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Emergenza rifiuti a Roma
Facciamo chiarezza

Mag 10, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

Sono giorni che assistiamo a un rimpallo di responsabilità fra Regione e Comune sull’emergenza rifiuti a Roma. Permettetemi una battuta: è colpa di Renzi. Il caso, infatti, scoppia quando il neo segretario del Pd annuncia che pulirà lui la città da cima a fondo. Fino ad allora avevamo convissuto tranquillamente con l’immondizia che sta per strada fin da quando c’era Alemanno sindaco. Con periodiche crisi dovute alla rottura degli impianti e ai ponti da festività. I sindaci che si sono succeduti al massimo hanno avanzato proposte su come risolvere la situazione. Marino ha aumentato i cassonetti in strada invece di puntare all’estensione del porta a porta, peggiorando la situazione. Per il resto è tutto uguale a prima. La città fa schifo e i topi, è proprio il caso di dirlo, ballano. Ma come se ne esce? E di chi sono le responsabilità, scherzi a parte?
Di seguito pubblico la lettera dell’associazione “Zero Waste Lazio” rivolta al sindaco Raggi. Mi occupo di queste materia da alcuni anni per lavoro e credo di poter dire che fanno un quadro molto puntuale e onesto. E’ un po’ lunga, ma secondo me molto chiara. Diffondetela, se volete. Credo sia utile

LETTERA APERTA AL SINDACO VIRGINIA RAGGI :
ALCUNE VERITA’ SULLA GESTIONE DEI RIFIUTI A ROMA

La situazione di emergenza in atto a Roma non è una opinione ma un fatto, basato di certo su un sistema impiantistico di AMA inadeguato, obsoleto o del tutto assente e che è un fatto noto a tutti da tempo, per cui servivano già da un anno azioni concrete aldilà della ostinata negazione del disastro oggi in atto da parte del suo assessore all’ambiente, che continua purtroppo a non produrre fatti ma solo altra “documentazione” cartacea.

Le ricordiamo che è passato quasi un anno dall’insediamento della sua giunta e che, nonostante il cambio di due assessori all’ambiente, la sua maggioranza ha di fatto ignorato per motivi diversi sino a febbraio 2017 i continui solleciti al confronto per l’attuazione della delibera capitolina già approvata n. 129/2014 “Roma verso rifiuti zero”, data da cui aspettiamo un atto di giunta annunciato dal suo assessore all’ambiente tre mesi fa!! La citata delibera capitolina “quadro” tuttora vigente, in quanto delibera di iniziativa popolare ha visto il riconoscimento del suo indiscusso valore sia dalla giunta precedente che recentemente dalla sua giunta, in termini di criteri per la pianificazione di – azioni – programmi ed obiettivi al 2020. Ma oltre la condivisione teorica del percorso “verso rifiuti zero” serve ora che lei metta a disposizione di AMA le risorse economiche e di personale per attuare i citati programmi descritti in modo puntuale, in primis per un “programma straordinario” mirato alla riconversione generale dai cassonetti alla raccolta generalizzata “porta a porta” e la costruzione degli impianti di compostaggio e di riciclo necessari.

Le ricordiamo che su questo aspetto il rimpallo di responsabilità tra lei e Zingaretti non produrrà alcun effetto, dato che la progettazione e realizzazione degli impianti per i rifiuti urbani è in capo ad AMA, mentre la loro autorizzazione resta in capo alla Regione Lazio per gli impianti di TMB e per la eventuale discarica di servizio per i rifiuti indifferenziati salvo la competenza di ubicazione del sito da parte di Roma Capitale. Ma lei forse dimentica che ciò che manca del tutto a Roma sono gli impianti per le frazioni differenziate, in particolare quelli di compostaggio per la frazione organica (che continuiamo ad inviare a costi pesantissimi a Pordenone !!) e gli impianti di riciclo per la frazione secca (la cui selezione è da anni data in subappalto oneroso a piattaforme private a Pomezia ed altrove). A differenza della disinformazione presente sui social la informiamo che questi strategici impianti di “recupero”, per il compostaggio ed il riciclo di rifiuti differenziati, sulla base di una sub-delega della Regione Lazio, sono da anni autorizzati per competenza direttamente dal Dipartimento Tutela Ambiente della ex Provincia di Roma oggi Città Metropolitana di Roma Capitale, cioè l’istituzione che lei stessa presiede!!!

Per cui non le sarà difficile capire che IL NODO PRINCIPALE DA SCIOGLIERE PER RISOLVERE DAVVERO LA “RICORRENTE EMERGENZA” RIFIUTI ROMANA E’ TUTTO NELLE SUE MANI, e consiste nell’abbattere la produzione di “rifiuti indifferenziati” raccolti con i cassonetti stradali e puntare tutte le risorse finanziarie ed umane sulla “filiera differenziata” che va dalla estensione generale della raccolta “porta a porta” sino alla realizzazione ed autorizzazione degli impianti di compostaggio e di riciclo. Le specifichiamo che la gestione dei rifiuti sarà “sostenibile” a patto che la sua giunta sarà in grado di attuare il principio vigente di “autosufficienza territoriale”, contenuto anche nella delibera capitolina n. 129/2014, facendo realizzare gli impianti citati di riciclo e compostaggio all’interno del territorio di Roma Capitale.

