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Si parte: forse è la volta buona.
Il pippone del venerdì/60

Giu 15, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

E in un caldo pomeriggio di metà giugno, all’improvviso, ti arriva una mail da Grasso con scritto “Finalmente!” e poi le date per il percorso costituente del partito. Chi ci sta, ci sta. Permettetemi una polemica preventiva: caro Grasso finalmente lo possiamo dire soltanto noi che lavoriamo da anni per arrivare a un partito nuovo, non chi ha esercitato poco e male la sua funzione di leader. Ora lavoriamo tutti insieme, tutti soldati semplici, nessun generale. Si strappino i gradi frettolosamente appuntanti sulle divise di ufficiali improvvisati e si torni a discutere da pari a pari. Tutti.

Leggo che c’è chi parla di accelerazione, di fretta eccessiva, leggo di moniti a non cristallizzare una classe dirigente che colleziona sconfitte e basta. Non si capisce bene di quale accelerazione si parli. Prima del voto avevamo detto, tutti insieme, dal 5 marzo Liberi e uguali diventerà un partito. Non è che abbiamo detto: dal 5 marzo, se vinciamo le elezioni si fa un partito altrimenti ci si scioglie. Ora siamo in ritardo, altro che accelerazione. Siamo stati fermi troppo a lungo e bisogna ripartire. E non mi sembra che un percorso che prevede un congresso fra sei mesi sia da giudicare frettoloso. Anzi. Fino a ottobre si parlerà solo di idee, senza nominare gruppi dirigenti, senza impelagarsi in oziose riunioni dove ci si scanna su un nome o su un altro. Ed è bene che sia così, magari in questa maniera facciamo emergere chi ha idee nuove e non i soliti noti legati a note cordate.

Di un partito della sinistra poi – sapete come la penso – c’è bisogno. Un partito nuovo, senza dubbio, che riparta dalle radici socialiste e faccia una seria analisi di quanto è successo negli ultimi 25 anni, forse anche 30, un partito che ripensi le forme della partecipazione, che sia promotore di una nuova sinistra anche a livello europeo. Tutto vero. Tutte questioni aperte. Scogli da superare. Non so se riusciremo a trovare una sintesi fra le diverse posizioni di partenza. Di una cosa sono sicuro però: se il dibattito resta chiuso fra i sedicenti gruppi dirigenti di Leu non ne usciamo davvero. Io resto convinto che più si scende dal vertice e più le differenze si sfumano. Tutto sta a costruire occasioni vere di confronto.

Su un punti sono d’accordo con i critici del processo costituente (e su questo argomento, tra l’altro, si assiste a strane convergenze): Liberi e Uguali è insufficiente. Questa affermazione, a dire il vero, è un po’ la scoperta dell’acqua calda. Lo dicono da sinistra quelli che rimpiangono il Brancaccio, lo dicono da destra quelli che auspicano ancora il big-bang del Pd per favorire una nuova articolazione delle forze in campo. Fra un po’ finisce che torna di moda anche Pisapia. Nessuno pensa che sia sufficiente sommare Sinistra italiana e Mdp per riempire il vuoto che c’è nell’offerta politica. Tra l’altro in politica le somme spesso non funzionano, il totale è inferiore agli addendi.

Per me però Liberi e uguali è il nucleo da cui ripartire. Anche per uscire da quel vizio che ha ucciso la sinistra cosiddetta radicale da Bertinotti in poi: tutte le aggregazioni messe in campo alla ricerca di costruire una “massa critica” che riuscisse a incidere nella società italiana si sono sciolte come neve al sole anche quando hanno avuto un certo successo. Una sorta di trasposizione in politica della tecnica della tela di Arianna. Si tesse di giorno e poi si disfa tutto durante la notte. E invece ora è tempo di tessere. Non serve costruire fortini chiusi nei quali asserragliarsi, ma costruire un tetto, una casa con porte e finestre spalancate. Una casa aperta, insomma, anche a chi al momento non se la sente di mettersi in gioco un’altra volta.

