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Ci piace la Spagna ma ci tocca la Sicilia.
Il pippone del venerdì/99

Mag 3, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Non saranno il toccasana di tutti i mali, ma i risultati delle elezioni spagnole rappresentano una boccata di ossigeno. Anche perché sono l’ennesima riprova di come la sinistra quando fa il suo lavoro i voti continua a prenderli. Certo, poi c’è un insieme di elementi che ha permesso al Partito socialista spagnolo di arrivare quasi al 30 per cento, dopo anni di declino: c’è un leader credibile, c’è stato un periodo di governo in cui le idee nuove dei socialisti hanno potuto confrontarsi con la concretezza quotidiana e non hanno sfigurato. C’è stata anche una buon campagna di comunicazione, con messaggi secchi e incisivi.

Ma al di là di questo mix di ingredienti, che sicuramente aiuta a raggiungere un buon risultato, si verifica ancora quello che abbiamo visto in Inghilterra con Corbyn, in Portogallo, perfino negli Usa alle elezioni di middle term: non è più tempo di corsa al centro – del resto in Spagna ben presidiato da due formazioni politiche – la sinistra torna a vincere quando si rimette i suoi vestiti, quando aggiorna le sue idee alle nuove condizioni sociali, difende i più deboli, parla ai lavoratori e non ai finanzieri. Le proposte sono semplici e le avevano già inserite nella legge finanziaria la cui bocciatura ha portato poi alle elezioni anticipate, ne ricordo alcune: una patrimoniale sui redditi più alti, aumento della tassazione delle rendite finanziarie, 50 milioni per contribuire alle spese scolastiche delle famiglie in difficoltà, aumento del 25 per cento del salario minimo, pensioni indicizzate all’inflazione, interventi contro il cambiamento climatico, poteri ai sindaci contro le bolle speculative sugli affitti. Fanno i socialisti, insomma.

La ricetta è talmente semplice che ci è arrivato anche Cacciari, per il quale permettetemi di nutrire una rispettosa ma decisa antipatia. Al filosofo basterebbe ricordare come Bersani ‘sta cosa qui la ripete da qualche anno. E anche lui ci è arrivato un po’ per scossoni e per contrarietà, come direbbe Guccini. Insomma, anche in Italia si dovrebbe tornare a fare la sinistra da posizioni non marginali: costruire una nuova forza popolare di massa. Peccato che poi tutti lo dicono ma nessuno lo fa.

Escludendo le cosiddette sigle della sinistra radicale che – uso una frase sentita spesso da ragazzo – hanno perso l’appuntamento con la storia e restano subalterne al Pd, chi può fare questa operazione? Articolo Uno, con tentennamenti e troppe incertezze, questa strada l’ha indicata. Di sicuro non ha le forze per arrivarci in solitudine. Il convitato di pietra resta il Pd che non si rende conto di come la sua funzione, se non sceglierà da che parte stare, sia di fatto esaurita.

Perché nello stesso giorno in cui in Spagna vince Sanchez e i dirigenti vari della sinistra italiana inneggiano al leader iberico, qualcuno parla di vento cambiato, altri stappano lo spumante, lo stesso esatto giorno, dicevo, succede che in gran parte della nostrana Sicilia il Pd si allea con Forza Italia. E non si dica che si tratta di elezioni locali, che non hanno significato politico: lì c’è ormai una vera e propria alleanza strutturale tra Faraone, il boss ultrarenziano locale, e Miccichè, storico luogotenente isolano di Berlusconi.

Ora, non dico che sia ovunque così, ma il caso siciliano mi sembra perfetto esempio di come il Pd di Zingaretti non sia né carne, né pesce. Siamo ancora all’equivoco della cosiddetta vocazione maggioritaria, ovvero il marchingegno con cui Veltroni ha eliminato tutti gli alleati, riducendoli all’irrilevanza, salvo poi accorgersi che in questa maniera vince sempre la destra. Siamo ancora a un partito indeciso su tutto: la campagna elettorale per le Europee né è un altro esempio: messaggi confusi, a volte incomprensibili, a volte scopiazzature banali dei laburisti di Corbyn.

Mentre in Sicilia Faraone fa gli inciuci con i berlusconiani, Martina, avversario di Zingaretti alle primarie sta in Spagna per festeggiare con Sanchez. Ecco, questa roba non funziona più. Non si possono mettere nella stessa lista per le europee i socialisti e gli uomini di Confidustria.  Gli elettori non capiscono l’ambiguità, non ti premiano se non capiscono dove vuoi andare a parare. E’ un principio base della comunicazione: per prima cosa devi scegliere il tuo target, il tuo blocco sociale di riferimento si sarebbe detto una volta. E mettere insieme gli operai con i padroni non funziona.