Le sottolineiamo inoltre che l’aspetto più innovativo e di certo necessario alla riuscita del percorso “verso rifiuti zero” è costituito dalla istituzione di una vera e strutturata “partecipazione popolare” su base paritaria e con i poteri propositivi previsti dalla delibera n. 129/2014, attraverso il sistema degli Osservatori municipali e comunale, ora in fase di prima sperimentazione in due Municipi, in cui serve che lei dia un fortissimo impulso alla stesura del necessario “Regolamento comunale”, visto che la commissione capitolina ambiente solo dopo nove mesi ci ha convocati in prima audizione ma senza assumere alcun impegno concreto calendarizzato. Roma Capitale può essere l’apripista di un nuovo metodo di condivisione delle criticità e delle soluzioni tra gli amministratori ed i cittadini attivi, oggi rappresentati da centinaia di associazioni di volontariato e da comitati di quartiere eletti regolarmente dal territorio, e di un primo vero passo verso la costituzione dei Municipi in Comuni Metropolitani sulla base della capacità di gestire un processo democratico “dal basso”. Dato che lei ha lanciato ultimamente il concetto di “democrazia diretta” crediamo che sia suo preciso interesse favorire forme avanzate di condivisione per una concreta “partecipazione popolare” che possano essere preliminari al concetto da voi stessi proclamato.

Roma 9 maggio 2017 Associazione Zero Waste Lazio

Il pippone del venerdì/6.
Zingaretti? Speranze e perplessità

Apr 14, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La dico subito chiara: il fatto che i turborenzini romani tacciano depone a favore della (auto)ricandidatura di Zingaretti a presidente della Regione Lazio. Poi uno avrebbe voluto un percorso diverso, magari anche meno mediatico. Annunciarlo ad Amatrice, insieme al sindaco che potrebbe essere addirittura il suo avversario, secondo me, è una caduta di stile.
Ma si capisce l’esigenza di mettere un punto in una situazione politica interna al suo partito che lo vede sconfitto nelle assemblee di circolo e probabilmente anche alle primarie del 30 aprile. Sarà anche vero che si vota sul segretario nazionale e che il congresso romano sarà a giugno, ma la progressiva orfinizzazione del partito è evidente. Nel Pd comanda chi gestisce il tesseramento. Da qui, mi pare di leggere fra le righe, la necessità di anticipare i tempi.

Ora però, Zingaretti deve avere ben chiara la strada da percorrere. Non baloccarsi sui presunti risultati raggiunti in questi quattro anni di governo del Lazio, anche perché molte delle promesse sono state disattese, e avviare un confronto serio con tutti gli attori politici e sociali (sottolineo sociali) disponibili a ragionare sulla costruzione di una nuova coalizione. Non del vecchio centrosinistra ormai seppellito da Renzi, ma di una nuova coalizione (sottolineo nuova). Non si accontenti dei peana dei vicini di stanza, insomma, sia esploratore di strade innovative.

Si svincoli, innanzitutto, dall’immagine di uomo di partito, di esponente del Pd che troppo spesso in questi anni ha taciuto sui disastri compiuti da Renzi e dai suoi. Sia a livello nazionale che romano. E si metta alla guida di un grande movimento di rinnovamento. Riformista. Progressista. Vero.

Abbiamo ancora un anno, intanto, per correggere la rotta. La giunta Zingaretti ha rimesso in ordine i conti della sanità, si dice. Il prezzo pagato, in termini di efficienza e di “giustizia” del sistema sanitario regionale, è stato altissimo. Diamo, in questo anno che rimane, un segnale forte di discontinuità? Possiamo dire che, risanati i conti, ora si parte alla ricerca della qualità, dell’eccellenza?
C’è un tema, ad esempio che mi ha sempre appassionato: come si fa a ragione sui costi della sanità, quando il pubblico rappresenta, nella nostra regione, meno della metà dei posti letto accreditati? Si ha intenzione di rimettere mano seriamente agli accreditamenti? Certo è materia complicata, mica dico di no. Altra questione. Riusciamo a creare un sistema di ticket come quello toscano, con un sistema progressivo in base al reddito? Ancora. Diamo un segnale forte sui servizi socio-sanitari, a partire dai consultori? Sono solo titoli e anche parziali ovviamente.

In una sola frase: riusciamo ad uscire, in questo anno che ci rimane, dalla logica della propaganda e degli annunci, che se va bene fa guadagnare a ZIngaretti qualche titolo sui giornali, per entrare in quella dei reali servizi da garantire ai cittadini. Guardate che quando vai in ospedale e aspetti ore al pronto soccorso, quando prenoti una qualsiasi prestazione specialistica e devi aspettare mesi, quando ti rendi conto che assolute punte di eccellenza della sanità sono ridotte al collasso, mica te li ricordi più i titoli dei giornali. E temo che quando i cittadini andranno alle urne conterà di più la realtà dell’apparenza.