E il momento è proprio questo. Intanto perché le prossime scadenze elettorali sono lontane. Alle Europee, tra l’altro, si vota con un sistema proporzionale sostanzialmente puro e potremo mettere in campo la nostra proposta senza il ricatto solito del voto utile. Un risultato positivo in quella occasione, insomma, potrebbe essere un mattone importante, dobbiamo far vedere che il voto a sinistra è di per sé un voto utile.  Ma anche perché il patto Salvini – Di Maio sta creando uno spazio importante che non va lasciato vuoto. Le prime settimane di questo governo hanno completamente oscurato i temi cari al Movimento 5 stelle, penso al reddito di cittadinanza, ma anche ai beni comuni. Tutti temi “di sinistra”. E invece si è parlato di condoni, di porti chiusi per i rifugiati, di meno tasse per i ricchi. Un governo il cui asse appare fortemente schiacciato sulla destra estrema, insomma, neanche su quella moderata. E un governo di questo tipo inevitabilmente svelerà l’inganno elettorale che ha attratto tanta parte dell’elettorato storico della sinistra. Un primo effetto lo abbiamo visto con il turno amministrativo di domenica scorsa. Ora, anche scontando una difficoltà dei 5 stelle rispetto a questo tipo di elezioni, nelle quali il loro scarso radicamento sul territorio pesa sempre in maniera negativa,  il loro risultato è quanto meno deludente. Un dato è evidente, insomma: poi magari i ballottaggi non andranno tutti a finire bene, la sinistra è ancora troppo “stordita” dalla botta del 4 marzo, ma dove si sono presentate coalizioni di tipo nuovo, con candidati credibili, di natura civica e di sinistra, queste sono pienamente in partita, come si dice in gergo sportivo. Non c’è più la sensazione, come  è successo nelle ultime tornate che la contesa sia fra destra e grillini.

Non c’è ancora, come è ovvio, un ritorno dell’elettorato in massa. Difficilmente i voti passano da un partito all’altro: quando hai una delusione e cambi schieramento politico hai bisogno di un periodo di “decantazione”. E quindi cresce l’astensione. A Roma il fenomeno è ancora più evidente, perché a ragioni di politica generale si somma una forte delusione per il disastro dell’amministrazione locale. Ma anche altrove, a macchia di leopardo, vediamo la sinistra tornare a vincere.

Due notazioni rivolte ai distinti sostenitori della “purezza ideologica”. Dove Leu non si presenta unito non esiste. Non è che si hanno risultati deludenti, sono proprio inesistenti. Le liste di Si, di Mdp, di Possibile, difficilmente superano l’1 per cento. Le liste di Liberi e uguali, pur scontando la nostra scomparsa post 4 marzo, non solo esistono, ma arrivano spesso a percentuali decisive per la vittoria e eleggono consiglieri comunali. Io sono mai stato un fans del “partito degli amministratori”, ma un partito nelle istituzioni ci deve pure stare, altrimenti non sei un partito ma una bocciofila. L’altra notazione è che continua il momento disastroso del Pd. Le vittorie per la sinistra arrivano dove più forte è il profilo civico della coalizione e meno si sente la puzza di Renzi. Basta pensare a Trapani. Il tutto il sud le liste dei democratici non arrivano al 10 per cento. Un ulteriore segno che quella proposta politica ormai non attrae più l’elettorato.

C’è un doppio vuoto, insomma. E in politica è bene non lasciare spazi, perché se non li copri tu lo farà qualcun altro. E’ bene che Leu acquisti forza, protagonismo, che sia presente nel dibattito politico. Senza reticenze, dicendo cose chiare e semplici. Certo, tagliando con il metodo veristico utilizzato in campagna elettorale. Certo, mettendo in campo forze nuove, anche ma non solo dal punto di vista anagrafico. Certo, trovando una sintesi fra le posizioni in campo e ponendo basi forti per essere autonoma e non andare a ricasco di altri.

I dubbi e le cautele ci stanno tutti. Ma il tempo è questo, altro che fretta, è tardi.

