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Giggino se n’ è ghiuto e soli ci ha lasciato.
Il #pippone del venerdì/126

Gen 24, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ora, capisco che mi potreste rispondere con un classico “meglio soli che male accompagnati”, ma le dimissioni di Di Maio da “capo” del Movimento cinque stelle sono decisamente la notizia della settimana. Quando ho letto su un giornale online “Di Maio si è dimesso”, titolo secco, ho sperato per un istante che avesse lasciato il ministero degli Esteri. Ho sperato che, per un istante, avesse capito i propri limiti e, smesso il sorriso eternamente stampato in faccia, avesse dichiarato: “Ebbene sì, lo ammetto, di politica estera non capisco un tubo, meglio lasciare questa postazione ad altri, soprattutto vista la situazione internazionale così complessa”.

Manco per niente, con una mossa che potrebbe sembrare infantile lascia la guida del Movimento a 4 giorni dalle elezioni in Emilia-Romagna e in Calabria. Potrebbe sembrare infantile, dicevo, perché potrebbe essere interpretata come la volontà di scaricare la colpa della probabile débâcle dei penta stellati ad altri. Magari c’è anche questo.  Secondo me, invece, questo è uno che la sa lunga, viene dalla scuola migliore dei democristiani del ‘900. Deve aver studiato con solerzia la loro storia. Perché io penso che Giggino guardi oltre questo pur importante appuntamento. O meglio, in questi due anni abbiamo imparato a conoscerlo: del destino dell’Italia e degli italiani gli interessa poco. Guarda al suo interesse personale ed è capace di tripli salti mortali all’indietro per difendere la sua poltrona. Se ne abbandona una, quella per cui si ritiene insostituibile, è perché pensa di tornarci più forte e in tempi brevi.

Secondo me, il Di Maio pensiero deve essere stato più o meno questo: fino ad ora sono stato io a prendermi pesci in faccia da tutte le parti, mediando fra le nostre correnti interne, Conte, il Pd, con Renzi sempre in agguato. Sono insostituibile in questo ruolo, ma qua sono tutti insoddisfatti. E allora me ne vado e si scannino pure senza rete di protezione. Vediamo che succede.

Il più preoccupato di tutti pare Conte, che non ha più una sponda. Non dimentichiamoci che quando si è formato il governo rosso-giallo, è stato proprio il presidente del Consiglio a spingere perché i leader del Pd dei Cinquestelle assumessero un ruolo importante, con la responsabilità di dicasteri di primo piano. Pensava che in questo modo il tasso di litigiosità di una maggioranza fatta di acerrimi nemici sarebbe diminuito. Zingaretti non poteva accettare, si sarebbe dovuto dimettere da presidente della Regione Lazio con il rischio – se non la certezza – di lasciare una delle postazioni di governo più importanti a Salvini e soci. Giggino ha subito preteso un dicastero chiave, di cui non sapeva assolutamente nulla.

Comunque sia, e questi mesi lo dimostrano, quelle di Conte erano pie illusioni. Pd e Cinquestelle, che si somigliano più di quanto potrebbe apparire dall’esterno, sono covi di serpi per di più abitati da personaggi che hanno visioni molto differenti tra loro. Sulla mancanza di amalgama dei democratici c’è ampia letteratura, sarebbe il caso di cominciare ad indagare un po’ di più anche sulla natura del movimento fondato da Grillo. Bravissimi a fare l’opposizione, disastrosi quando si tratta di governare. Rompere è più facile e meno faticoso che costruire, si sa. E’ un’affermazione persino banale che però coincide perfettamente con quello che ci ha fatto vedere in questi anni il M5s. Dalle amministrazioni locali al governo nazionale è stato un disastro. E quelli più capaci – vedi Pizzarotti – sono stati accompagnati bruscamente alla porta appena hanno provato a manifestare una certa indipendenza.

Tagliando corto, si tratta di vedere adesso l’effetto che faranno queste dimissioni. Per adesso hanno conquistato le pagine dei giornali che hanno spostato la data in cui tutto si chiarirà dalle elezioni di domenica 26, agli “stati generali” grillini, così loro chiamano il congresso.