La stessa riflessione vale per altri temi. L’inizio dell’esperienza di questo governo regionale aveva suscitato grandi speranze. Un vero riformismo di sinistra poteva cimentarsi nel Lazio, con alla guida quello che tutti ritengono uno dei suoi esponenti migliori. Giudizio talmente unanime che nel Lazio non ci fu neanche bisogno di fare le primarie. Tutti d’accordo. Le attese sono però rimaste in gran parte tali. Non si ricordano provvedimenti legislativi epocali. La distanza fra gli annunci e i voti in aula è stata molto superiore a quella fra via Garbatella (dove ha sede la giunta) e la Pisana (dove c’è l’assemblea).

Serviva un’opera di accorpamento e semplificazione delle norme in materie complicate. Il testo unico sul commercio è rimasto, al momento, impigliato in qualche commissione. Di urbanistica meglio non parlare: anche qui al testo unico più volte annunciato come imminente, si sono sostituiti gli interventi tampone: dalla proroga del piano casa Ciocchetti-Polverini (con poche correzioni e neanche tutte positive) alla legge sulla rigenerazione urbana in discussione in queste settimane che, di fatto, rende permanenti ampie parti dello stesso piano casa. Invece di tagliare radicalmente le troppe leggi che ci sono in questo campo e farne una sola, complessiva, si aggiungono altre norme. La legislazione urbanistica nel Lazio è talmente incomprensibile che diventa inapplicabile. Norme buone soltanto per foraggiare schiere di azzeccarbugli. E nelle pieghe delle quali prospera l’abusivismo.

Per non parlare dei rifiuti. Ora,  va ricordato che in questo campo sono innegabili le responsabilità del Comune di Roma nelle varie declinazioni amministrative e politiche: la capitale produce la gran parte dei rifiuti del Lazio e dunque il nodo resta questo. Ma anche qui si è andati avanti senza un progetto organico, invece di presentare un nuovo piano rifiuti, che metta in pratica i buoni propositi più volte annunciati, ci si limita a una serie di provvedimenti scollegati che correggono il piano esistente, anche questo risalente all’epoca Polverini.

Nulla, infine, dal punto di vista della mobilità, dove la annunciatissima agenzia regionale è rimasta impantanata nell’intricato gioco di assetti societari e non è più in calendario. Serviva un ente unico di programmazione e controllo dei trasporti del Lazio. Che creasse un sistema coordinato fra Roma e le Province. La coincidenza di colore politico fra Roma, la sua area metropolitana e la Regione rappresentavano un’occasione da cogliere al volo. Tutto sfumato. E ci ritroviamo ancora con un sistema capace soltanto di moltiplicare i debiti senza assicurare un servizio decente.

Mi limito a questi flash sugli argomenti che conosco meglio per non farla troppo lunga. Ha ragione, insomma, Stefano Fassina quando mette in guardia sui troppo facili entusiasmi di questi giorni: “Un modello Lazio non esiste”, sostiene il deputato di Sinistra italiana. Il che non significa che non si possa e si debba lavorare per costruirlo. Ma per fare questo bisogna tornare al punto uno. Costruiamolo questo modello, che rappresenti un’indicazione per il futuro a livello nazionale.

Provo a buttare giù un paio di punti, di sicuro non esaustivi, ma credo siano argomenti su cui aprire una discussione.
Intanto ragioniamo sul fatto che si andrà a votare probabilmente lo stesso giorno per regionali e politiche. Un fatto che, inevitabilmente, complicherà le cose. Soprattutto se resterà questa la legge elettorale nazionale. Ora, in politica non si può mai dire, ma è facilmente prevedibile che, in questo caso, la campagna elettorale nazionale prevarrà su quella per il Lazio. E le divisioni che è facile prevedere sulle schede per la Camera e il Senato, tenderanno a prevalere rispetto alle ragioni di unità che Zingaretti avanza con la sua candidatura. Il quadro, insomma, bisogna averlo ben presente: avremo un Renzi scatenato a livello nazionale che farà la sua compagna isolazionista, tutta basata sul Pd e uno Zingaretti che invoca l’unità per vincere il Lazio. E’ evidente a tutti quanto il primo rischi di travolgere il secondo. Anche perché che senso avrebbe presentarsi a livello nazionale e regionale con due programmi divergenti in nome dello stesso partito?

Insomma, c’è il rischio, non lo nascondo, che questa ricandidatura rappresenti più che altro una foglia di fico, utile soltanto a puntellare quella che, se le elezioni nazionali andassero male, potrebbe essere dal prossimo anno la postazione di governo più importante a livello nazionale per il centro sinistra. E se fosse solo questo, è evidente, non riuscirebbe neanche in questo intento.