Unità della sinistra, l’ostacolo si chiama Pisapia.
Il pippone del venerdì/19

Lug 14, 2017 by     5 Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Chi mi conosce sa bene che dico quello che penso. E non voglio di certo venire meno adesso che ce ne è più bisogno. Ho ascoltato tutti gli interpreti, a titolo vario, ho letto le dichiarazioni, digerito i retroscena, sono stato al Brancaccio, sono stato a Santi Apostoli, sono stato al confronto tra Fratonianni, Falcone e Rossi che c’è stato ieri sera alla festa romana di Si. Sono un paio di mesi che ci penso. E non me la spiego altrimenti. Sono tutti d’accordo sui temi, sono tutti d’accordo sul percorso, sulla necessità di non dare vita a una mera aggregazione elettorale ma di far partire un processo che porti a un nuovo soggetto politico unitario (non unico). Articolo 18, investimenti, progressività fiscale, tassazione dei grandi patrimoni, welfare. E poi identità di una nuova sinistra. Che si allontani dalla terza via di Blair e sia più simile a Corbyn. Nessuno dissente, si chiama fuori al massimo il solo Acerbo, nome omen verrebbe da dire, oscuro segretario di Rifondazione comunista, ma abbiamo detto lista unitaria, unica sarebbe impossibile. Dico di più: si moltiplicano gli appuntamenti, a livello locale, nelle feste estive soprattutto, dove in calendario c’è proprio il tema di come si scrive (prendo a prestito lo slogan di Sinistra italiana non me ne vorranno) una nuova agenda per la sinistra. Appuntamenti dove il carattere unitario è molto forte, a partire dagli interlocutori.

Dico ancora di più. Se escludiamo quattro esperti in settarismo da tastiera che farebbero bene a mettere la testa fuori dal web, più ci spostiamo dai vertici verso la base, verso quel popolo della sinistra evocato da tutti, più il messaggio è chiaro: questa volta o state tutti insieme oppure non ci provate neppure a chiederci il voto. Lo ha capito bene D’Alema, che in questi mesi è davvero quello più in forma. Lo sciopero del voto confermato nelle ultime amministrative si allarga, altro che storie. Si argina soltanto quando ci sono esperienze con tre caratteristiche: unitarie, autonome e alternative al Pd, con una forte radice nei territori.

E allora, ma se questa è la realtà, ma per quale diamine di motivo non si sono ancora seduti a un tavolo, lontano dai riflettori, per buttare giù quattro idee, quattro parole d’ordine? Guardate che noi siamo pronti, dateci i volantini e ci facciamo le spiagge metro per metro, ferragosto compreso. Ecco, la dico chiara, il motivo,l’ostacolo,  secondo me, ha un nome e un cognome: Giuliano Pisapia.

Per non farla troppo lunga e risparmiarvi in questo fine settimana caldissimo, procedo per punti.
Il primo luglio per lui è stato un flop di dimensioni gigantesche: una piazza entusiasta per le parole di un Bersani già in forma campionato, ha accolto con sconcerto i suoi farfugliamenti confusi. La gente si guardava sconcertata. Contenuti meno di zero. Quando ha detto (e ci mancherebbe altro) che bisogna reintrodurre l’articolo 18 c’è stato quasi un sospiro di sollievo collettivo. Carisma, non pervenuto. Capacità di analisi della realtà, nulla. Una figurina telecomandata da potenti gruppi editoriali e dai salotti buoni della borghesia italiana.

Campo progressista e le officine delle idee? Ma chi l’ha visti? Una finzione. La piazza l’ha detto chiaramente: Articolo Uno rappresenta l’unica forza organizzata. E chi farebbe il centro in questo fantomatico centro-sinistra evocato dall’ex sindaco di Milano? Tabacci e Carra? E i preannunciati Letta, Prodi dove stavano? Tutti in campeggio.

