sembra che l’impostazione iniziale, troppo centrata sulla presunta esigenza di individuare un leader sia stata corretta. A quanto si capisce dai quotidiani, mi pare anche che l’asse politico dell’iniziativa sia stato riportato sull’esigenza di una forza politica che sia autonoma, alternativa e in concorrenza con il Pd.

Gli elettori hanno, insomma, ci hanno dato una mano. Hanno spazzato via le incertezze e le titubanze di questi mesi. Mai come in questa occasione si è resa evidente la frattura fra il Pd e quello che era il suo popolo. E’ evidente. Perché ai ballottaggi sono rimasti a casa, ci sono città dove l’affluenza alle urne supera a stento il 30 per cento. Il caso Genova, città medaglia d’oro della resistenza, città ribelle, è emblematico: neanche l’aver contro un candidato della Lega ha fatto uscire di casa gli elettori di sinistra. Riportarli alle urne non sarà il lavoro di un giorno. Ci vorrà il lavoro di una generazione non tanto per mettere qualche toppa, ma per varare una nuova nave. Parliamo di Genova, uso una metafora portuale.

E allora bisogna lavorare su due fronti: quello immediato, in cui serve un’alleanza credibile, larga, in grado di porre argine alla destra che torna forte. Un terzo polo, credibile, che possa rappresentare un’alternativa sia ai moderati di Renzi e Berlusconi che ai populisti di Grillo e Salvini. Una forte rappresentanza in Parlamento ci servirà se vogliamo davvero diventare un punto di riferimento politico per quel pezzo di società che in questi anni si è sentito orfano.

Al tempo stesso serve un lavoro di lungo periodo, con due obiettivi. Intanto definire quale sia l’identità della sinistra. Di una sinistra che parte dalle sue radici ma che ha i piedi ben piantati nel presente e lo sguardo al futuro. Serve una identità nella società liquida? Io direi che serve a maggior ragione. Serve un’ancoraggio forte per resistere ai marosi di un oceano in tempesta.
I programmi li sappiamo fare bene, magari ci vengono un po’ lunghetti, ma siamo bravissimi. Quello che manca è un tratto identitario, in cui riconoscersi. Una nuova utopia, verrebbe da dire. Con il crollo del muro, nell’89, non è venuta già solo l’idea comunista. E’ venuta a mancare la nostra capacità di suscitare passioni, la speranza per chi è più debole di farsi gigante con gli strumenti della politica. Senza un orizzonte non si resiste alle intemperie di una destra che, al contrario, una sua identità ce l’ha e sa adattarla alle condizioni che cambiano.

Secondo: bisogna trovare una forma partito che esca dalla tradizione novecentesca. Io su questo punto sono davvero convinto che la tradizionale piramide, dalla sezione di quartiere alla direzione nazionale non sia più sufficiente. Le sezioni territoriali erano già morte nei Democratici di sinistra, il Pd ha solo rappresentato l’evoluzione di una crisi irrisolvibile. Non erano più da tempo punti di riferimento locali. E adesso i circoli sono “personali”, basta vedere i risultati dell’ultimo congresso romano per averne la prova. Non più luoghi di confronto, di iniziativa politica, di partecipazione e formazione, ma solo aggregazioni dietro un boss locale, a sua volta referente di un boss regionale e così via. E’ questa involuzione, la vera grande trasformazione genetica della principale forza organizzata della sinistra, che ha permesso l’affermazione di avventurieri vari, di cui Renzi è solo l’espressione più alta ma di certo non l’unica. Un modello organizzativo dove si annida spesso il malaffare, dove la corruzione può divenire strumento di affermazione personale. Servono soldi, tanti, per sfamare i clienti.
Veltroni, di cui spesso non ho condiviso il percorso ma che resta una personalità di spicco, l’aveva capito. Quando propose il partito liquido, dove non contavano tanto gli iscritti ma gli elettori, aveva in mente una maniera per scavalcare questa organizzazione basata sul potere personale di piccoli cacicchi locali. Un tentativo fallito, perché alla fine, controllare gli elettori (quando la base si restringe) diventa anche meno faticoso e costoso. Un votante alle primarie costa due euro, un iscritto ne costa una quindicina.

