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Contro la politica della noia serve una sinistra modello Schlein.
Il #pippone del venerdì/129

Feb 14, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ecco, secondo me, uno dei male peggiori della politica italiana è proprio questo: la noia. Ci sono settimane in cui è perfino complicato trovare un argomento su cui ragionare. Il confronto non avviene mai o quasi mai sui temi decisivi per il nostro Paese, ma soltanto sulle tattichette che si reputano necessarie per garantire visibilità, ovviamente a sé stessi. Renzi in questo caso è un po’ un caso di scuola: non fa mai nulla con sincero slancio, tutto è in funzione del suo sviluppatissimo io che non ama stare lontano dal centro dei riflettori.

La stessa vicenda di questi giorni è esemplare: ci si scontra su un tema, quello della prescrizione, che sarà anche importante, ma del quale al 99 per cento degli italiani non frega assolutamente nulla. La prescrizione, i tanti paroloni usati spesso a sproposito, il garantismo contrapposto al giustizialismo: tutte scuse. E’ evidente che lo scopo è un altro: Renzi non crede – non ci ha mai creduto – che questa maggioranza possa diventare un’alleanza strutturale. Anche perché in quello schema non c’è posto per lui, altra cosa abbastanza evidente: una coalizione fra Pd e 5 stelle ha bisogno semmai di una copertura sul fronte sinistro. Di moderati ne abbiamo a bizzeffe. E allora che si fa? Si usa il “trattamento Letta”, quello altrimenti detto della goccia cinese: si logora il presidente del Consiglio con una dichiarazione al giorno, con le trattative infinite che quando sembrano arrivate a un punto di equilibrio vengono fatte saltare e si ricomincia da capo. Poi si sussurrano i nomi delle possibili alternative, senza che ovviamente gli interessati ne siano informati.

Potrebbe sembrare un paradosso perché Renzi di questo governo è stato uno dei principali sponsor. Ricordate quanto Zingaretti fosse inizialmente contrario? Fu proprio il bullo di Rignano a convincerlo, lo ha dichiarato lui stesso in una lunga intervista al direttore del Tempo. Ma Zingaretti, da politico scaltro quale è, ha fiutato l’aria e si è messo a lavorare per fa trasformare un incidente momentaneo in una possibile alleanza di lungo respiro. Le difficoltà, Renzi a parte, non mancano comunque, ma difficile dar torto al segretario democratico.

A Renzi il Conte bis, invece, serviva soltanto a prendere tempo. Doveva organizzare la sua scissione, per mettersi in salvo insieme ai fedelissimi che, in caso di elezioni anticipate, di certo non sarebbero tornati in Parlamento. Subito dopo sono cominciati i distinguo, i veti alle misure più innovative proposte nella legge di stabilità, quel lavoro di logoramento che vorrebbe condurre il governo alla paralisi in maniera da poterne proporre un altro più comodo per i disegni del rignanese.

Il tutto, su questo credo ci sia davvero ampio consenso nel Paese, è una noia mortale. Non appassiona manco i peggiori conduttori di talk show. Le elezioni, in realtà,  secondo me le vogliono in pochi. A maggior ragione in una situazione di incertezza, aggravata dal taglio dei parlamentari senza aver ridisegnato i collegi né tanto meno aver messo mano alla legge elettorale.

Mi sembrano scene di una politica che non capisce più la situazione che stiamo vivendo. Per di più si applicano i trucchi e le astuzie di un mondo che non c’è più a un mondo che si muove a velocità impensabili in passato. Tanto per dire: Conad annuncia 5mila nuovi cassintegrati. E non si tratta di una notizia isolata, sono decine ogni giorno le situazioni di questo tipo. L’Italia è ferma, non ne può più di una politica inconcludente che fa solo annunci e non riesce a essere concreta.

In questo panorama scialbo, fa piacere la notizia di Elly Schlein che viene nominata vicepresidente della nuova giunta in Emilia Romagna. La ragazza, lo confesso, mi piace molto e non da adesso. Intanto è stata la candidata più votata. E con quel cognome complicato ha fatto una vera impresa. Ci sarebbe da chiedersi perché. Da sola ha portato il 25 per cento dei voti dati a tutta la lista “Coraggiosa”. La risposta è semplice, quasi banale se volete: è una che, al contrario di tanti suoi colleghi, non insegue il consenso, lo raccoglie.

La sinistra dovrebbe andare a lezione da lei, servirebbe un corso intensivo. Ecco: il tema non è tanto replicare l’esperienza di “Coraggiosa” a livello nazionale, che poi sarebbe nient’altro che una riedizione di Leu. Il tema è replicare la Sclhein, ovvero crescere una generazione di dirigenti che non inseguono il consenso ma lo generano. E come si fa? Non la conosco di persona, ma mi sembra una persona semplice, competente, che dice quello che pensa in maniera comprensibile, diretta, senza politichese.

E’ stata fantastica dalla Bignardi, un’intervista in cui ha parlato di un tema delicato come la sua bisessualità in una maniera così bella da renderla una cosa naturale, scontata, sulla quale non ci deve essere nulla da eccepire. In un minuto ha spezzato un tabù ben radicato in noi italiani. Ho amato uomini, ho amato donne. Adesso sto con una ragazza che ha il pregio di sopportare i miei difetti. Semplice, diretta, senza fronzoli, senza retorica di alcun tipo.

Ecco, a me piacerebbe una sinistra così, modello Schlein, non modello Renzi.

Grazie presidente Mattarella, ci ha reso orgogliosi.
Il pippone del venerdì/128

Feb 7, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Un gesto semplice, con lo staff che avverte la preside appena un’ora e mezzo prima. Ma un gesto che ci riconcilia con l’essere italiani. Mattarella, in piena emergenza coronavirus, prende la macchina e va in una scuola multietnica per eccellenza, all’Esquilino, il quartiere che i giornali della destra definiscono con disprezzo la Chinatown romana. E ci sono anche le parole semplici della dirigente scolastica, Manuela Maferlotti: “Noi facciamo da anni il nostro lavoro senza pensare a dove sono nati gli studenti”. E anche queste sono parole che fanno bene. E ci sono anche le facce dei bambini, mischiati senza pensare al colore, ci danno qualche speranza in più.

Già anni fa ero rimasto colpito da un gesto di mio figlio: allora era alle elementari (sob) e per farmi capire chi fosse un suo compagno di classe con cui voleva andare a giocare al parco mi aveva detto “quello con la giacca marrone”. Quel bambino era di origine africana, ma loro non lo indicavano con il colore della pelle, perché non solo non era un problema, ma neanche una cosa a cui facevano caso.