E poi la cronaca di queste settimane successive alla manifestazione: la richiesta, reiterata e nuovamente respinta al mittente, di sciogliere Articolo Uno. Non si capisce bene per quale motivo e in cosa si dovrebbe sciogliere. La sinistra si deve radicare nelle città, altro che sciogliere. E poi l’assenza di Pisapia sulle questioni che si pongono di giorno in giorno. Sui migranti, sulle banche, sul Ceta. Dove sta il sedicente leader? Poi la reazione allergica all’idea della cabina di regia della sinistra. Ieri quest’altra grande trovata: non mi candido alle elezioni. Ora, Giuliano caro, ma chi ti credi di essere? Non sei un generale, non hai un esercito, non federi alcunché, ci aggiungo anche che negli anni scorsi non ne hai azzeccata una. Insomma, datti una calmata. E sia chiaro: le prossime elezioni non sono la fine del mondo, ma sono una tappa decisiva nella ricostruzione della sinistra. E allora tutti in campo: quando si devono prendere i voti, i leader servono. E un leader dove lo vedi? Dal consenso che riesce a raccogliere. Tutti dentro la battaglia, territorio per territorio. Casa per casa, metro per metro. O si pensa che bastino gli editoriali benigni di giornalisti amici per generare automaticamente consenso? E poi il Parlamento è il centro della politica italiana, questa idea dei leader che si tengono lontani dalle Camere la trovo non solo sbagliata ma opposta alla mia concezione di democrazia.  Chi vuole contribuire a far crescere il Paese, chi vuole partecipare alla vita politica si candidi e dia il proprio contributo nelle aule del Parlamento. E’ un onore, non una vergogna.

Insomma, io ho sempre cercato, da quando sono uscito dal partito democratico, di essere inclusivo. Abbiamo aspettato gli altri che ancora erano dentro. Non sono per chiudere le porte a nessuno. Ma inclusivi verso chi? Io direi verso gli elettori soprattutto. E adesso non credo sia il momento dell’affermazione del proprio ego. A meno che, questo quello che penso davvero, a meno che non ci sia una profonda divergenza di prospettive.

Ecco, ma fosse sempre il solito il problema vero? Malgrado le affermazioni, la linea di Pisapia e soci resta la stessa: convincere Renzi che serve un’alleanza, che non può andare alle elezioni da solo. Insomma vorrebbero, con la regia di Prodi, ingabbiare, depotenziare il segretario del Pd, con una manovra di accerchiamento: da un lato loro, i padri nobili che gli fanno no con il ditino, dall’altro Orlando, ma anche Francheschini, Bettini e Veltroni che fanno il controcanto dentro il Partito. Da qui l’allergia a una alleanza a sinistra e, ancora di più, alla costruzione di un polo della sinistra in Italia. Pisapia dica chiaramente, per una volta, quale è la prospettiva a cui lavora: una forza alternativa e autonoma dal Pd o l’ennesima stampella a un progetto traballante? Se il suo piano è il piano B, non abbiamo nulla da dirci: uscire dal Pd per farci un’alleanza elettorale insieme, non avrebbe senso. Renzi è sempre quello del jobs act, della riforma costituzionale, delle leggi liberticide come il decreto Minniti.

Nel primo caso, invece, Pisapia scenda dal piedistallo e si metta al servizio, insieme a tutti gli altri, senza primogeniture o presunte leadership. Un leader ha due strade per diventare tale: o è riconosciuto da tutti oppure ha una legittimazione democratica. Secondo me, tra l’altro, alla sinistra italiana serve un gruppo largo e non un capo, la legge elettorale non prevede alcuna forma di indicazione del candidato premier. E comunque la questione sta in fondo all’agenda e non al primo punto.

Enrico Rossi, al confronto che citavo all’inizio ha fatto una proposta che mi pare di grande buonsenso: costruiamo l’unità sui temi, a partire dalla manovra di stabilità. Quello è il momento vero in cui – seppur in ritardo – affermare la nostra discontinuità con il passato e rompere con le politiche renziane che Gentiloni sta portando avanti. La sinistra si metta a sedere attorno a un tavolo e scriva un emendamento comune con quattro idee per il paese. Io alzo il tiro: presentiamo, tutti insieme, una contromanovra. Abbiamo le competenze per farlo. Facciamo vedere che siamo sinistra di governo non a parole ma con i fatti. E poi, niente scherzi: conseguenti fino in fondo. Ci bocciano le nostre proposte, nessuna fiducia a nessuno governo. Serve coerenza fra quanto affermiamo e i comportamenti dei parlamentari.