D’altro canto il sistema elettorale con cui si vota alle regionali è chiaro: turno unico, il candidato presidente che prende più voti vince. E dunque, ove le forze del centro sinistra scegliessero di non andare unite alle urne, una sconfitta sarebbe quasi automatica. Non dimentichiamo che nel 2013, in una situazione di gran lunga più favorevole di quella attuale, Zingaretti, candidato strafavorito, superò di poco il 40 per cento. Una vittoria ampia, perché il suo avversario, Francesco Storace, non arrivò al 30, indebolito però dalla candidatura di Giulia Bongiorno (Fli, Udc, Sc) che spacco il fronte della destra. Il movimento 5 stelle, allora, si fermo al 20 per cento.

Insomma, se non ci si coalizza si rischia non solo di perdere (nel caso del Pd), si rischia la totale irrilevanza (nel caso delle forze alla sinistra del Pd). Ora io non sono un innamorato del governo a tutti i costi. Tutt’altro: credo che l’opposizione sia addirittura utile per rinnovare e formare la propria classe dirigente. Però, al tempo stesso, credo se uno corre debba avere quanto meno la possibilità di vincere. E proprio se non riesce a vincere deve avere la possibilità di entrare in consiglio regionale. La democrazia rappresentativa funziona se hai il cuore e la testa nel tuo blocco sociale, nelle città, nei quartieri, ma i piedi ben piantati nelle istituzioni, altrimenti svolgi un ruolo di mera testimonianza. Perfino rispettabile, ma sostanzialmente inutile. Se non si ha la possibilità di realizzare le proprie idee, di metterle alla prova del governo, si cambi occupazione.

Dunque che fare? Io credo che i propositi annunciati da Zingaretti in forma molto mediatica vadano verificati lontano dai riflettori. La sinistra non può tirarsi indietro e deve rispondere alla sfida. Io ci sto, se la sua volontà è quella di lavorare a un nuovo modello di coalizione “sociale”, così la chiamo io, non civica si badi bene. Ovvero una coalizione che si assume come compito la rappresentanza di un blocco di interessi. E dichiara prima con chiarezza quali sono. Se riproponessimo una semplice riedizione dell’alleanza elettorale del 2013 ci andremmo a schiantare, lo voglio dire chiaramente. Per questo ben vengano anche gli stati generali del centro sinistra del Lazio, annunciati dal presidente per l’autunno. Ben vengano se però evitiamo la solita passerella dove facciamo parlare un’operaia di una fabbrica in crisi, un giovane imprenditore che ha aperto un’impresa innovativa, un impiegato dell’Alitalia, un giovane volontario possibilmente brufoloso, quale amico molto smart che ci parla dei diritti civili.

Io credo che serva un luogo di confronto vero e che non siano sufficienti un paio di giorni chiusi in qualche luogo caro alla sinistra romana per sciogliere i nodi e dare nuovo vento a vele stanche. Credo che queste vele dobbiamo metterle nuove. E per farlo serva un percorso di partecipazione dal basso. Servono comitati locali che diano radici diverse alla coalizione sociale e insieme costruiscano un percorso dal basso. Serve una campagna radicale: assemblee in ogni città del Lazio, in ogni quartiere di Roma. In cui non si vota un candidato, ma si discutono e si votano le idee per rifondare questa Regione.
Zingaretti, insomma, può fare due cose: essere semplicemente il candidato del Pd – un brand in profonda crisi (come direbbero quelli bravi) – il candidato che poi si porta appresso qualche cespuglietto irrilevante e magari vince anche stancamente, nella migliore delle ipotesi. Fa il presidente per altri cinque anni in cui si tira a campare, la stampa non gli ostile, alla fine un posto da parlamentare glielo danno. Oppure può essere il costruttore di una rete sociale nuova. Che può rappresentare il modello da replicare poi a livello nazionale. Una rete, lo ripeto al di là e oltre le forze esistenti che non rappresentano più il proprio blocco sociale. I punti da cui partire sono sempre quelli: lavoro, uguaglianza nei diritti – primo fra tutti quello alla salute – amministrazione sana ed efficiente.

Io credo che Zingaretti abbia l’intelligenza e le qualità per guidare, fare il regista di un progetto simile. Una nuova speranza, si potrebbe dire. Ma credo anche che il troppo consenso interessato non gli faccia bene. Che debba confrontarsi di più con chi gli fa notare quello che non va. E magari ascoltare meno chi fa sempre e comunque la ola. Si può ripartire dal Lazio, insomma. Con un po’ di coraggio e anticonformismo.

Lo spiegone del lunedì/4
Ve lo do io il congresso

Apr 3, 2017 by     No Comments    Posted under: lo spiegone del lunedì

spiegoneE’ un dato di fatto che i renzini hanno un livello di confusione mentale al di sopra della norma. Per cui non è strano rilevare che sono addirittura convinti che nel Pd si facciano congressi, parlano di “interessante confronto”, qualcuno parla dei programmi dei candidati. Poi se gli chiedi “sì? Che dicono?” fanno scena muta. A sera, però, si chiedono fra loro “chi ha l’aggiornamento delle sezioni scrutinate?” Insomma, è un congresso o sono elezioni?