Il gesto di Mattarella, insomma, parla agli adulti, perché i bambini non ne hanno bisogno. Non nascono razzisti, ce li facciamo diventare noi. Noi che evitiamo i negozi e ristoranti cinesi, che ci tiriamo su il maglione sulla bocca se qualcuno di origine asiatica tossisce. Che poi, a naso, la maggior parte di loro, soprattutto i bambini, la Cina l’ha vista soltanto sulla carta geografica: come fa ad avere il coronavirus? Mica si prendono le malattie in base al colore della pelle.

Mi ha ricordato, nella sua semplicità, quello che fece un grande sindaco di Roma, Luigi Petroselli: dopo un attentato che aveva gettato nel panico i pendolari che prendevano la metro, non fece dichiarazioni rassicuranti, comunicati stampa, uscì di casa, abitava sull’Appia, e salì sulla linea A. Senza troppo clamore, non era abituato a essere seguito dalle fanfare, quello che usava il trasporto pubblico era un cittadino comune non il sindaco.

Sono cose piccole, che non costano nulla, ma che ci riportano all’essenza stessa dell’agire politico che tanti presunti leader dimenticano o forse non hanno mai conosciuto:  fare politica, avere un ruolo istituzionale in particolare, non vuol dire leggere i sondaggi e cercare di girarli a proprio favore, vuol dire in primo luogo essere di esempio per i cittadini e risolvere i problemi anche attraverso il proprio agire. Un tempo ce lo insegnavano da piccoli nelle sezioni del Pci. Non soltanto dovevamo dare i volantini, ma essere irreprensibili in tutti i comportamenti, sia pubblici che privati, perché i comunisti dovevano essere di esempio. Cose che si sono perse.

Ecco, gesti come quello di Mattarella non risolvono i problemi dei cittadini, ma sicuramente aiutano a creare un clima differente, in un momento difficile. E riconciliano il Paese con la sua classe dirigente che non guida il popolo, ma si mischia con il popolo e capisce le paure, le attutisce non le alimenta.

Io credo che un cambiamento vero nel nostro Paese non sia una cosa di un giorno, ci vorranno anni per riparare ai guasti di una stagione gridata e basata sull’odio e tornare al confronto civile, a tutti i livelli. Perché il nostro è un Paese ferito, incattivito, lo scrivevo giusto la settimana scorsa. Ed è spesso difficile cercare di guardare oltre la nebbia che ci avvolge e vedere qualche luce nitida.

Il presidente Mattarella ci ha dimostrato, con un piccolo gesto lo ripeto, che ci può essere qualcosa di diverso. Che c’è un’Italia differente, solidale e accogliente. Dobbiamo darle forza e visibilità, far crescere i sentimenti positivi. Magari raccontando le realtà come questa scuola “di frontiera” invece che dare sempre e soltanto spazio agli episodi negativi. C’è anche la responsabilità nostra, dei giornalisti, che invece di mettere in pagina le cose più “facili”, che fanno vendere il prodotto, dovremmo tornare a fare il nostro lavoro e andare a cercare le storie più difficili, quelle che si vedono meno, ma rappresentano una ricchezza da proteggere e promuovere. Mattarella ci ha regalato un sorriso e a me un po’ di sincera commozione. Va trasformata nel nostro agire quotidiano. Di tutti noi.

Italiani brava gente? Ma de che. Nazisti e confusi
Il #pippone del venerdì/127

Gen 31, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Il titolo forse sarà un po’ esagerato, ma i dati che arrivano dal Rapporto Italia 2020 realizzato da Eurispes lasciano sbigottiti. Il 15,6 per cento dei nostri concittadini ritiene che la shoah non sia mai avvenuta. Un altro 16 per cento, invece, pensa che non sia stata la strage di milioni di ebrei di cui parlano i libri di storia.

Ce ne sono altri, in quell’indagine, di dati preoccupanti. Dal nostro rapporto con gli immigrati, dei quali il 7 per cento dichiara di aver paura, non si capisce bene perché, al giudizio su Mussolini, un grande leader per quasi il 20 per cento dei nostri connazionali. E ci sono anche spunti interessanti: ad esempio l’ambiente è una delle preoccupazioni principali degli italiani, ma solo uno su cinque di loro adotta abitualmente comportamenti ecosostenibili. Preoccupati, insomma, ma soprattutto delle proprie tasche. E, infatti, cosa assilla l’italiano medio? L’esosità della tasse.

Ora, l’indagine Eurispes è una semplice fotografia dell’esistente, ma dà sicuramente degli spunti di riflessione a chi si occupa di politica e soprattutto alla sinistra che, va sempre ricordato, dovrebbe avere come obiettivo quello di cambiare la situazione presente.

Certo è che l’assurda percentuale di negazionisti dell’olocausto lascia interdetti. Perché non si tratta semplicemente di avere opinioni differenti: in questo paese ci sono 9 milioni di persone (facciamo le cifre perché sono più efficaci delle percentuali) che pensano che un fatto storico, accertato, provato da testimonianze, processi, documenti, filmati,  sia una colossale balla. Erano il 2,7 per cento (poco più di un milione e mezzo) nel 2004, appena 16 anni fa.

Dietro questi numeri ci sono sicuramente ragioni “generazionali”. Mi piacerebbe vedere la distribuzione per età, ad esempio. Perché sicuramente la progressiva scomparsa di chi ha vissuto direttamente quegli anni pesa. Non è la stessa cosa sentirsi raccontare cosa era un campo di concentramento da chi ci è stato e leggerlo semplicemente sui libri di storia. E probabilmente la mia generazione, forse l’ultima che davvero ha conosciuto i sopravvissuti dei campi,che ha potuto vivere insieme ai partigiani, ha la grande colpa di non riuscire a trasmettere il proprio patrimonio di conoscenze, di esperienze. Speriamo che Liliana Segre possa continuare ancora a lungo il suo straordinario lavoro: il suo intervento al Parlamento europeo di pochi giorni fa per la sua efficacia e la sua semplicità andrebbe trasmesso una volta al giorno su tutte le tv a reti unificate. Sarebbe da rendere obbligatoria per legge una visita scolastica in un campo di concentramento.

Ma io credo che in quella risposta ci sia anche un dato più sociale, di un Paese più cattivo, meno colto, più ignorante nel senso proprio della parola. E guardate che basta fare un giro sui social per rendersi conto delle bufale che girano e del gran credito che hanno in tanti “insospettabili”. Siamo un Paese disposto a credere alle “verità” più assurde se chi le dice ha un minino di appeal e di senso della comunicazione. Siamo il paese che seguiva la cura Di Bella, che crede che le scie degli aerei nascondano chissà cosa. Siamo il paese dove – è capitato a me – una ragazza asserisce convinta che nello staff di Obama fosse presente un alieno. Convinta eh? Ti fa vedere foto, filmati, cita le fonti più assurde.