Allo stesso tempo, l’ho già proposto e lo rilancio, facciamo comitati unitari in tutti i quartieri. Usiamo le feste estive che si stanno moltiplicando in tutta Italia come occasione di dibattito e di incontro. E magari non lasciamo la parola solo ai dirigenti, facciamo parlare il nostro popolo, anzi i nostri quadri, il popolo ancora resta a casa, bisognerà andarlo a cercare a domicilio. Ascoltateci e capirete la nostra voglia di costruire. I retroscena lasciamoli agli editorialisti che guardano la società dal buco della serratura delle veline telecomandate.  Noi abbiamo un altro compito, dobbiamo guardare in faccia la società italiana, quello che non va. Dobbiamo ridare una prospettiva, una speranza. E per fare questo dobbiamo imparare a prenderci i pesci in faccia nelle strade delle periferie. Non discettare sui massimi sistemi in qualche apericena terrazzato.

Bandiera rossa, ridiventa straccio…

 

Il pippone del venerdì /16.
Salvate il soldato D’Alema

Giu 23, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

 

D’Alema di’ qualcosa, D’Alema di’ una cosa di sinistra. Ve lo ricordate Aprile? Quella frase che poi è diventata un tormentone? Beh, che dire, Moretti sarebbe stato contento. Perché di cose di sinistra, ieri, D’Alema ne ha dette tante. Ci voleva un caldo pomeriggio di fine giugno una iniziativa semiclandestina organizzata da un’associazione cattolica, nel centro di Roma. Si parla di povertà e diseguaglianze sociali, con religiosi, studiosi, politici. Uno strano parterre. Niente giornalisti, niente assillo della quotidianità. E un D’Alema assoluto mattatore. Quindici, venti minuti. E ti racconta il mondo. Le diseguaglianze, la finanza come generatore di ricchezza fuori da ogni forma di controllo sociale. Il ritrarsi delle masse degli esclusi dal protagonismo sociale e politico. La povertà viene sezionata: fenomeno economico, ma anche sociale. Si sentono le vite di scarto di Bauman che aleggiano nella sala. Ci sono Stiglitz e gli economisti francesi quando D’Alema parla della necessità di una tax autority internazionale per sottoporre a un nuovo controllo sociale le ricchezze che ormai hanno una dimensione non più nazionale.

Ma c’è anche tanta sinistra e tanta innovazione nell’analisi finale del. Due cose da fare per combattere la diseguaglianza: recuperare la funzione degli Stati, una dimensione pubblica di intervento e al tempo stesso favorire un nuovo stato sociale, un nuovo sistema di protezione, che veda protagoniste le persone e le comunità locali.

“C’è una tema enorme di fronte a noi – racconta chiudendo la sua relazione  – nei prossimi anni, l’automazione crescente porterà alla perdita di milioni di posti di lavoro. L’Europa non può permetterselo. Che fare?” La risposta è di quelle che non ti aspetti da chi, qualche anno fa, era un alfiere della terza via e di Tony Blair. “Serve un taglio drastico dell’orario di lavoro a parità di salario. Se diminuisce il tempo di lavoro necessario – come lo  definiva Marx – o calano gli occupati o si tagliano le ore  e quelle ore devono essere messe a disposizione della comunità”. Occhio che in questa frase c’è tutto un programma politico. C’è la piena occupazione, c’è il tema del tempo del non lavoro, c’è il tema di un nuovo umanesimo che deve permeare la sinistra. C’è la convergenza, questa volta sui fatti non nella fusione di gruppi dirigenti, della cultura cattolica e di quella marxiana. C’è la liberazione dallo sfruttamento della catena di montaggio per arrivare a una concezione del lavoro che diventa, almeno in parte, una sorta di servizio civile permanente.

Ora, facciamo un salto, io non sono mai stato dalemiano. A Roma era infestato da una pletora di cortigiani  che hanno approfittato del prestigio e del potere che quel nome portava con sé per creare una corrente che si muoveva con grande agilità in un intreccio grigio di politica e affari. Tutto (o quasi) lecito, per carità, ma meglio tenersi ben lontani da quelli che all’epoca chiamavamo “Talebani” o “Dalebani” che dir si voglia. Quando il potere è finito i dalemiani doc sono diventati renziani al mille per cento. Tutti, nessuno escluso. Dai Minniti, Latorre, Velardi, Rondolino fino al ragazzo di bottega, quel Matteo Orfini passato con un triplo salto carpiato dall’oscura segreteria di una sezione dei Ds di Roma a fare il capo corrente prima e il presidente del primo (o secondo) partito italiano. Tutti Talebani doc. Tutti pronti a ridere alle battute del capo, tutti pronti a correre al minimo battito di ciglia, anzi al minimo arricciarsi del baffo.