Ora, come al solito, è un’esercizio di stile, spiegare qualcosa a un renzino è come provare a accendere il fuoco con l’acqua. Eppure insistiamo. Qualche barlume di ragionevolezza in alcuni di loro dovrà esserci ancora. Partiamo da un assunto facile. Lo statuto del Pd non prevede lo svolgimento di congressi. L’articolo 9 è intitolato Scelta dell’indirizzo politico mediante elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea nazionale. Parole significative. E all’interno dell’articolo si spiega poi che ci sono due fasi: quella delle convenzioni (orribile traduzione delle convention americane) riservate agli iscritti che hanno sostanzialmente la funzione di selezionare le candidature da sottoporre poi alle primarie, che sono aperte a tutti gli elettori del Pd stesso.

Insomma, badate bene alle parole: l’indirizzo politico del partito si sceglie attraverso l’elezione del segretario. Il partito personale sta tutto in questa affermazione. Insomma, per dirla semplice, gli iscritti al Pd non fanno i congressi, selezionano candidati. Non vi date troppe arie.

Ma cosa è un congresso? Gli ultimi che ricordo sono quelli che svolgeva il Pci. E consistevano nell’esatto contrario di quanto previsto nello statuto del Pd, una formazione politica di natura primordiale che si potrebbe definire un meta partito. I congressi consistevano nella formazione di una linea politica, attraverso il concorso di tutti gli iscritti e nella selezione, una volta scelta la linea politica, della classe dirigente più adatta a portarla avanti. Insomma, il percorso era capovolto. E come si faceva? Era un percorso lungo. Il comitato centrale uscente approvava le cosiddette “Tesi congressuali”. Un documento, complesso, che analizzava la situazione politica a tutti i livelli, lo stato del partito, e poi proponeva le soluzioni e indicava l’azione che avrebbe dovuto compiere il Pci per cercare di far diventare realtà le soluzioni proposte.

Questo documento arriva nelle sezioni locali, dove si facevano i congressi. Si formavano tre commissioni. Politica, che esaminava i documenti presentati e gli emendamenti; elettorale, che proponeva i candidati al direttivo e i delegati al congresso di federazione; verifica poteri, che aveva il compito di garantire la regolarità del congresso. Da notare che la commissione verifica poteri non era composta da esterni, come succede adesso nel Pd. Perché nel Pci partivi dal presupposto che gli altri iscritti, i compagni, come si diceva allora, erano brave persone e non tendevano a fregarti neanche quando non la pensavano come te.

Apriva il congresso la relazione del segretario uscente, partiva da un panorama sulla situazione politica, poi faceva un bilancio dell’attività della sezione. A seguire iniziava il dibattito e si presentavano gli emendamenti alle tesi congressuali. Ciascun iscritto poteva, insomma, proporre una sua visione politica. Si andava avanti due giorni, come minimo. E poi si votava. Era però il momento meno partecipato, di solito, del congresso. Perché l’importante era il confronto, spiegare il proprio punto di vista e ascoltare quello degli altri. L’indirizzo politico si formava così. Un compagno dirigente inviato dalla federazione locale, concludeva il dibattito, facendo una sintesi e rispondendo agli interventi degli iscritti.

Lo schema si ripeteva ai vari livelli organizzativi per arrivare poi al congresso nazionale. Che durava più giorni e si concludeva con l’approvazione del documento finale, dopo aver discusso tutti gli emendamenti che avevano superato i congressi locali. E l’elezione dei nuovi organismi dirigenti, dal comitato centrale alla commissione di garanzia. Organismi snelli, tra l’altro: nel Pci che superava i 2milioni di iscritti il comitato centrale (ovvero il parlamento) era di meno di duecento persone. Il Comitato centrale, a sua volta, eleggeva il segretario generale e la direzione nazionale. Nell’ultimo periodo, primo elemento di degrado il segretario venne eletto dal congresso. Poi nei Ds si istituì l’elezione diretta del segretario e la discussione politica, vero fulcro dei congressi di un tempo, ha perso man mano significato e i congressi sono infine diventati convenzioni. Ultima notazione, utile anche ai compagni di altri partiti che hanno idee confuse. Il percorso del congresso partiva dalla base e andava verso il livello nazionale, fare il contrario si chiama cooptazione, non congresso.

Ovviamente non si vuol dare un giudizio di merito, quale della forma sia migliore, ma semplicemente fare un po’ di chiarezza. Di confusione in giro ce n’è già troppa.

 

Tutto questo per la precisione.