Saremo stati anche brava gente, ma quando eravamo noi i disperati con le valigie di cartone. Adesso non più. Io credo che per spiegare tutto questo ci sia anche da guardare all’assenza di politica a cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni. Perché la politica, la partecipazione, l’impegno sono l’antidoto più forte che esista. Bisognerebbe tornare all’antico – lo so sono vecchio e brontolone – alle scuole di partito, alla formazione della classe dirigente. Alla costruzione dal basso della società, ricreando luoghi di aggregazione, di confronto. Al contrario, al massimo ormai si va a votare, non si conoscono manco i vicini di casa. Siamo una società talmente poco sociale che si gioca via internet con persone che abitano dall’altra parte del mondo e non si fanno più le partite a pallone sotto casa. Sarà anche questo il nostro presente, ma io credo ancora alla possibilità di cambiare lo stato delle cose.

Giggino se n’ è ghiuto e soli ci ha lasciato.
Il #pippone del venerdì/126

Gen 24, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ora, capisco che mi potreste rispondere con un classico “meglio soli che male accompagnati”, ma le dimissioni di Di Maio da “capo” del Movimento cinque stelle sono decisamente la notizia della settimana. Quando ho letto su un giornale online “Di Maio si è dimesso”, titolo secco, ho sperato per un istante che avesse lasciato il ministero degli Esteri. Ho sperato che, per un istante, avesse capito i propri limiti e, smesso il sorriso eternamente stampato in faccia, avesse dichiarato: “Ebbene sì, lo ammetto, di politica estera non capisco un tubo, meglio lasciare questa postazione ad altri, soprattutto vista la situazione internazionale così complessa”.

Manco per niente, con una mossa che potrebbe sembrare infantile lascia la guida del Movimento a 4 giorni dalle elezioni in Emilia-Romagna e in Calabria. Potrebbe sembrare infantile, dicevo, perché potrebbe essere interpretata come la volontà di scaricare la colpa della probabile débâcle dei penta stellati ad altri. Magari c’è anche questo.  Secondo me, invece, questo è uno che la sa lunga, viene dalla scuola migliore dei democristiani del ‘900. Deve aver studiato con solerzia la loro storia. Perché io penso che Giggino guardi oltre questo pur importante appuntamento. O meglio, in questi due anni abbiamo imparato a conoscerlo: del destino dell’Italia e degli italiani gli interessa poco. Guarda al suo interesse personale ed è capace di tripli salti mortali all’indietro per difendere la sua poltrona. Se ne abbandona una, quella per cui si ritiene insostituibile, è perché pensa di tornarci più forte e in tempi brevi.

Secondo me, il Di Maio pensiero deve essere stato più o meno questo: fino ad ora sono stato io a prendermi pesci in faccia da tutte le parti, mediando fra le nostre correnti interne, Conte, il Pd, con Renzi sempre in agguato. Sono insostituibile in questo ruolo, ma qua sono tutti insoddisfatti. E allora me ne vado e si scannino pure senza rete di protezione. Vediamo che succede.

Il più preoccupato di tutti pare Conte, che non ha più una sponda. Non dimentichiamoci che quando si è formato il governo rosso-giallo, è stato proprio il presidente del Consiglio a spingere perché i leader del Pd dei Cinquestelle assumessero un ruolo importante, con la responsabilità di dicasteri di primo piano. Pensava che in questo modo il tasso di litigiosità di una maggioranza fatta di acerrimi nemici sarebbe diminuito. Zingaretti non poteva accettare, si sarebbe dovuto dimettere da presidente della Regione Lazio con il rischio – se non la certezza – di lasciare una delle postazioni di governo più importanti a Salvini e soci. Giggino ha subito preteso un dicastero chiave, di cui non sapeva assolutamente nulla.

Comunque sia, e questi mesi lo dimostrano, quelle di Conte erano pie illusioni. Pd e Cinquestelle, che si somigliano più di quanto potrebbe apparire dall’esterno, sono covi di serpi per di più abitati da personaggi che hanno visioni molto differenti tra loro. Sulla mancanza di amalgama dei democratici c’è ampia letteratura, sarebbe il caso di cominciare ad indagare un po’ di più anche sulla natura del movimento fondato da Grillo. Bravissimi a fare l’opposizione, disastrosi quando si tratta di governare. Rompere è più facile e meno faticoso che costruire, si sa. E’ un’affermazione persino banale che però coincide perfettamente con quello che ci ha fatto vedere in questi anni il M5s. Dalle amministrazioni locali al governo nazionale è stato un disastro. E quelli più capaci – vedi Pizzarotti – sono stati accompagnati bruscamente alla porta appena hanno provato a manifestare una certa indipendenza.

Tagliando corto, si tratta di vedere adesso l’effetto che faranno queste dimissioni. Per adesso hanno conquistato le pagine dei giornali che hanno spostato la data in cui tutto si chiarirà dalle elezioni di domenica 26, agli “stati generali” grillini, così loro chiamano il congresso.

In tutto questo fiorire di “date fondamentali”, mi permetto di segnalare che il Governo, a parte qualche diatriba e qualche provvedimento solamente annunciato, è fermo. Paralizzato dall’attesa di vedere cosa succede, prima era la sfida emiliana a rappresentare la linea di confine fra stabilità e rischio di sfasciare tutto, adesso sono i nuovi equilibri in casa grillina. E non è che il mondo resta a guardare: le crisi internazionali ci vedono sempre più spettatori distanti, l’economia va più o meno a rotoli. Soltanto i mercati sembrano dare ancora fiducia al Conte Bis, più che altro timorosi di quello che potrebbe arrivare dopo.

Lo stesso annuncio di Zingaretti di voler rifondare il Pd sembra soltanto l’ennesimo cambio di contenitore della sinistra italiana che quando non sa bene cosa fare annuncia di voler costruire “una casa più grande, in cui nessuno si senta ospite”. Partì qualche decennio fa Occhetto, poi è stato un susseguirsi di “case più grandi” e si è passati dal rappresentare un terzo degli elettori (e anche qualcosa in più) a un quinto scarso.

Qua, dal sottoscala della sinistra, c’è grande confusione e sconforto. Incrociamo le dita per domenica.

Ps: il titolo è una mezza citazione, voglio vedere chi indovina.