In tutto questo fiorire di “date fondamentali”, mi permetto di segnalare che il Governo, a parte qualche diatriba e qualche provvedimento solamente annunciato, è fermo. Paralizzato dall’attesa di vedere cosa succede, prima era la sfida emiliana a rappresentare la linea di confine fra stabilità e rischio di sfasciare tutto, adesso sono i nuovi equilibri in casa grillina. E non è che il mondo resta a guardare: le crisi internazionali ci vedono sempre più spettatori distanti, l’economia va più o meno a rotoli. Soltanto i mercati sembrano dare ancora fiducia al Conte Bis, più che altro timorosi di quello che potrebbe arrivare dopo.

Lo stesso annuncio di Zingaretti di voler rifondare il Pd sembra soltanto l’ennesimo cambio di contenitore della sinistra italiana che quando non sa bene cosa fare annuncia di voler costruire “una casa più grande, in cui nessuno si senta ospite”. Partì qualche decennio fa Occhetto, poi è stato un susseguirsi di “case più grandi” e si è passati dal rappresentare un terzo degli elettori (e anche qualcosa in più) a un quinto scarso.

Qua, dal sottoscala della sinistra, c’è grande confusione e sconforto. Incrociamo le dita per domenica.

Ps: il titolo è una mezza citazione, voglio vedere chi indovina.

Il taglio dei parlamentari, fuffa dannosa per le istituzioni
Il #pippone del venerdì/116

Ott 11, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Intanto una nota auto celebrativa: in tanti hanno criticato il mio paragone fra Renzi e Bertinotti della settimana scorsa, ma a giudicare dalle cronache politiche di questi giorni era più che azzeccato. La strategia è la stessa, di questo si parlava, non dei temi portati avanti su cui c’è una certa distanza: tenere sulla corda il governo in maniera da acquisire visibilità, questo il tratto che accomuna i due. Del resto in Italia funziona così, sui giornali finiscono per lo più gli spunti polemici. E in questo Renzi è davvero bravo, una specie di tarlo che ti rosicchia i mobili di casa. Se non si interviene subito si rischia di trovarsi con un mucchietto di segatura in mano.

Detto questo, la notizia della settimana è sicuramente il taglio dei parlamentari. Con tanto di show dei cinque stelle, schierati in parata davanti a Montecitorio con forbici e striscioni. Una festa senza popolo, vale la pena sottolinearlo. A cosa serva eliminare 345 fra senatori e deputati non è ben chiaro. Non si velocizza l’iter delle leggi, non si garantisce maggior funzionalità alle Camere. Si realizza un modesto risparmio annuo, penalizzando al tempo stesso la rappresentanza. Pd e Leu hanno dovuto inghiottire il boccone e hanno detto sì, dopo aver fatto il contrario per ben 3 votazioni di fila.

Ora, niente di male, in politica si accettano compromessi per raggiungere i propri scopi. Chi dice il contrario mente spudoratamente. Anzi, spesso quelli che appaiono duri e puri sono i primi a brigare sottobanco  per avere qualche strapuntino in più. Andrebbe ammesso che si tratta del prezzo pagato per arrivare alla formazione del Governo. Invece si assiste ad affannose arrampicate sugli specchi per cercare improbabili motivazioni al cambio di rotta. Ho letto perfino qualcuno che spiega come fosse giusto tagliare i parlamentari perché rispetto a quando furono decisi gli attuali assetti le distanze si sono ridotte e quindi ora servono meno rappresentanti. Se questo fosse il ragionamento tanto vale allora riunire le camere in videoconferenza, si risparmia anche di più.

In realtà, quel numero di deputati e senatori garantiva allo stesso tempo la rappresentanza di tutti i territori e delle minoranze. Se si voleva risparmiare forse sarebbe stato meglio tagliare i compensi a parlamentari e consiglieri regionali, il segnale sarebbe stato decisamente più forte. Invece così una riforma che passa per essere anticasta rischia di ottenere l’effetto contrario: collegi più grandi e liste bloccate restringono ancora di più il campo di chi può davvero puntare all’elezione. Le alternative sono due: o sei molto popolare o hai tanti fondi. Insomma avremo una supercasta blindata da campagne elettorali complicatissime.