E allora che si fa? Si torna all’Ulivo e alle decine di liste alleate che litigano subito dopo? Il sistema politico italiano non è più lo stesso di un tempo. Prima c’erano due poli che aggregavano una miriade di forze politiche differenti. Ora ci sono sostanzialmente tre poli, ma il numero dei partiti in assoluto è diventato più piccolo. A destra ne abbiamo tre, nel campo del centro sinistra c’è sostanzialmente solo il Pd, poi ci sono i cinque stelle. Manca ancora una forza di sinistra, come la intendono da tempo Bersani e adesso anche Cacciari. Manca perché lo spazio è ancora occupato dal Pd che vorrebbe fare due o tre parti in commedia e alla fine le fa tutte male. Che scelga il suo ruolo, finalmente. Lasciando spazio per costruire la famosa seconda gamba del centro sinistra, necessaria per poter tornare a essere concorrenziali. Che almeno, se proprio non riescono a sposare a pieno le idee del socialismo “radicale” ed ecologista, che i democratici scelgano se vogliono o meno un’alleanza con Forza Italia o ricostruire un campo ampio della sinistra. Saperlo aiuterebbe a scegliere alle Europee.

Insomma, per farla breve: in Italia non ci sono le condizioni per dire “è cambiato il vento”. Anche perché per prendere il vento bisogna mettere le vele nella posizione giusta. A me sembra, al contrario, che siamo ancora un po’ tutti in balia di tatticismi incomprensibili. Non solo non abbiamo preso il vento, non abbiamo neanche issato le vele.

I populismi, i supposti argini e il vero voto utile.
Il pippone del venerdì/29

Ott 20, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Sto leggendo in questi giorni un libro di Giorgio Amendola, trovato su ebay per pochi euro, che racconta la storia del Partito comunista italiano dal 1921 al ’43. Doveva essere il primo capitolo di un lavoro più complessivo, ma non ne ebbe il tempo. Di lui ho sempre apprezzato una grande capacità di raccontare i fatti più complessi in maniera chiara, intrecciando le vicende personali con gli avvenimenti più generali. Non freddi saggi, insomma, ma la storia che diventa concreta, che scende dalle cattedre universitarie e si colora di facce, persone,  passioni. In questo suo lavoro, meno romanzato rispetto ad altri, trovo la stessa facilità di racconto, unita al solito rigore nell’analisi.

Arrivo al punto. Una cosa mi colpisce sempre quando leggo qualcosa che riguarda la storia del Pci: la distanza fra il racconto dei protagonisti e la narrazione che degli stessi avvenimenti veniva rappresentata dai mass media. Mentre nella storiografia spesso si ritrova la descrizione di un partito e un gruppo dirigente chiuso e dipendente da Mosca, sia leggendo Togliatti, che Amendola, ma anche Ingrao, si percepisce sempre, sia pur nelle posizioni spesso differenti, un sentiero comune di tutt’altra natura: il bene del Paese. Questa sorta di stella cometa ha sempre guidato il gruppo dirigente dei comunisti italiani per settant’anni. Più che il destino personale, quello del Partito, contava il destino complessivo dell’Italia. E lo stesso progresso dei lavoratori, degli ultimi, dei proletari, veniva visto come condizione necessaria per il miglioramento del Paese.

Quando quella storia, quella del Pci, finisce si perde anche questo senso comune che aveva caratterizzato quella comunità? Sicuramente non è più stato quello il filo conduttore delle forze della sinistra. Di quel pensiero si ritrovano tracce, anche importanti. Penso, ad esempio, al Bersani che sostiene Monti, convinto che andare alle elezioni senza aver prima messo in sicurezza i conti sarebbe stato un disastro per l’Italia. Non ho condiviso quella strategia, Monti non era la medicina giusta, ma quella era la ragione. Perché una parte importante della classe dirigente della sinistra quel marchio di fabbrica ce l’ha impresso nel Dna.

Per questo mi capita, in questi giorni, di chiedermi cosa convenga davvero fare oggi per il bene dell’Italia. E credo anche che sarebbe bene che partissimo proprio da questa riflessione nel processo della ricostruzione della sinistra. Questa per me è la strada per ritrovare una connessione, anche emotiva, con il nostro popolo. Perché altrimenti si rischia di essere percepiti come quelli che si mettono insieme solo per riportare qualche deputato in Parlamento. E se questo è non si raggiunge neanche questo obiettivo francamente non particolarmente attraente.