Ma dobbiamo per forza dare mazzate ai lavoratori?
Il pippone del venerdì/125

Gen 10, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Intanto ben trovati. Probabilmente più che di un pippone, dopo i bagordi natalizi, di capodanno e della Befana, avreste bisogno di una robusta dieta e di qualche corsetta. Me compreso, che me ne sto invece qui davanti al computer, bolso come un cavallo spompato.

Tant’è, accontentatevi di qualche considerazione di inizio anno, tanto per riprendere l’abitudine. Sulla situazione internazionale c’è poco da dire. Anzi ci sarebbe parecchio, a partire dal ruolo sempre più marginale dell’Onu, mai come adesso in balia dei capricci delle grandi potenze e, in particolare, di un Trump che sembra sempre più usare i missili e i droni per far aumentare la sua popolarità in vista delle elezioni.  Nelle ultime ore pare che possano prevalere le colombe sui falchi, ma si sente sempre nell’aria odore di polvere da sparo. Sono giorni complicati, nei quali basta un nulla perché alle diplomazie che si muovono in silenzio e lentamente possano sovrapporsi i generali pronti con il dito sul grilletto. Personalmente sento un grande senso di impotenza, come mi successe nelle ore precedenti alla guerra del Golfo. Che fare? Servirebbe la politica, una grande iniziativa europea. E invece assistiamo soltanto alle gaffe di Conte e di un ministro che di Esteri sa ben poco.

Sulla situazione interna italiana, mi pare che siano giorni di attesa. Si aspetta il voto dell’Emilia per capire se davvero questa esperienza un po’ raffazzonata possa costituire il fulcro di una possibile alleanza da contrapporre alla destra. Io credo che non sia sufficiente. Perché il Conte Bis mi pare una fotocopia del Conte Uno. Sono cambiati i programmi, abbiamo recuperato un po’ di credibilità internazionale (ma ci voleva poco), sia a livello politico che sui mercati. Ma resta un difetto di fondo: quando si alleano forze di natura differente si deve cercare una linea comune. Invece, in questi anni, abbiamo assistito a coalizioni che non si sono mai fuse, cercando la via più facile ma meno redditizia in termini di risultati: ognuno punta sui suoi cavalli di battaglia. Il risultato è che manca un progetto, una visione. E questo lo paghiamo tutti i giorni in termini di minore competitività, di decadenza di un Paese che, al contrario, avrebbe bisogno come il pane di seguire una indicazione precisa, di sapere dove si vuole arrivare e muoversi di conseguenza.

Capisco che è chiedere tanto. Ma se davvero si punta al green new deal, servono i provvedimenti necessari, senza titubanze. Non si può, ad esempio, obiettare che gli imballi in plastica li producono in Emilia e dunque va tutto rinviato in attesa delle regionali. Sarà bene che qualcuno dica con chiarezza a quegli imprenditori che sarebbe il caso che producessero altro, semplicemente perché tutta questa plastica ci sta uccidendo.

Gli esempi sarebbero tanti. E ci vorrebbe, non mi stancherò mai di dirlo, una sinistra in grado di rinnovare il suo campo di valori e muoversi di conseguenza. Visto che non è alle porte, mi accontenterei almeno di una sinistra che la finisca di dare mazzate in faccia ai lavoratori.

Lo dico con affetto al segretario del Pd: caro Nicola, non è che per tenere insieme il tuo partito devi per forza continuare a sposare i provvedimenti che hanno portato il partito stesso a un passo dall’irrilevanza elettorale. Perché ostinarsi a difendere il jobs act, che non ha prodotto nulla e ha eliminato diritti fondamentali dei lavoratori e perché ostinarsi a voler eliminare quota 100, che sarà anche una misura parziale, ma ha avuto un riflesso positivo sulle vite di decina di migliaia di persone, quelle – tra l’altro – che a parole consideri il tuo elettorato di riferimento? Credi davvero che diminuire appena un po’ la pressione fiscale sia sufficiente a far respirare i lavoratori dipendenti?

Ho l’impressione che, come troppo spesso è successo nella breve storia del Pd, il feticcio dell’unità a tutti i costi porti a cedimenti inaccettabili, che manchi quella chiarezza di linea politica che è essenziale per tornare a essere un punto di riferimento per i più deboli. Si possono anche perdere le elezioni, ma non si può perdere la propria anima, altrimenti si viene travolti dagli eventi. Il Partito democratico, malgrado tutti i suoi limiti, è ancora oggi, l’unica grande organizzazione di massa che esiste in Italia. Le altre forze politiche sono partiti del leader, legati indissolubilmente al destino del capo. E questo rende tutto il sistema Paese più debole, troppo legato ai sondaggi, troppo attento a creare bisogni e paure fittizi per evitare di dover affrontare i nodi veri che da troppo tempo abbiamo attorno al collo.

Un sistema scolastico che è stato cambiato talmente tante volte da essere ridotto ai minimi termini. L’istruzione da noi è ormai una specie di collage scombinato, in cui gli studenti annaspano e gli insegnanti sono sempre meno motivati. Le infrastrutture cadono a pezzi, letteralmente. L’amministrazione della giustizia cambia a seconda del Tribunale. Se sei a Roma hai meno diritti di chi sta a Milano. Ora sarà anche un problema grandissimo quello della prescrizione, ma sarà forse il caso di investire in strutture più efficienti, dotate di tecnologie adeguate? Quando si entra nel tribunale civile di Roma, non di un paesino ma della Capitale d’Italia, si piomba di botto nel medioevo, tutto si regge sulla buona volontà di cancellieri, avvocati e giudici. Per non parlare della sanità, dove gli squilibri territoriali sono ancora più evidenti. Negli ultimi dieci anni è stata amministrata con lo spirito dei ragionieri. L’unico obiettivo è stato quello di riportare i conti in ordine. Con il risultato che il servizio pubblico sta morendo per asfissia.

Ho indicato solo quattro temi, che secondo me sono però, un po’ la carta di identità con cui un paese si presenta. Del resto non è questo il luogo per scrivere un programma compiuto.

Sarebbe bello però avere finalmente un governo che faccia cose non dico di sinistra, ma almeno diverse dal liberismo sfrenato della destra italiana. Sono soltanto speranze di inizio decennio?

Quanto è triste il lavoro nel tempo di “Frank”.
Il #pippone del venerdì/124

Dic 20, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La notizia non è di quelle che finiscono in prima pagina, si mette al massimo all’interno,  più che altro per il nome dell’azienda, Deliveroo, ben nota alle cronache sindacali. In sostanza è una multinazionale leader in Europa per le consegne in bici e in moto, fatte attraverso lavoratori cosiddetti autonomi, i “rider”. Che siano sostanzialmente i moderni schiavi è cosa nota.