Da qui, almeno, l’esigenza di rimettere mano alla legge elettorale. Si discute molto anche di questo, pur essendo argomento che interessa all’uno per cento del Paese. Con i numeri attuali dovrò rivedere anche le mie convinzioni, il doppio turno alla francese che da sempre prediligo rischia di diventare un bagno di sangue e portare in parlamento soltanto i tre schieramenti principali.

E questo è l’altro equivoco che viviamo dalla fine degli anni ’90 del secondo scorso. Da quando, cioè, si cerca di modificare il sistema politico con leggi elettori che garantiscano – nelle intenzioni di chi le teorizza – governabilità o meno frammentazione. Il risultato è che i governi continuano a cambiare e i cosiddetti partitini sono addirittura aumentati. Anche quando abbiamo sperimentato sistemi più o meno maggioritari sono nate coalizioni dentro le quali hanno trovato spazio liste e listarelle varie. Dai pensionati, ai cacciatori, al movimento delle casalinghe. Tutti poi a rivendicare, una volta vinte le elezioni, almeno un sottosegretario in forza del loro contributo, minimo ma essenziale.

Segno che il tentativo di modificare il quadro politico attraverso sbarramenti vari funziona fino a un certo punto. Io resto convinto che – del resto lo stabilisce anche la costituzione – la legge elettorale debba garantire una rappresentanza parlamentare il più possibile vicina alle percentuali ottenute dai partiti nelle urne. E’ fondamentalmente giusto che uno possa votare il partito in cui si riconosce senza bisogno di turarsi il naso. Il Parlamento, secondo me, dovrebbe essere una fotografia il più possibile particolareggiata della situazione del Paese.

E’ ovvio allora che, data la situazione attuale e la riduzione del numero dei rappresentanti, l’unica strada per ottenere questo risultato sarebbe il proporzionale puro. Senza sbarramenti: anche chi prende il 3 per cento ha diritto a un seggio in parlamento. Si tratta pur sempre di un milione di persone. E la governabilità? La stabilità? Io credo sia un falso mito. Lo ripeto: abbiamo sperimentato negli ultimi vent’anni, tutte le leggi elettorali possibili, ma i governi cambiano, le maggioranza si modificano e si capovolgono nel giro di qualche mojito.

Altro ragionamento sarebbe modificare la forma di governo. E quindi pensare al superamento della Repubblica parlamentare per arrivare a un cancellierato o a un sistema semi-presidenziale. Temo però che sia meglio soprassedere: non mi pare che nell’attuale classe dirigente ci siano gli statisti in grado di ridisegnare il sistema costituzionale così in profondità. Quando ci abbiamo provato negli anni scorsi, con la riforma del titolo V, ad esempio, non è andata proprio bene, diciamo. E allora meglio un proporzionale classico, magari con circoscrizioni non enormi, che garantisca il diritto dei cittadini a scegliere i propri rappresentanti. Meglio una riforma soft, che lasci spazio alla politica e alle alleanza costruite sugli effettivi pesi elettorali, che i sistemi traballanti di cui si sente parlare. Meno fanno, meno danni si producono.

Il giorno in cui i grillini persero le stelle.
Il pippone del venerdì/89

Feb 22, 2019 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Sono diventati normali, non sono più gli extraterrestri che pochi anni fa si presentarono con la scatoletta di tonno in Parlamento. La via che li ha portati alla normalità è un po’ strampalata a dire il vero, ma la scelta di votare contro l’autorizzazione a procedere per Salvini, ha decisamente normalizzato i 5 stelle.

Via strampalata, dicevo. Sì, perché affidare una decisione che si dovrebbe basare su uno studio rigoroso degli atti a una votazione online appare davvero curioso. Un po’ una roba da tribunale del popolo. Sia pur ampiamente pilotato dall’esposizione personale del gemello di Salvini, quel Di Maio che, seppure traballante dopo sondaggi in calo e il disastro abruzzese, resta il “capo politico” del fu movimento.  E quando chiami uno “capo” e non segretario o presidente o coordinatore mica puoi metterti a discutere: si ubbidisce.