Il pippone del venerdì/1
Pd o non Pd

Mar 10, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

logo pipponeDa oggi, continuando nel progetto di voler rendere più strutturale il mio contributo da osservatore del dibattito politico, social e non social, inauguro questa nuova rubrica, “il pippone del venerdì”. Sarà una sorta di bilancio della settimana, in cui vorrei ragionare sugli aspetti che mi sembrano interessanti. Ci provo, combattendo con la mia nota pigrizia. E vorrei anche provare a rinnovare e utilizzare con maggior costanza il mio sito. Chissà, non scommetterei su me stesso.

Comunque sia, cominciamo il pippone.
In realtà non è proprio “il tema della settimana”, questa storiella va avanti da almeno un paio di anni. Da quando, cioè, Pippo Civati ha lasciato il Pd e ha fondato il suo “Possibile”, movimento di cui non si ricorderanno tracce durature nella storia dell’uomo, ma che tuttavia merita una menzione, quanto meno per essere alla base di un disastroso equivoco. Nello statuto di Possibile, mi dicono, sta scritto a chiare lettere che non faranno mai, a nessun livello, alleanze con il Pd. Il che è una novità assoluta. Che un partito escluda di potersi alleare con un altro partito dell’arco democratico, ci sta. Ma che si metta nero su bianco nello statuto è un fatto di assoluta rilevanza e, come vedremo, sia pur in forma indiretta, ha condizionato il dibattito politico nella galassia della sinistra italiana.

E’ successo con la tornata delle scorse elezioni amministrative. Con grandi scontri fra chi diceva che non si poteva rompere il centro sinistra per principio e chi diceva che l’esistenza di un campo alternativo al Pd doveva essere visibile e omogenea su scala nazionale. Sostanzialmente ha vinto la secondo tendenza, fra mugugni e resistenze, con la sia pur rilevante eccezione di Milano. Devo ammettere di essermi lasciato prendere da questo dibattito. Sbagliando.

E devo dire che, alla fine dei giochi, tutta sta visibilità di uno schieramento alternativo al Pd mica l’abbiamo vista. Abbiamo visto, piuttosto, uno scontro da stadio fra gli ultras degli opposti schieramenti. Salvo poi andare a piangere perché, dopo aver parlato di periferie a tutto spiano, a Tor Bella Monaca abbiamo preso il 2 per cento. Elettori eroici, verrebbe da dire.
Eppure non è che si sia imparato dagli errori. Anzi la situazione è peggiorata. Per chi esce dal Pd si propone l’analisi del Dna, suo e delle tre generazioni precedenti. Il congressino di Sinistra italiana, oltre ad aver prodotto un gruppo dirigente, ha anche prodotto un secondo anatema: mai con il Pd di Renzi, a tutti i livelli. Manco nel condominio di via Carugatti 53 si faccia l’alleanza con il Pd di Renzi. Scelta applauditissima da Possibile che ha deciso di fondere i gruppi parlamentari, “pur mantenendo l’autonomia dei rispettivi partiti”. In giro si leggono addirittura moderni soloni che si scandalizzano perché Pisapia non ha definito la sua posizione sul renzismo. Quello, dicono, sarebbe il minimo richiesto per definirsi di sinistra.

L’Italia intera dibatte e si accalora su questi affascinanti temi.
Scherzi a parte, come la vedo? Pur tra i mille errori commessi resto convinto di tre cose.
1) Resta l’esigenza di ricreare un movimento ampio della sinistra italiana, non un partito, una gabbia escludente, ma un percorso aperto, che guardi al futuro e non agli errori del passato. Senza esclusione alcuna. Per me l’unica pregiudiziale resta l’antifascismo.
Un percorso che se ne freghi delle forme strutturate, del fatto che stiamo in partiti differenti e parta dalle persone. Possibilmente parta da quelle “vite di scarto”, da quelle periferie, come luogo sociale ma anche come spazio culturale, di cui parliamo sempre, ma dalle terrazze dei palazzetti d’epoca. Il Partito arriverà quando il percorso sarà compiuto e tutti saranno pronti a lasciare le casette di provenienza non per un condominio scomodo e spersonalizzante, ma per una grande casa di tutti. E non con le forme del ‘900, perché il ‘900 è finito. Tutto questo, sia chiaro, nelle pur rinnovare forme ha bisogno di mettere radici fisiche nei territori. Primo obiettivo dunque, trovare spazi, tanti, nei quali costruire un agire politico comune. Spazi utili ai cittadini, accoglienti. Per rovesciare il ragionamento di un autorevole ministro, un luogo in cui un Pio La Torre di oggi si troverebbe a suo agio, avrebbe modo di crescere e, al tempo stesso, di mettersi al servizio di un progetto collettivo.