E’ il nostro tempo, si dirà, in cui la velocità nella consegna di un ordine è essenziale per battere la concorrenza. E fin qui tutto vero. Si potrebbe facilmente obiettare che viste le esigenze di rapidità i lavoratori dovrebbero essere semmai più tutelati, quanto meno avere diritto alla malattia e alle ferie ed essere ben pagati. Magari gli potrebbero anche dare una palestra per allenarsi a pedalare. E del resto l’utente finale la rapidità della consegna la paga eccome. A volte esplicitamente, altre con l’aumento del prezzo del bene acquistato. Funziona così, basta usare un sito per la comparazione dei prezzi per rendersi conto che la dicitura “consegna gratuita” è una balla.

Ma quello che ha catturato in particolare la mia attenzione è “Frank”, ovvero l’algoritmo su cui si basa il sistema di assegnazione delle consegne. Per i non matematici: un algoritmo altro non è che un procedimento di calcolo che, attraverso una serie di passaggi, risolve un determinato problema. In pratica hai delle variabili che, a seconda di come le imposti, danno risultati diversi.

Frank è l’algoritmo, ovvero il sistema matematico, che Deliveroo usa per assegnare le consegne ai rider. Il nome deriva da uno dei protagonisti di una nota serie televisiva It’s Always Sunny in Philadelphia, interpretato da un colossale Danny De Vito: di “professione” fa il manipolatore. Già il nome è tutto un programma, insomma. Se Frank manipoli davvero la vita dei rider lo stabilirà presto il giudice del lavoro di Bologna, investito del problema da un ricorso della Cgil.

La questione è complicata. Perché non si tratta di un semplice programma informatico che accoppia i nomi alle consegne da fare, tutt’altro. Non è un innocente foglio di calcolo. Valuta, secondo il ricorso del sindacato, la “reputazione del rider”, calcolando le sue prestazioni nelle due settimane precedenti. Se hai una buona reputazione ti vengono assegnate le consegne migliori in una fascia più comoda. Se sei stato un cattivo rider ti tocca aspettare in fila.

Già detta così, in un lavoro dove sostanzialmente vieni pagato a cottimo, suona un po’ strano. Ma sono i parametri adottati per valutare la reputazione che ti fanno saltare sulla sedia. Frank, infatti, è stato programmato per penalizzare “tutte le forme lecite di astensione dal lavoro”, si legge nel ricorso. In pratica: scioperi, sei malato, devi assistere la mamma inferma? E io non ti faccio lavorare.

Ora, che un’azienda, soprattutto quando si tratta di una grande multizonale, si doti di strumenti informatici per gestire i suoi dipendenti è del tutto lecito. Che si penalizzi chi fa valere i propri diritti, un po’ meno. Niente di nuovo sotto il sole verrebbe da dire, da sempre il padrone vuole accanto a sé gente fedele. Perché l’operaio non deve pensare, non deve ammalarsi, non deve avere una famiglia. Quella che colpisce è la sfacciataggine dell’azienda, che, secondo la Cgil, arriva a codificare la discriminazione. La difesa di Deliveroo appare deboluccia: i rider sono liberi di accettare o meno una consegna, non sono lavoratori dipendenti. In realtà, a leggere le carte portate in tribunale, sono lavoratori dipendenti, ma dipendono da Frank.

A chi ironizza sulla sconfitta di Corbyn e già pensa a un ripiegamento della sinistra in versione Blair bisognerebbe far leggere questi atti depositati in tribunale. E’ colpa del ripiegamento della sinistra negli anni ’90 del secolo scorso, è colpa nostra che non abbiamo capito un tubo della globalizzazione, se oggi siamo ridotti così.

Da parte mia resto convinto del fatto che di fronte a un capitale sempre più tracotante serve un nuovo socialismo che rimetta al centro l’individuo e la lotta per i diritti sociali. Al capitale sempre più globale e senza confini serve una risposta politica che, a sua volta, abbia la forza di andare oltre i confini del novecento.

Siccome è Natale,siamo tutti più buoni e siamo anche incasinati il pippone di oggi finisce qui, breve e conciso. Tanti auguri a tutti meno che a Frank, ci rivediamo dopo la befana.

La politica è capacità di decidere
Il #pippone del venerdì/123

Dic 13, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Sarà anche vero che si avvicina il Natale e dovremmo essere tutti più buoni, ma vivendo in questo Paese e in particolare a Roma, il clima delle feste si sente davvero poco. La verità è che ci sono periodi in cui chi, come me, ha la passione per la politica è davvero sconfortato. Dal livello nazionale a quello locale siamo alla desolazione totale.

Certo, qualche buona intenzione questo governo l’aveva pure manifestata. Ma lì siamo rimasti. Fra veti e controveti l’unico risultato che la maggioranza è in grado di rivendicare è l’aver evitato l’aumento dell’Iva. “Abbiamo pagato i conti di Salvini, senza farli pagare agli italiani”, recita lo slogan più efficace che sono stati in grado di tirare fuori. Non è un problema di comunicazione, è che c’è davvero poco. Sarà anche un grande successo, ma qui fra una crisi aziendale e l’altra ci sono decine di migliaia di posti di lavoro a tempo indeterminato che stanno andando in fumo. Dall’Ilva, a Unicredit, all’Alitalia perennemente in crisi. Se si scende di livello e si passa alle imprese medio piccole è una specie di cimitero. Ogni giorno, basta leggere le cronache locali dei giornali, è una via crucis, fra imprenditori che fuggono, fabbriche che licenziano, imprese che delocalizzano, come si usa dire per non turbare troppo gli animi.

Se poi parliamo di Roma, siamo alla catastrofe. Per altro manco tanto imprevista. Il livello di incuria è tale che ormai per passeggiare nelle strade si fa lo slalom tra i rifiuti. E se hai la ventura di girare in moto devi avere un paio di occhi supplementari per evitare le buche che si aprono quasi a sorpresa. Ogni santo giorno ne trovi una nuova. E che fa la politica? Stanno ancora litigando fra Regione e Comune per individuare una benedetta discarica dove mandare i rifiuti. Per la sindaca Raggi non serve. La Regione fa un’ordinanza con cui le intima, fra le altre cose, di indicare un luogo idoneo e lei traccheggia, poi pensa addirittura di ricorrere al Tar, dopo aver mandato la dirigente del settore, una sorta di agnello sacrificale, a trattare al tavolo con i tecnici delle altre istituzioni coinvolte. Scaduti i termini dell’ordinanza avrebbe dovuto decidere Zingaretti, fra l’altro anche presidente della Regione. E invece si traccheggia. Perché decidere fa diventare impopolari.