Malgrado questo percorso che fa sobbalzare sulle sedie chi, come me, è legato al dettato costituzionale dell’assenza di vincolo di mandato per gli eletti, il M5s ha scelto di rompere la barriera più grande che aveva inventato per differenziarsi dalla politica tradizionale. Mai più immunità, dicevano, anche se innocenti ci si difende in sede processuale e non in Parlamento. Dicevano che quella era la Kasta che proteggeva sempre se stessa, in un patto non scritto che per decenni ha retto, portando le Camere a respingere quasi sempre le richieste di autorizzazione a procedere.

Ora il dado è tratto, sono diventati normali. Hanno perfino le correnti e i vari capetti che litigano fra di loro. Votano secondo convenienza politica e non secondo la loro bibbia storica: era evidente a tutti che il sì all’autorizzazione per Salvini avrebbe messo a rischio l’esistenza stessa del governo. E una crisi al buio, in una fase in cui i loro consensi sono in calo, non se la potevano davvero permettere. Di Maio, che della compagine è il vero democristiano, ha capito che una volta imboccata la strada della normalità tanto valeva percorrerla fino in fondo. E così il M5s diventerà un partito vero e proprio. Sempre senza democrazia interna, questo pare ovvio, ma più strutturato, con coordinatori locali che rimettano insieme il sistema dei meetup e provino a far piantare radici nei territori al movimento. Cade anche il veto sulle alleanze per le elezioni amministrative. Viene perfino ridiscussa la regola delle regole, quella dei due mandati a tutti i livelli. Ora potranno farne paio in un Comune e altrettanti in Parlamento o in Regione.

Sia pur con timidezze e cautele, insomma, si avviano perfino a un tentativo di formazione di una classe dirigente. C’è, senza dubbio, la “ragion pratica”: con il vincolo assoluto del doppio mandato, rischiavano di perdere sindaci, volti noti, gran parte dei parlamentari. Tutta gente pronta a portare sotto altre bandiere la popolarità guadagnata in questi anni. Non c’è ancora una piena consapevolezza della necessità di un percorso di crescita anche in politica, per cui è necessario fare gavetta prima di arrivare ad alti livelli senza combinare disastri, ma alla fine arriveranno anche a questo.

Ora si tratta di capire come questa raggiunta “normalità” dei 5 stelle influirà sul loro consenso. Di certo non mi pare che una campagna da parte dei partiti di opposizione basata su questo punto possa avere un qualche successo. Perché, qualsiasi cosa facciano i grillini, gli altri l’hanno fatta prima. E quindi la normalità potrà anche sottrarre consenso a Di Maio, ma non lo riporta di certo sul Pd o su Forza Italia.

Il punto, secondo me, è un altro. Gli italiani hanno vissuto due fasi storiche decisamente opposte dal secondo dopoguerra a oggi. Nella prima Repubblica siamo stati il più conservatore dei popoli: gli spostamenti fra un’elezione e l’altra si limitavano ai decimali. Quando un partito aumentava di un punto percentuale si gridava al trionfo. In caso opposto si parlava di crollo. Con il crollo di quel sistema politico siamo diventati, al contrario, ansiosi di novità, sempre pronti ad assecondare chi faceva del cambiamento la propria bandiera. E’ successo con Berlusconi. Salvo poi prendersi una pausa rassicurante con il faccione emiliano di Prodi. E’ successo, sia pur per una stagione brevissima, con Renzi. Poi è stata la volta di Grillo e dei suoi: nel giro di una legislatura o poco più sono passati dalla marginalità all’essere il perno dell’intero sistema politico.

Riusciranno adesso a restare a galla nell’onda di riflusso? Io credo che l’intuizione di Di Maio, in realtà sia questa: quando il consenso sale puoi anche basarti esclusivamente sulla rete, ma quando l’onda torna indietro, per resistere devi essere un partito. Avere una base definita, che ti permette di aspettare che torni il tuo turno.  Faranno in tempo? C’è da sperarlo, perché nell’abulia della sinistra e in mancanza di una prospettiva davvero nuova, il prossimo messia, allo stato delle cose, è Salvini. E manco oso pensare cosa potrebbe arrivare dopo di lui.

Della sinistra, questa settimana, meglio non parlare proprio. Sono occupati a partorire le solite due o tre liste unitarie per cui ci scazzeremo e alla fine voteremo stancamente. Finirà male. Inutile spendere altre parole.

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