E allora va messo a punto un modello di organizzazione politica che metta in rete, che tenga conto delle diverse identità, che non sia necessariamente individuale, che dia la possibilità di emergere alle personalità più forti, alle competenze, finanche agli eretici, categoria della quale si sente un gran bisogno. Una nuova classe dirigente ci serve. Molto. Sarà utile se nascerà dal conflitto, dalla lotta politica. Se avremo l’ennesima covata di polli da batteria avremo perso la nostra battaglia. Ci serve la partecipazione. Meglio un vaffanculo che un ossequiosa leccata. Rete, partecipativa e democratica. Io sarei anche per scegliere i contenuti più che le persone. Se si ragiona prima di politica, se si costruisce iniziativa, le persone, i dirigenti vengono naturali. La forma con cui ci si organizza, insomma, è sostanza politica. Non semplice sovrastruttura. E che nessuno pretenda che altri si sciolgano da un giorno all’altro, le fusioni hanno bisogno di tempi.

Sono noioso, ripeto le stesse cose a ogni occasione possibile. Speriamo che questa sia la volta buona per uscire dai buoni propositi e cominciare a lavorare sul campo.

Ci vediamo domani. In piazza.

Il pippone del venerdì /16.
Salvate il soldato D’Alema

Giu 23, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

 

D’Alema di’ qualcosa, D’Alema di’ una cosa di sinistra. Ve lo ricordate Aprile? Quella frase che poi è diventata un tormentone? Beh, che dire, Moretti sarebbe stato contento. Perché di cose di sinistra, ieri, D’Alema ne ha dette tante. Ci voleva un caldo pomeriggio di fine giugno una iniziativa semiclandestina organizzata da un’associazione cattolica, nel centro di Roma. Si parla di povertà e diseguaglianze sociali, con religiosi, studiosi, politici. Uno strano parterre. Niente giornalisti, niente assillo della quotidianità. E un D’Alema assoluto mattatore. Quindici, venti minuti. E ti racconta il mondo. Le diseguaglianze, la finanza come generatore di ricchezza fuori da ogni forma di controllo sociale. Il ritrarsi delle masse degli esclusi dal protagonismo sociale e politico. La povertà viene sezionata: fenomeno economico, ma anche sociale. Si sentono le vite di scarto di Bauman che aleggiano nella sala. Ci sono Stiglitz e gli economisti francesi quando D’Alema parla della necessità di una tax autority internazionale per sottoporre a un nuovo controllo sociale le ricchezze che ormai hanno una dimensione non più nazionale.

Ma c’è anche tanta sinistra e tanta innovazione nell’analisi finale del. Due cose da fare per combattere la diseguaglianza: recuperare la funzione degli Stati, una dimensione pubblica di intervento e al tempo stesso favorire un nuovo stato sociale, un nuovo sistema di protezione, che veda protagoniste le persone e le comunità locali.

“C’è una tema enorme di fronte a noi – racconta chiudendo la sua relazione  – nei prossimi anni, l’automazione crescente porterà alla perdita di milioni di posti di lavoro. L’Europa non può permetterselo. Che fare?” La risposta è di quelle che non ti aspetti da chi, qualche anno fa, era un alfiere della terza via e di Tony Blair. “Serve un taglio drastico dell’orario di lavoro a parità di salario. Se diminuisce il tempo di lavoro necessario – come lo  definiva Marx – o calano gli occupati o si tagliano le ore  e quelle ore devono essere messe a disposizione della comunità”. Occhio che in questa frase c’è tutto un programma politico. C’è la piena occupazione, c’è il tema del tempo del non lavoro, c’è il tema di un nuovo umanesimo che deve permeare la sinistra. C’è la convergenza, questa volta sui fatti non nella fusione di gruppi dirigenti, della cultura cattolica e di quella marxiana. C’è la liberazione dallo sfruttamento della catena di montaggio per arrivare a una concezione del lavoro che diventa, almeno in parte, una sorta di servizio civile permanente.