Insomma D’Alema, diciamolo, non ha avuto un gran fiuto nel selezionare i suoi collaboratori. Gente passata dal nulla a grandi quote di potere che adesso manco lo saluta se lo incontra per strada. E di errori, in generale, ne ha fatti davvero tanti. Li elenca lui stesso, anche perché non ama che lo facciano gli altri. L’esperienza di governo, quella passione per il new labour di Blair. Io ci metto anche una dimensione politica troppo legata alla contingenza del momento e poco tesa alla prospettiva, all’analisi.

Per questo dico che oggi sta vivendo una sorta di seconda giovinezza. Nel 2012 decide (lo fa da solo, non viene rottamato da Renzi come ripetono i costruttori di leggende prezzolati) di non ricandidarsi in Parlamento. Si dedica allo studio, alla sua fondazione, agli esteri. Nella lotta politica quotidiana appare poco. Fa la sua parte di militante, come ama definirsi, ma lo fa con un distacco quasi snob. Sono quasi cinque anni. Un’eternità. Poi ricompare impetuoso: il No al referendum del 4 dicembre, un ruolo importante nella scissione del Pd. Dice cose di sinistra, torna a essere “il Migliore”, l’erede ultimo di quella tradizione togliattiana che ha saputo essere egemone nella cultura politica italiana dal dopoguerra agli anni ‘90.

E subito riparte la caccia al D’Alema. C’è un accanimento decennale nei suoi confronti. Neanche il suo distacco dalla quotidianità lo ha cancellato. Erano solo in “sonno”. Pronti a ripartire. E gli ritirano fuori i presunti complotti contro Prodi, la Bicamerale, il patto della crostata, le bombe “illegittime” su Belgrado. Poi ripartiranno i dossier: dalle barche, al golfino, alle scarpe, al vino. La stagione di caccia è riaperta. Perché il Baffo è tornato. Non importa che non ricopra cariche. Non importa che non sia in Parlamento. Non importa che emani una naturale antipatia per quel suo essere volutamente scostante. Perfino quando dice “sono diventato buono”, ha una voce tagliente. E’ diventato nuovamente il nemico da abbattere numero uno. Ecco allora che parte la vendetta politica per cui in mezza Europa si lavora per toglierli la carica di presidente delle fondazioni del Pse. Ecco che si scatenano i giornalisti da cortile in fantastici retroscena in cui si raccontano – fonti certe ci mancherebbe altro – di dissidi continui con Bersani che starebbe manovrando per non riportarlo in Parlamento.

Ci si mettono anche quelli della sinistra cosiddetta radicale che quando sentono parlare di D’Alema usano perfino le parole di Renzi per attaccarlo. Tutti d’accordo.

Ora, io che dalemiano non lo sono mai stato, questo grido d’allarme posso lanciarlo senza tema di essere tacciato di cortigianeria. La mia stima è testimoniata dalla foto che apre questo pippone. Mi feci tutta la grande manifestazione del Circo Massimo con quel cartello al collo: “Liberate Baffino dai Talebani”. Un successone, devo dire. Ma una foto che testimonia anche la mia distanza. Eppure, ragazzi, ora che è libero, ci serve come il pane. Perché, sia pur senza cariche, è l’unico leader rimasto alla sinistra italiana. Abbiamo tanti dirigenti capaci, da Bersani, a Rossi, a Speranza, a Fratoianni, a Civati, alle new entry Falcone e Montanari. Abbiamo giovani che scalpitano e ai quali bisogna lasciare spazio. Ma di leader a tutto campo non ne abbiamo. Gli anni, le sconfitte, gli imporranno anche un ruolo di seconda fila. Di padre nobile, per così dire. Ma non ne abbiamo altri con la sua capacità di analisi, coraggiosa e ritrovata. Ci serve la sua passione, la sua volontà di unire, la sua capacità di immaginare una nuova sinistra, alternativa al Pd, perno di un altrettanto nuovo centrosinistra.