2) Questo movimento non si crea contro o in alternativa al Pd o al renzismo o al populismo. Si coltiva, da più parti, la sensazione che sia sufficiente definirsi di sinistra per poter essere annoverati automaticamente nell’olimpo dei rivoluzionari. Non funzionava così manco ai tempi del Pci, figuriamo adesso. Solo che allora, con quel nome, con quella storia, potevi pure permetterti di essere conservatore ogni tanto. Oggi no.
E ritorniamo a quella che io mi intestardisco a considerare l’origine di tutti i mali. La nascita del Pds. In quegli anni sciagurati in cui si buttò a mare un patrimonio di 80 anni, ci si dimenticò di un particolare: che quella operazione aveva bisogno di definire un nuovo orizzonte, ideale e culturale, per dare testa alla sinistra. Le gambe c’erano, la testa no.
Il problema sta tutto qua. Chissenefrega di Renzi, del Pd, delle alleanze. Ma si può dibattere da Roma se a Parma si debba appoggiare Pizzarotti o fare una coalizione di centrosinistra classica? E quelli di Parma che stanno a fare? Danno i volantini? Guarda che poi, ne abbiamo le prove provate, quelli di Parma finisce che non ti votano. E poi mica puoi dire “date le condizioni abbiamo fatto il massimo”. La politica, la sinistra, servono a cambiarle le condizioni, mica a subirle.Dicevamo: identità, bagaglio culturale e ideale. Queste sono le condizioni essenziali. Poi possiamo anche chiamarlo davvero Arturo, se in contenuti e le idee sono quelle di un nuovo movimento socialista. Serve un grande lavoro prima di tutto culturale, chiamando a tornare in campo tutte le energie migliori, i famosi intellettuali che non si sa che fine hanno fatto. Bisogna definire quale sia “il nostro cielo”, il nostro orizzonte ideale, quale sia la nostra cassetta degli attrezzi con la quale interpretare la realtà. Con mi alleo poi? Semplice con chi ci sta. Bisogna, insomma, avere la capacità e la pazienza, di rovesciare il percorso. E guardate che non parlo di “un programma”. Vanno bene le officine delle idee, va bene tutto. Ma non basta. Un programma siamo bravissimi a scriverlo. Anzi, magari neanche più tanto quello perché ormai scriviamo cose che non capiamo neanche noi. Quello che manca è un manifesto dei valori, un campo ideale. E guardate, la butto lì, non credo che sia neanche sufficiente la dimensione nazionale. Le coordinate: io credo possano essere tre: la dicotomia lavoro/non lavoro (perché dovremo porci prima o poi il problema di una società in cui il lavoro sarà sempre meno parte fondamentale della nostra vita e quindi assumere anche il tempo del non lavoro come valore) l’uguaglianza (perché ci hanno fatto una testa tanta con la meritocrazia, ma senza uguaglianza diventa soltanto una maniera più elegante per disfarci degli ultimi) l’ambiente (non perché l’economia green fa tanto fico, ma perché se non mettiamo l’ambiente come base di tutto il nostro agire ci siamo giocati il pianeta e altri non ne abbiamo). Mi fermo perché altrimenti altro che pippone.

3) Fatto questo si torna alla conclusione del punto 1. Ovvero: come si creano le condizioni per far in modo che un giovane Pio La Torre del terzo millennio si senta a casa? La traduco in politichese: come si crea un nuovo meccanismo di selezione della classe dirigente? Perché sicuramente dobbiamo sapere cosa fare, ma anche con chi farlo.
Ora, negli ultimi venti anni (il Pd ha soltanto estremizzato questo processo) i partiti non sono stati più gli “intellettuali collettivi” di cui parlava Gramsci. Ossia quei luoghi in cui un cervello collettivo elabora le soluzioni ai problemi. Ma non sono neanche quei luoghi dove si sperimenta e si mette alla prova la classe dirigente. Tutto questo è stato sostituito dal partito del leader e delle correnti. Si tratta di un processo generale che in Italia ha coinvolto l’intero panorama politico. Non è un caso se la contesa nel Pd è sostanzialmente fra due populisti. Perché nel momento in cui non sei più intellettuale collettivo e non sei più luogo di selezione della classe dirigente, il partito diventa mero luogo di gestione del potere. Il mezzo diventa fine e allora servono solo un leader e i suoi lacchè. Il processo decisionale non è più tra linee politiche alternative, ma fra capi alternativi. E vince chi è più populista e arrogante dell’altro.
Essere di sinistra, oggi, vuol dire anche invertire questa tendenza, costruendo un movimento dove il nodo non sia il leader ma la classe dirigente, diffusa e riconosciuta.
Dico non a caso riconosciuta, perché oggi esistono soltanto i grandi leader mediatici, non abbiamo più i dirigenti di base, quelle figure essenziali se si vuole avere un legame forte con il territorio. Abbiamo una classe politica (non la chiamo dirigente non a caso) completamente slegata dal territorio. Sento autorevoli parlamentari che ti dicono candidamente “non abbiamo capito cosa stava succedendo”. E’ successo ad esempio sul referendum costituzionale. Bastava andare a dare un volantino in giro per capire che gli italiani non solo avrebbero votato no, ma che gli stavate proprio sulle palle.

Tre cose da fare subito, insomma, avendo bene in testa che non serviranno due giorni. Ma bisogna partire. E allora: Pd o non Pd? Machissenefrega.