Ora, facciamo un salto, io non sono mai stato dalemiano. A Roma era infestato da una pletora di cortigiani  che hanno approfittato del prestigio e del potere che quel nome portava con sé per creare una corrente che si muoveva con grande agilità in un intreccio grigio di politica e affari. Tutto (o quasi) lecito, per carità, ma meglio tenersi ben lontani da quelli che all’epoca chiamavamo “Talebani” o “Dalebani” che dir si voglia. Quando il potere è finito i dalemiani doc sono diventati renziani al mille per cento. Tutti, nessuno escluso. Dai Minniti, Latorre, Velardi, Rondolino fino al ragazzo di bottega, quel Matteo Orfini passato con un triplo salto carpiato dall’oscura segreteria di una sezione dei Ds di Roma a fare il capo corrente prima e il presidente del primo (o secondo) partito italiano. Tutti Talebani doc. Tutti pronti a ridere alle battute del capo, tutti pronti a correre al minimo battito di ciglia, anzi al minimo arricciarsi del baffo.

Insomma D’Alema, diciamolo, non ha avuto un gran fiuto nel selezionare i suoi collaboratori. Gente passata dal nulla a grandi quote di potere che adesso manco lo saluta se lo incontra per strada. E di errori, in generale, ne ha fatti davvero tanti. Li elenca lui stesso, anche perché non ama che lo facciano gli altri. L’esperienza di governo, quella passione per il new labour di Blair. Io ci metto anche una dimensione politica troppo legata alla contingenza del momento e poco tesa alla prospettiva, all’analisi.

Per questo dico che oggi sta vivendo una sorta di seconda giovinezza. Nel 2012 decide (lo fa da solo, non viene rottamato da Renzi come ripetono i costruttori di leggende prezzolati) di non ricandidarsi in Parlamento. Si dedica allo studio, alla sua fondazione, agli esteri. Nella lotta politica quotidiana appare poco. Fa la sua parte di militante, come ama definirsi, ma lo fa con un distacco quasi snob. Sono quasi cinque anni. Un’eternità. Poi ricompare impetuoso: il No al referendum del 4 dicembre, un ruolo importante nella scissione del Pd. Dice cose di sinistra, torna a essere “il Migliore”, l’erede ultimo di quella tradizione togliattiana che ha saputo essere egemone nella cultura politica italiana dal dopoguerra agli anni ‘90.

E subito riparte la caccia al D’Alema. C’è un accanimento decennale nei suoi confronti. Neanche il suo distacco dalla quotidianità lo ha cancellato. Erano solo in “sonno”. Pronti a ripartire. E gli ritirano fuori i presunti complotti contro Prodi, la Bicamerale, il patto della crostata, le bombe “illegittime” su Belgrado. Poi ripartiranno i dossier: dalle barche, al golfino, alle scarpe, al vino. La stagione di caccia è riaperta. Perché il Baffo è tornato. Non importa che non ricopra cariche. Non importa che non sia in Parlamento. Non importa che emani una naturale antipatia per quel suo essere volutamente scostante. Perfino quando dice “sono diventato buono”, ha una voce tagliente. E’ diventato nuovamente il nemico da abbattere numero uno. Ecco allora che parte la vendetta politica per cui in mezza Europa si lavora per toglierli la carica di presidente delle fondazioni del Pse. Ecco che si scatenano i giornalisti da cortile in fantastici retroscena in cui si raccontano – fonti certe ci mancherebbe altro – di dissidi continui con Bersani che starebbe manovrando per non riportarlo in Parlamento.

Ci si mettono anche quelli della sinistra cosiddetta radicale che quando sentono parlare di D’Alema usano perfino le parole di Renzi per attaccarlo. Tutti d’accordo.

Ora, io che dalemiano non lo sono mai stato, questo grido d’allarme posso lanciarlo senza tema di essere tacciato di cortigianeria. La mia stima è testimoniata dalla foto che apre questo pippone. Mi feci tutta la grande manifestazione del Circo Massimo con quel cartello al collo: “Liberate Baffino dai Talebani”. Un successone, devo dire. Ma una foto che testimonia anche la mia distanza. Eppure, ragazzi, ora che è libero, ci serve come il pane. Perché, sia pur senza cariche, è l’unico leader rimasto alla sinistra italiana. Abbiamo tanti dirigenti capaci, da Bersani, a Rossi, a Speranza, a Fratoianni, a Civati, alle new entry Falcone e Montanari. Abbiamo giovani che scalpitano e ai quali bisogna lasciare spazio. Ma di leader a tutto campo non ne abbiamo. Gli anni, le sconfitte, gli imporranno anche un ruolo di seconda fila. Di padre nobile, per così dire. Ma non ne abbiamo altri con la sua capacità di analisi, coraggiosa e ritrovata. Ci serve la sua passione, la sua volontà di unire, la sua capacità di immaginare una nuova sinistra, alternativa al Pd, perno di un altrettanto nuovo centrosinistra.