In questi mesi la navigazione non è stata facile, per usare una metaforica marinara che ci sta tutta. La barchetta sulla quale siamo saliti traballa parecchio. E i prossimi mesi saranno ancora più complicati. Mi chiedo però cosa sarebbe successo se non ci fosse stata l’iniziativa costante del soldato D’Alema. Quel pungolo, quell’assillo unitario che lo ha riportato in campo. D’Alema si deve o meno ricandidare? Si facciano le primarie che ha chiesto lui stessi a gran voce (primarie della sinistra, non del Pd, sia chiaro). E’ bene che i politici tornino a misurarsi con la ricerca del consenso. Nei mercati e nelle piazze. Che sia un oscuro comitato di garanti a decidere le nostre candidature  mi sembra un’idea ottocentesca, lo dico sinceramente. Bene liste costruite nei territori, bene che siano liste giovani. Ma senza polli da allevamento.

Il soldato D’Alema ci serve, cari compagni. Non ha bisogno di essere salvato, si potrebbe dire, ci pensa bene da solo. Ecco, lo so, ma io credo, che ricordarci tutti l’importanza della solidarietà fra di noi sia di per sé un passo in avanti nella ricostruzione non tanto della sinistra, ma di quella comunità politica che negli anni abbiamo perso.

Per cui, senza esitazioni: guai a chi tocca il soldato D’Alema.

Brancaccio, 18 giugno: le mie pagelle

Giu 19, 2017 by     1 Comment     Posted under: dituttounpo'

La dico subito, senza perifrasi: non mi sono sentito a casa. Ora, per essere sinceri, fra i presenti al Brancaccio ieri ci si conosce un po’ tutti. Non prendiamoci in giro. Per trovare energie nuove bisogna lavorare quartiere per quartiere, non fare assemblee nazionali. E questo è proprio quello che propongono Falcone e Montanari. Quindi non è un problema di presenti. E’ un problema di clima, della prospettiva politica che si dà a un’assemblea. Ho avuto la sensazione che l’assemblea di ieri avesse come scopo quello di certificare le divisioni a sinistra più che trovare le ragioni (e sono tante) dello stare insieme. E comunque sia, invece del Pippone, questa volta voglio essere sintetico. Le pagelle faranno tanto quotidiano sportivo, ma del resto… oggi è lunedì…

QUELLO CHE MI E’ PIACIUTO. Comunque, proviamo a vederla in positivo.
Mi sono piaciuti gli interventi di Civati (voto 8.5) e Fratoianni (voto 7.5). Il primo perché, secondo me, è quello che in questa fare spinge di più per stare tutti insieme. Il secondo perché, magari a sua insaputa, è la prova sul campo della follia delle attuali divisioni a sinistra. Perché le cose che dice dal punto di vista programmatico sono sovrapponibili, al di là delle sue metafore che possono non piacere, a quello che dice Bersani: equità fiscale, investimenti, welfare universale, lavoro.

Mi sono piaciuti gli interventi di Andrea Costa (voto 9) e Francesca Redavid (voto 9-), perché magari saranno anche società civile e politica insieme, ma si capisce che è gente che con i problemi si confronta ogni giorno. Che la spesa al mercato la fa in prima persona e non ci manda la colf.

Mi sono piaciute le contestazioni a Miguel Gotor, al di là della strumentalità delle stesse. Perché vivaddio in un’assemblea ci si confronta e se non sono d’accordo te lo dico chiaramente. Basta con il servilismo delle filiere.  Voto 7,5.

Mi sono piaciute, le conclusioni di Anna Falcone, (le ho viste in streaming perché all’una e mezzo mi sono arreso e sono uscito) perché è stata capace di riannodare i fili di una discussione complessa e appena agli inizi. E perché ha una immagine che fa trasparire una certa distanza dalla politica politicante. E allora si emoziona, si arrabbia, si sente passione, al di là delle ingenuità. Ora deve dare corso a quanto annunciato: ricostruire una comunità dal basso. Al lavoro. Voto 7.