E credo anche che sia una riflessione da fare a maggior ragione in questi giorni in cui l’offerta politica italiana appare in tutta la sua miseria. C’è una destra che si unisce per ragioni di potere dietro l’effige stinta di Berlusconi, dove la voce di Salvini è sempre più forte, ci sono i 5 stelle che a parole sono rivoluzionari ma quando governano si dimostrano soltanto apprendisti pasticcioni, c’è un centro che si affida a Renzi, forse il più populista della compagnia. Si odono sinistri scricchiolii a destra con l’avanzata dei fascisti veri e propri, di cui abbiamo già parlato.

Le vicende di questi giorni non sono altro che una conferma delle riflessioni di questi anni. Renzi si proclama a parole unico argine al populismo parolaio e poi ne usa gli strumenti a piene mani. Al di là del giudizio su Visco, sicuramente non univoco, la sgrammaticata mozione del Pd rappresenta uno schiaffo alle istituzioni. Il paradosso è che chi è fra i responsabili degli scandali che hanno colpito i risparmiatori negli ultimi anni si erge a paladino degli stessi andando a mettere sotto accusa l’organismo che sulle banche ha esercitato un’azione costante di controllo, sia pure con ritardi e omissioni, evitando guai peggiori. Insomma, invece che perseguire i malfattori si perseguono i controllori. Si indebolisce la Banca d’Italia, la sua indipendenza sancita dalla Costituzione.  Per qualche voto in più si mette a rischio una istituzione essenziale. La stessa cosa che rimproveravamo a Berlusconi, le stesse critiche che da sempre muoviamo a Grillo.

Anche a voler ignorare le inchieste giudiziarie in corso, questo modo di fare politica è di per sé un danno per il Paese. Perché non di discosta minimamente da quel populismo che vorrebbe combattere. Si fa forcaiolo quando il vento tira da quel lato, razzista quando le tensioni sui migranti fanno ondeggiare l’opinione pubblica, stucchevole nella sua deferenza verso i potenti, arrogante con i sindacati e gli studenti. Unico scopo è l’affermazione personale, la gestione del potere fine a se stessa.

Io resto convinto che fosse sbagliato il progetto stesso del Pd, ma ai Veltroni, ai Prodi, ai Franceschini, ai Gentiloni vorrei chiedere ugualmente: ma era questo il partito che sognavate? La famosa vocazione maggioritaria voleva dire che pur di raccattare un voto in più si può fare tutto? E pur di salvare qualche posticino in parlamento per voi e la vostra corrente siete disposti a digerire tutto?

Ecco, il bene del paese: cosa è oggi il bene del Paese? Arginare i populismi. Bene. Io credo che siano due le condizioni necessarie. Per prima cosa ricostruire un campo della sinistra. Senza altri aggettivi, radicale, di governo, riformatrice. La sinistra e basta. Quella che parte dalla cultura del bene comune e che non a caso in questi anni è stata costantemente sotto l’attacco concentrico di tutti. Per seconda cosa deve morire il Partito democratico, deve esplodere questo contenitore malato che ancora ingabbia e illude tante energie positive.

Solo ricreando una sinistra forte e autorevole e un partito che rappresenti i moderati, si può davvero mettere un argine ai populismi che sembrano oggi inarrestabili. Non è un compito che si esaurisce in due o tre mesi, lo dico da troppo tempo. Ma è essenziale che si cominci adesso a costruire un campo differente. Ognuno a casa sua. Noi dobbiamo lavorare per dare voce a quel popolo di sinistra che ormai puntualmente resta a casa a ogni elezione. I Veltroni, i Prodi devono abbandonare Renzi al proprio destino e dare vita a un nuovo progetto moderato con il quale poter interloquire.

Se ci ritroviamo su questi obiettivi è anche più facile capire cosa fare, sia a livello nazionale che a livello locale, dove bisogna lavorare per isolare il giglio magico e rafforzare le energie che in modo manifesto si dichiarano alternative, anche dentro il Pd. Questo sarà il vero voto utile.

Le elezioni, in questo quadro, sono un passaggio obbligato ma non dirimente. Un passaggio che può aiutare questo grande big-bang, questa complessiva scomposizione e ricomposizione su basi nuove che serve alla rinascita di un sistema politico che ormai è solo un danno per l’Italia, per noi tutti.

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