Ora, almeno in questo caso avrà anche ragione il segretario del Pd e presidente del Lazio. A norma di legge la Regione decide le strategie per smaltire i rifiuti, indica gli obiettivi da raggiungere, mentre i Comuni sono responsabili della raccolta, del trattamento e dello smaltimento delle tonnellate di immondizia che produciamo ogni giorno. Ma l’immagine che ne esce è quella dell’ennesimo scaricabarile fra politici che non vogliono assumersi la responsabilità di scelte necessariamente impopolari.  E non è storia di oggi. Era il gennaio del 2014, quando l’allora sindaco Ignazio Marino dichiarò che a Roma non serviva una discarica. Da allora i nostri rifiuti hanno cominciato a fare il giro del mondo. Che questo abbia costi ambientali e finanziari esorbitanti poco importa. Quello che davvero conta è togliere i rifiuti di mezzo, portarli lontani dai propri elettori e soprattutto dal loro naso.

Ecco, io credo che, ai vari livelli, l’Italia paghi la pavidità della sua classe politica. Non è un’accusa a questo o quel partito. E’ il sistema che, unicamente proiettato alla ricerca del consenso, produce questo disastrato Paese. Servirebbero scelte forti per far ripartire la nostra economia. Si vuole una svolta ecologica? Si investa in questo senso.  E si facciano scelte conseguenti. E invece prima ci si inventa la plastic tax, poi si riduce rendendola un buffetto per le multinazionali della plastica, infine si rinvia addirittura. Prima si parla di riconversione ecologica dell’Ilva, poi la si affida agli indiani. Ma non è che un’azienda del genere non può proprio stare in mezzo a una grande città come Taranto?

Di Roma abbiamo già detto, ci torno soltanto per ribadire un concetto: è giusto che chi produce rifiuti pensi anche a come smaltirli in loco, senza inquinare mezzo mondo. E una discarica, sia pur ridotta, sarà sempre necessaria anche se si raggiungessero tutti gli obiettivi previsti dal Piano rifiuti sulla raccolta differenziata. Arriveremo, forse, un giorno lotano al 70, 80 per cento. Ma anche in quel caso resterà una parte di immondizia che da qualche parte andrà pur sistemata. E a Roma siamo bloccati intorno al 40 per cento. Tremila tonnellate al giorno di rifiuti vagano per l’Italia e l’Europa perché non sappiamo bene dove metterli. Colpa anche di uno sviluppo urbano insensato, a macchia di leopardo, che ha seguito sempre gli interessi dei costruttori, per decenni unico motore economico della Capitale, e mai quello che dei cittadini.

Secondo me, questa è una delle chiavi per riconquistare i consensi persi: darsi una linea politica e decidere. Nello stagno si affoga e si dà sempre più spazio alle destre, bravissime a denunciare l’incapacità altrui, ma sempre disastrose quando hanno avuto l’onere del governo.

Io credo che il messaggio che lanciano le piazze delle sardine sia anche questo: sveglia ragazzi che a litigare fra voi ci ritroviamo Salvini per vent’anni. Sul fatto che il messaggio sia recepito permettetemi di conservare intatto tutto il mio scetticismo.

Avete voluto l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti?
Il #pippone del venerdì/122

Nov 29, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Si moltiplicano i casi giudiziari che riguardano le fondazioni legate ai partiti o alle correnti varie. Dovrebbero essere organizzazioni di naturale culturale, centri di elaborazione per mettere a disposizione della politica idee e progetti di alto livello. Dei “pensatoi”, insomma. In realtà, a parte rare eccezioni, sono dei collettori di denaro, per loro natura poco trasparenti. Tanto per farci un’idea di cosa stiamo parlando, ne risultano attive una sessantina. E, in quanto fondazioni, rispondono a norme differenti rispetto ai partiti stessi. Si fa fatica a trovare l’elenco dei finanziatori, ad esempio.  In questi giorni è scoppiato il caso di Open, la fondazione legata a Renzi, ma gli esempi sono molti, in realtà, da destra a sinistra. Insomma, il problema non è Renzi (almeno non in questi caso specifico, ma il sistema in sé).

Andiamo come al solito con ordine. Dando una sponda alle campagne (politiche e di stampa) contro i partiti e contro la kasta, nel 2014, siamo al governo Letta, viene di fatto abolito il sistema di rimborsi elettorali, il cosiddetto finanziamento pubblico. Oggi restano soltanto due forme di finanziamento, il 2 per mille, ovvero la libera scelta del singolo contribuente di destinare parte delle sue tasse a una formazione politica, oppure il finanziamento diretto dei privati, tramite donazioni che possono arrivare a 100mila euro l’anno e che devono essere rendicontate.

Dal 2016, anno in cui la legge ha effettivamente dispiegato a pieno i suoi effetti, dunque, i partiti si finanziano soltanto con contributi privati. E già questo, l’ho scritto più volte, è discutibile. In più quasi tutte le maggiori forze politiche hanno messo in piedi fondazioni che, come detto, hanno regole meno rigide e meno trasparenza.

Ora, lungi da me essere contro il finanziamento del singolo militante, tramite il 2 per mille, il tesseremento, o sottoscrizioni libere. Qui si discute di altro. Ovvero di imprenditori che versano in forme varie centinaia di migliaia di euro ogni anno a organismi privati e spesso fuori controllo. A volte lo fanno in cambio di un “lavoro” fatto (uno studio, un convegno), a volte a fondo perduto.

Al di là dei singoli reati che i magistrati contestano di volta in volta, viene da chiedersi per quale motivo un imprenditore dovrebbe donare a un partito (a una fondazione, in realtà, ma questo è soltanto un passaggio di comodo) cifre così ingenti. Passione politica, mecenatismo? Sono imprenditori illuminati che capiscono l’importanza che hanno i partiti per la democrazia? Si può anche crederlo e ci sarà anche qualche caso così. Io credo, però, che in realtà si tratta di mera azione di lobbing: ti finanzio e tu porti avanti i miei interessi.

Letta così l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti li ha resi ancora più deboli e costretti a piegarsi alle logiche economiche anche soltanto per sopravvivere. Altro che autonomia del sistema politico. Da qui la risposta alla domanda che ponevo nel titolo di questo pippone: ora vi beccate un quadro politico non solo meno trasparente, ma per sua natura soggetto al ricatto dei finanziatori.