Massimo D’Alema. Arriva prima degli altri, si mette a sedere e ascolta. Magari avrà anche sbuffato alla critiche (insistite e irritanti) di Montanari. Avrà anche avuto la tentazione di intervenire e di dirgli: “Sì, avremo anche sbagliato, ma è facile salire in cattedra dopo”. Però ha resistito alla tentazione. Bene, bravo. Uno che all’unità della sinistra ci tiene davvero e quindi capisce quando bisogna ascoltare.  Voto 8.

COSA NON MI E’ PIACIUTO.
Intanto l’introduzione di Tomaso Montanari.
Deludente, troppo rivolta al passato remoto. Con giudizi sommari sulle esperienza di governo dell’Ulivo. Il centrosinistra non è morto perché Prodi ha sbagliato. E’ morto perché la sconfitta del 2013 rappresenta uno spartiacque definitivo. E anche questo giudizio sul Pd “ormai di destra”: si cerca l’applauso facile, da uno studioso ci si sarebbe aspettata un’analisi meno da bar sport. E poi, professo’: e mica va bene dire, voi avete sempre sbagliato tutto, ma premetto che io non mi candido. Eh no, caro Montanari non si fa così. Ci si candida e si capisce quanto consenso si riesce a raccogliere. Girotondino in ritardo. Rimandato a settembre: voto 5.

L’assenza di Giuliano Pisapia. Ora, dire “non ci sono le condizioni per la mia presenza” è una cazzata epocale. Che hai paura dei fischi? E saresti un leader? Ora, caro Pisapia: da mesi si parla di te come di possibile federatore del centrosinistra. Hai lavorato per Sala a Milano, hai votato Sì al referendum. Me lo ricordo bene, ma ci passo anche sopra. Il problema è che ancora non ho capito come la pensi sui temi sollevati da Bersani, Fratoianni, Civati e tanti altri. Non ho sentito un tuo giudizio su questi anni di governo Renzi. Ci mandi a dire che dobbiamo scioglierci al tuo cospetto. E se ci piaceva il vate incontestabile restavamo nel Pd. No, compagno Pisapia: vieni, ti becchi i fischi, ma ci spieghi, una volta per tutte cosa vuoi fare da grande. Voto 4.

L’intervento di Miguel Gotor. C’è chi i fischi li evita e chi li cerca. Tutto bene il suo ragionamento, tutto bene il suo appello all’unità,bene i temi di discussione indicati. Ma se inviti quelli che sono stati appena sfanculati da Pisapia a partecipare alla sua iniziativa il minimo è che ti fischiano. Il sospetto è che, essendo un ragazzetto sveglio, quelle contestazioni tu le abbia proprio cercate, anche attraverso il ripetere più volte “Insieme”, ovvero il presunto nome della formazione politica dell’avvocato milanese. Voto 5.

L’organizzazione. Ora, non era tanto difficile capire che il Brancaccio si sarebbe riempito. E poi che palle i teatri, con la direzione che teme multe anche per un peto di troppo. Ricominciamo a riunirci in spazi diversi: chiediamo all’università, altrimenti affittiamo il palazzetto dello sport, vediamoci in un parco, magari all’ombra. E poi non puoi dire: chi esce non può rientrare: io sono arrivato alle nove meno dieci. E all’una e mezzo un’insalata e un caffè li devo assumere. Altrimenti gli elettori non si attraggono, si eliminano. Si vede che non ci sono più i partiti, anche da queste ingenuità. Voto 4.

I giornalisti. Ora, non so quanti sono stati gli accrediti, a occhio, c’erano decine di fotografi, cineoperatori e giornalisti. Risultato: zero servizi sui tg nazionali, poche righe sui siti principali di informazione e sui quotidiani. Tanto spazi alle contestazioni a Gotor, poco al senso politico dell’iniziativa. E allora, cari colleghi, non ve ne potevate stare a casa? Magari così qualche altra decina di posti la rimediavamo. Voto 3.

Ricordare Falcone e Borsellino,
perché nessuno resti più solo

Lug 19, 2012 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

Quel giorno, anzi quei mesi, Falcone il 23 maggio, Borsellino il 19 luglio. Quelle immagini, la voragine di Capaci, via D’Amelio sconvolta. All’epoca ero un giovano cronista di Paese Sera. Mi ricordo in particolare il 23 maggio. Read more »

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