In questi mesi la navigazione non è stata facile, per usare una metaforica marinara che ci sta tutta. La barchetta sulla quale siamo saliti traballa parecchio. E i prossimi mesi saranno ancora più complicati. Mi chiedo però cosa sarebbe successo se non ci fosse stata l’iniziativa costante del soldato D’Alema. Quel pungolo, quell’assillo unitario che lo ha riportato in campo. D’Alema si deve o meno ricandidare? Si facciano le primarie che ha chiesto lui stessi a gran voce (primarie della sinistra, non del Pd, sia chiaro). E’ bene che i politici tornino a misurarsi con la ricerca del consenso. Nei mercati e nelle piazze. Che sia un oscuro comitato di garanti a decidere le nostre candidature  mi sembra un’idea ottocentesca, lo dico sinceramente. Bene liste costruite nei territori, bene che siano liste giovani. Ma senza polli da allevamento.

Il soldato D’Alema ci serve, cari compagni. Non ha bisogno di essere salvato, si potrebbe dire, ci pensa bene da solo. Ecco, lo so, ma io credo, che ricordarci tutti l’importanza della solidarietà fra di noi sia di per sé un passo in avanti nella ricostruzione non tanto della sinistra, ma di quella comunità politica che negli anni abbiamo perso.

Per cui, senza esitazioni: guai a chi tocca il soldato D’Alema.

Brancaccio, 18 giugno: le mie pagelle

Giu 19, 2017 by     1 Comment     Posted under: dituttounpo'

La dico subito, senza perifrasi: non mi sono sentito a casa. Ora, per essere sinceri, fra i presenti al Brancaccio ieri ci si conosce un po’ tutti. Non prendiamoci in giro. Per trovare energie nuove bisogna lavorare quartiere per quartiere, non fare assemblee nazionali. E questo è proprio quello che propongono Falcone e Montanari. Quindi non è un problema di presenti. E’ un problema di clima, della prospettiva politica che si dà a un’assemblea. Ho avuto la sensazione che l’assemblea di ieri avesse come scopo quello di certificare le divisioni a sinistra più che trovare le ragioni (e sono tante) dello stare insieme. E comunque sia, invece del Pippone, questa volta voglio essere sintetico. Le pagelle faranno tanto quotidiano sportivo, ma del resto… oggi è lunedì…

QUELLO CHE MI E’ PIACIUTO. Comunque, proviamo a vederla in positivo.
Mi sono piaciuti gli interventi di Civati (voto 8.5) e Fratoianni (voto 7.5). Il primo perché, secondo me, è quello che in questa fare spinge di più per stare tutti insieme. Il secondo perché, magari a sua insaputa, è la prova sul campo della follia delle attuali divisioni a sinistra. Perché le cose che dice dal punto di vista programmatico sono sovrapponibili, al di là delle sue metafore che possono non piacere, a quello che dice Bersani: equità fiscale, investimenti, welfare universale, lavoro.

Mi sono piaciuti gli interventi di Andrea Costa (voto 9) e Francesca Redavid (voto 9-), perché magari saranno anche società civile e politica insieme, ma si capisce che è gente che con i problemi si confronta ogni giorno. Che la spesa al mercato la fa in prima persona e non ci manda la colf.

Mi sono piaciute le contestazioni a Miguel Gotor, al di là della strumentalità delle stesse. Perché vivaddio in un’assemblea ci si confronta e se non sono d’accordo te lo dico chiaramente. Basta con il servilismo delle filiere.  Voto 7,5.