Questa è la caratteristica dell’azione di lobbing, se non è sottoposta a regole certe. Che il lobbista, occulto, diventa padrone, per quota parte, delle scelte che il beneficiato compirà in parlamento. Senza che i cittadini possano avere immediatamente contezza di quello che succede. E fin’ora abbiamo parlato soltanto delle fondazione e dei partiti, che quanto meno sono organismi collettivi. Applicando lo stesso ragionamento ai finanziamenti fatti al singolo candidato alle elezioni il quadro è ancora più fosco. Insomma, non si tratta solo di accertare eventuali reati: ovvero uno scambio di favori diretto che configura vere e proprie ipotesi di corruzione. E’ il sistema intero che è di per sé sbagliato. Ha prodotto l’effetto esattamente contrario a quanto, almeno a parole, si proponeva l’ondata contro i partiti, cavalcata in primis dai grillini.

E’ uno dei danni prodotti dalla debolezza culturale della sinistra in questi anni. Troppe le occasioni in cui non si è riusciti ad andare controcorrente e prendere decisioni che in quel momento sarebbero state impopolari, ma erano giuste. E’ successo con la riforma del titolo V della Costituzione, che ha generato quel sistema misto Stato-Regioni che ha devastato un diritto essenziale come quello alla salute e ha moltiplicato carrozzoni e enti inutili, invece che avvicinare il governo ai cittadini. Ci siamo cascati ancora con l’abolizione del finanziamento pubblico.

Inutile aspettarsi un’inversione di tendenza netta. La ricetta sarebbe semplice: vietare le donazioni dei privati (fatte salve le sottoscrizioni di modesta entità) e tornare a rimborsi legati all’attività dei partiti. Servirebbe coraggio, magari una legge che garantisca regole democratiche nel funzionamento delle forze politiche, in maniera da avere un effettivo controllo sull’impiego dei fondi pubblici. E invece, ancora una volta vesto i panni comodi del facile profeta, si preferirà parlare di responsabilità dei singoli (che ovviamente vanno accertate e perseguite): come dire, si toglierà qualche pagliuzza dagli occhi dei cittadini, la trave resterà ben piantata al suo posto.

Anche le sardine, nel loro piccolo, si incazzano.
il #pippone del venerdì/121

Nov 22, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La dico subito, a me questa cosa delle “sardine” in piazza piace parecchio. Ha ragione Bersani, danno due messaggi molto chiari: a Salvini mandano a dire che non sarà una passeggiata, a partire dalle elezioni emiliane, a noi sinistra dicono chiaramente che è il momento di finirla con le pippe mentali. E’ una sorta di appello collettivo.

L’ho scritto subito, perché in queste due settimane in cui il movimento spontaneo si è allargato in tutta Italia ne ho lette di tutti i colori. C’è chi dice che devono avanzare proposte, che non si può dire soltanto no a Salvini. Chi chiede addirittura un programma delle sardine. Siete fuori dal mondo.

Riassumiamo: quattro ragazzi bolognesi, all’avvio della campagna elettorale per le elezioni regionali, decidono che non ci stanno ad assistere al solito tran tran, fatto delle solite facce che si incontrano nelle solite sale. E quando Salvini organizza un comizio al PalaDozza, lanciano uno slogan “Bologna non si lega” e chiamano in piazza Maggiore “6000 sardine”. Insomma: facciamo vedere che ci siamo anche noi, tutti stretti come il noto pesce che ama compensare la sua debolezza con la creazione di grandi banchi compatti. Le sardine saranno molte di più. E colpiscono le segno, le reazioni scomposte di Salvini ne sono la riprova evidente. Da quel giorno si moltiplicano appuntamenti, gruppi facebook, manifestazioni in tutta Italia. I quattro ragazzotti bolognesi diventano subito star di un mondo dei media sempre più stanco e alla ricerca di un guizzo per destare un po’ di interesse.

Tanto basta per generare una vera e propria esplosione. I gruppi facebook aumentano iscritti a ritmi vertiginosi, soprattutto pensando alla stanchezza attuale del gigante dei social. Quello principale è arrivato alle 7,40 di oggi a quota 114mila. Erano 105mila prima di andare a letto ieri sera. E sono gruppi attivi, dove i post si accavallano, gli appuntamenti si sovrappongono. Poi ci sono anche i polemici e i soliti troll. Ma la maggioranza è fatta da persone comuni, senza una precisa appartenenza politica, vagamente di sinistra potremmo dire, che vogliono semplicemente riaffermare alcuni valori: intanto la solidarietà contrapposta all’odio che Salvini in questi anni ha sparso a piene mani. E c’è anche una positiva voglia di essere protagonisti, di provare a fermare la deriva italiana che fino a pochi giorni fa sembrava inesorabile.

Insomma, le sardine sono una scossa salutare. Ci fanno capire che c’è vita oltre le stanche forze politiche attuali e che una strada per uscire da questo pantano esiste. E’ folle, invece pretendere che, da un giorno all’altro, quattro ragazzi organizzino un partito, con manifesti ideali, programmi, strutture e tutto il resto.

Come spiega Bersani, sempre fra i più lucidi quando si tratta di fare analisi politica, le sardine pongono un problema a tutta la sinistra, che dovrebbe essere il loro alveo naturale (se non altro per contrarietà, come direbbe Guccini) ma che non riesce a esserlo. Le ragioni, o almeno quelle che secondo me sono le ragioni, le ho scritte cento volte e non voglio ripetermi ancora.

Ma adesso c’è un fatto nuovo: la sinistra riscopre che un suo popolo esiste. Almeno potenziale. Ed è lontano da quelle rappresentazioni che girano da anni sui media. Ci raccontano sempre che alle varie assemblee “ufficiali” ci sono più vecchi, c’è solo quello che un tempo si sarebbe definito il ceto medio riflessivo, gente di una certa cultura, anche un po’ radical chic.

Ecco, invece, le sardine ci raccontano che non è il popolo della sinistra a essere così, è la sinistra a essersi rinchiusa in quel recinto con le sue paranoie, le sue parole d’ordine incomprensibili e lontane dal sentire comune.  Nelle piazze emiliane, ma adesso un po’ in tutta Italia, si rivedono tanti ragazzi che in un partito (forse per loro fortuna) non ci hanno messo mai piede. C’è gente di tutti i ceti sociali, di tutte le età. E stanno insieme senza chiedersi a che corrente appartieni, chi ti manda.

Non sarà certo la panacea di tutti i mali. Quella delle sardine è un’ondata. Che toccherà rapidamente un suo picco e poi tenderà inevitabilmente a calare. Non è una novità: è successo, per restare agli anni scorsi, prima con i girotondi, poi con l’ancora più effimero popolo viola. Sta alla sinistra provare a rivoluzionare se stessa e offrire un mare sicuro a questo popolo. Se ci fosse una classe dirigente in questo Paese non proverebbe a cavalcare l’onda, ma proverebbe a fornire risposte: la prima che mi viene in mente è: ragazzi, avete ragione voi, ci mettiamo a disposizione per costruire insieme un futuro differente per questo Paese.   Postare le foto delle manifestazioni con commenti entusiastici serve davvero a poco. Diamoci una scossa, perché le sardine sono piccole, ma si incazzano. Anzi sono già belle incazzate.

Bologna, Emilia: dateci un bel segno.
Il #pippone del venerdì/120

Nov 15, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Dopo la divagazione “personale” della settimana scorsa, mi pare il caso di tornare a occuparsi della politichetta italiana. Fra il disastro di Venezia e la paventata chiusura dell’Ilva questa è sicuramente la settimana di Bologna. Si concentra tutto lì, dalla manifestazione di apertura della campagna elettorale di Salvini al PalaDozza (sigh) alla tre giorni che dovrebbe dare il via alla rifondazione del Pd (sob). Con in mezzo la piacevole sorpresa dei quindicimila bolognesi che hanno riempito come altrettante sardine piazza Maggiore per far vedere che sono più dei leghisti, che hanno dovuto cammellare truppe dalla Lombardia per riempire lo storico palazzo dello sport.  In piazza, altra piacevole sorpresa, anche il padre della candidata leghista alla presidenza della Regione.

L’Emilia-Romagna, diciamolo subito, non è una Regione qualunque. Insieme alla Toscana ha sempre rappresentato un baluardo insormontabile dal dopoguerra a oggi. Più della Toscana rappresenta l’epicentro di un sistema non solo politico, ma anche economico, che ha sempre rappresentato un’alternativa possibile. Una sorta di palestra in cui le idee della sinistra hanno avuto modo di innervare profondamente il tessuto sociale. E quindi si è spesso parlato negli anni di modello emiliano in economia, con la crescita dei grandi colossi cooperativi, dalle mense, alle assicurazioni, alle costruzioni, di modello emiliano nella sanità e nell’istruzione. Gli asili nido emiliani, andrebbe risposto a chi straparla del caso di Bibbiano, li venivano a studiare da tutto il mondo fin dal secolo scorso.

Certo, il vento nazionale resta contrario. Le difficoltà del governo, acuite dall’egocentrismo di un Renzi che si considera un novello Macron, sono sotto gli occhi di tutti. E’ difficile andare avanti sulla normale attività, si va in tilt appena c’è una crisi. In più il sempre più rapido declino dei 5 stelle li porta a dei guizzi disperati, come il pesce preso all’amo che tenta l’ultimo vacuo tentativo di sottrarsi alla lenza.

Andiamo con ordine. Il fiorentino dice ormai apertamente quello che qualcuno “sospettava” già da anni. La sua lettura della famosa “vocazione maggioritaria”, che tanti danni ha portato alla sinistra italiana, era già evidente, bastava avere la capacità di guardare con occhi distaccati le sue azioni: trasformare il Pd in una novella Dc, capace di aggregare voti un po’ da tutte le parti, ma puntando decisamente a quel centro moderato che il declino di Berlusconi ha via via liberato. Che in tanti se ne se siano accorti a cose fatte è uno dei sintomi più evidenti della pochezza della nostra classe dirigente. E di fatti con c’è riuscito più per la sua incapacità strategica che per meriti altrui. E adesso ci riprova con la sua nuova creazione. Lo ha dichiarato apertamente: vuole fare come Macron, (che a casa sua sta riscuotendo evidenti successi!) ovvero svuotare il campo socialista come è successo, a suo dire, in Francia. Peccato che dimentichi come la crisi irreversibile del Psf ha portato sì consensi a Macron, ma parallelamente è cresciuta fino a raggiungere il 20 per cento l’esperienza della sinistra della France Insoumise. Devo ancora ripetere che in Italia manca, a oggi, una risposta da sinistra?

Di certo, comunque, il protagonismo renziano, sia sulla manovra economica, che sui temi più politici delle alleanze per battere la destra, alza il livello di conflittualità nella coalizione che sostiene il governo Conte e questo non fa bene. Sia per il blocco dell’azione del governo stesso che deriva dai veti contrapposti fra Italia Viva e i 5 stelle, sia perché tutto questo, come risultato finale, porta a un grande disorientamento fra gli elettori. La politica, mi prendo una riga per ricordarlo, è una cosa in fondo semplice: i voti si conquistano lanciando messaggi chairi al blocco sociale che si vuole  rappresentare. La confusione, o il voler rappresentare tutti che in fondo è un po’ la stessa cosa, ti porta automaticamente a perdere.

Dall’altro lato il Movimento 5 stelle appare incapace di tornare alle origini, dopo la sbornia dei 14 mesi leghisti. Per cui quella che dovrebbe essere, almeno a guardare le rispettive carte di identità, la parte più vivace del governo, quella capace di lanciare proposte innovative, di dare risposte originali ai problemi che dobbiamo affrontare, si ritrova al contrario a guardare soltanto al proprio ombelico. Il centralismo poco democratico di Di Maio ha avuto come prima conseguenza l’imborghesimento di tutto il Movimento che è diventato nel giro di pochi anni un partito normale, con le sue correnti, le sue poltrone da difendere, senza però avere la struttura e le regole democratiche di un partito normale. E’ evidente, soprattutto, la distanza con le aspettative del suo corpo elettorale.

E allora cambiano linea due volte al giorno, vagano alla ricerca della purezza perduta, senza capire che la strada giusta sarebbe quella indicata da Zingaretti. Il M5s, sulla carta, potrebbe essere davvero la gamba indispensabile per provare a costruire un’alleanza in grado non solo di battere la destra, ma di governare il nostro Paese con la necessaria discontinuità rispetto al passato. Ma deve tornare a essere quello che difendeva l’acqua pubblica e predicava trasparenza in tutte le scelte. Servirebbe, forse, una presenza rinnovata di Beppe Grillo, che sarà anche un pazzo, ma è forse l’unica ancora di salvezza alla quale possono aggrapparsi.

Tutto questo per dire che a gennaio sarà dura anche in Emilia. Anche in una Regione da sempre governata bene dalla sinistra, che rischia però di piegarsi a un vento nazionale contrario che sembra sempre più forte. Per questo piazza Maggiore è un bel segnale. Un segnale che c’è ancora un tessuto sociale forte che non vuole “legarsi”, come dicono i ragazzi che hanno organizzato la manifestazione di ieri. Dobbiamo avere la capacità di partire da quella piazza e non dalle convention che si annunciano storiche e finiscono per essere un vetrina mediatica di basso profilo.

Emilia, a gennaio dacci un bel segno.

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