Mi sono piaciute, le conclusioni di Anna Falcone, (le ho viste in streaming perché all’una e mezzo mi sono arreso e sono uscito) perché è stata capace di riannodare i fili di una discussione complessa e appena agli inizi. E perché ha una immagine che fa trasparire una certa distanza dalla politica politicante. E allora si emoziona, si arrabbia, si sente passione, al di là delle ingenuità. Ora deve dare corso a quanto annunciato: ricostruire una comunità dal basso. Al lavoro. Voto 7.

Massimo D’Alema. Arriva prima degli altri, si mette a sedere e ascolta. Magari avrà anche sbuffato alla critiche (insistite e irritanti) di Montanari. Avrà anche avuto la tentazione di intervenire e di dirgli: “Sì, avremo anche sbagliato, ma è facile salire in cattedra dopo”. Però ha resistito alla tentazione. Bene, bravo. Uno che all’unità della sinistra ci tiene davvero e quindi capisce quando bisogna ascoltare.  Voto 8.

COSA NON MI E’ PIACIUTO.
Intanto l’introduzione di Tomaso Montanari.
Deludente, troppo rivolta al passato remoto. Con giudizi sommari sulle esperienza di governo dell’Ulivo. Il centrosinistra non è morto perché Prodi ha sbagliato. E’ morto perché la sconfitta del 2013 rappresenta uno spartiacque definitivo. E anche questo giudizio sul Pd “ormai di destra”: si cerca l’applauso facile, da uno studioso ci si sarebbe aspettata un’analisi meno da bar sport. E poi, professo’: e mica va bene dire, voi avete sempre sbagliato tutto, ma premetto che io non mi candido. Eh no, caro Montanari non si fa così. Ci si candida e si capisce quanto consenso si riesce a raccogliere. Girotondino in ritardo. Rimandato a settembre: voto 5.

L’assenza di Giuliano Pisapia. Ora, dire “non ci sono le condizioni per la mia presenza” è una cazzata epocale. Che hai paura dei fischi? E saresti un leader? Ora, caro Pisapia: da mesi si parla di te come di possibile federatore del centrosinistra. Hai lavorato per Sala a Milano, hai votato Sì al referendum. Me lo ricordo bene, ma ci passo anche sopra. Il problema è che ancora non ho capito come la pensi sui temi sollevati da Bersani, Fratoianni, Civati e tanti altri. Non ho sentito un tuo giudizio su questi anni di governo Renzi. Ci mandi a dire che dobbiamo scioglierci al tuo cospetto. E se ci piaceva il vate incontestabile restavamo nel Pd. No, compagno Pisapia: vieni, ti becchi i fischi, ma ci spieghi, una volta per tutte cosa vuoi fare da grande. Voto 4.

L’intervento di Miguel Gotor. C’è chi i fischi li evita e chi li cerca. Tutto bene il suo ragionamento, tutto bene il suo appello all’unità,bene i temi di discussione indicati. Ma se inviti quelli che sono stati appena sfanculati da Pisapia a partecipare alla sua iniziativa il minimo è che ti fischiano. Il sospetto è che, essendo un ragazzetto sveglio, quelle contestazioni tu le abbia proprio cercate, anche attraverso il ripetere più volte “Insieme”, ovvero il presunto nome della formazione politica dell’avvocato milanese. Voto 5.

L’organizzazione. Ora, non era tanto difficile capire che il Brancaccio si sarebbe riempito. E poi che palle i teatri, con la direzione che teme multe anche per un peto di troppo. Ricominciamo a riunirci in spazi diversi: chiediamo all’università, altrimenti affittiamo il palazzetto dello sport, vediamoci in un parco, magari all’ombra. E poi non puoi dire: chi esce non può rientrare: io sono arrivato alle nove meno dieci. E all’una e mezzo un’insalata e un caffè li devo assumere. Altrimenti gli elettori non si attraggono, si eliminano. Si vede che non ci sono più i partiti, anche da queste ingenuità. Voto 4.

I giornalisti. Ora, non so quanti sono stati gli accrediti, a occhio, c’erano decine di fotografi, cineoperatori e giornalisti. Risultato: zero servizi sui tg nazionali, poche righe sui siti principali di informazione e sui quotidiani. Tanto spazi alle contestazioni a Gotor, poco al senso politico dell’iniziativa. E allora, cari colleghi, non ve ne potevate stare a casa? Magari così qualche altra decina di posti la rimediavamo. Voto 3.

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