Un treno nella storia
“Appia Antica Station”

Mag 28, 2014 by     4 Comments    Posted under: appunti per il futuro

Una stazione del treno dentro la più grande area archeologica del mondo, a cavallo tra due splendidi parchi. Io mi immagino cosa succederebbe in qualsiasi altro paese, se avesse questa possibilità. Qua, quando ne parli, ti prendono per un marziano e ti rispondono con il solito “non ci sono i soldi”.
Lo dico subito, l’idea originale non è mia, ma del presidente del Comitato di quartiere Statuario-Capannelle, Guido Marinelli. Me l’ha illustrata nel corso di un incontro organizzato dal circolo del Pd e ho avuto una specie di illuminazione.

Andiamo con ordine. Nel piano regolatore è già prevista una stazione sulla vecchia Roma-Napoli, adesso scarsamente utilizzata dopo l’apertura della linea ad alta velocità. La stazione doveva nascere a via Polia. E sembrerebbe una semplice fermata di quartiere, lungo una delle linee che dovrebbero diventare una futura metropolitana di superficie.

E invece – l’idea è semplice ma proprio per questo formidabile – potrebbe diventare una vetrina di Roma nel mondo. Perché, guarda caso la fermata si trova in pieno Parco degli Acquedotti, ma soprattutto a poche centinaia di metri dall’Appia Antica. Insomma a Roma si potrebbe arrivare in treno dentro l’area archeologica più grande del mondo.

All’idea originaria aggiungo qualcosa di mio. Secondo me la stazione andrebbe spostata direttamente sull’Appia nuova, proprio davanti a quella che, nei progetti della giunta comunale dovrebbe diventare “la porta di accesso al Parco dell’Appia Antica”.
In questa maniera, infatti, avremmo anche un nuovo nodo di scambio per chi arriva in macchina dai Castelli romani e la stazione avrebbe così una doppia valenza, sia turistica che di alleggerimento per la linea A della metropolitana. Dico di più, in questa maniera si troverebbe proprio davanti alla Villa dei Quintili. Un altro gioiello straordinario e ancora poco conosciuto.

Ci metto ancora del mio. Mi immagino un grande concorso di idee internazionale per dare una veste architettonica adeguata a quello che, lo ripeto, potrebbe diventare uno straordinario biglietto da visita per Roma in tutto il mondo. Mi immagino molto legno e vetro, una struttura leggera e luminosa. Immagino anche una stazione che sia davvero una porta per l’archeologia. E allora un punto di informazioni adeguato, un servizio di guide. Un punto di bike sharing, ma anche una ciclofficina, archeo-percorsi con app dedicate.

I soldi? Ragazzi, basta con il ritornello della crisi e dei fondi che mancano e dei tagli inevitabili. Intanto il nostro Paese, se vuole ripartire, deve fare delle scelte. E quella di valorizzare il nostro patrimonio dovrebbe essere obbligata.

E poi, facciamo uno sforzo di fantasia. Andiamo dalle più grandi aziende del mondo, andiamo da Apple, da Microsoft, da Google. I nomi sono ovviamente solo a titolo di esempio. E proponiamogli di unire il loro marchio a un’operazione di questo tipo. Immagino anche lo slogan: “Chi cerca il futuro ama la storia”. Io non credo che aziende di questo tipo sarebbero insensibili al fascino mediatico di un’operazione di questo tipo. Appia Antica Station, si può fare. Basta essere un po’ meno provinciali.

Marino e Zingaretti: sveglia!

Ora per vincere serve il Pd. In campo per davvero

Apr 8, 2013 by     No Comments    Posted under: appunti per il futuro, il pd, il x municipio, roma

Finita la giostra delle primarie, bisogna dire che mediamente gli elettori del centrosinistra sono migliori di noi. Il quadro dei candidati in campo, dal Comune ai Municipi mi sembra complessivamente credibile, rinnovato, con alcune punte di eccellenza. Poi non tutto va come uno vorrebbe, ma la perfezione si sa…
Parto dal candidato Sindaco. Ripeto quanto ho detto in tutta la campagna per le primarie e provo ad andare oltre. Secondo me Marino da solo non basta per vincere Roma. Sicuramente ha il merito di averci evitato Sassoli – e non è poco – ma da oggi gli avversari si chiamano Berlusconi e Grillo. Sperando che il livello nazionale non ci sommerga, avremo i due leader schierati a Roma per un mese.
Sicuramente Marino è un candidato che ci garantisce su un fronte importante: moralità e trasparenza. Quell’aria da bravo ragazzo, la sua pacatezza nel rispondere, il modo di sorridere, sono gli elementi che ne fanno un candidato che buca nell’opinione pubblica. In primarie tutte concentrate sui municipi (una sorta di guardarsi l’ombelico e pensare che sia l’universo) c’è stato meno voto organizzato sul livello comunale. Il leit-motiv era: vota tizio per il municipio, per il Comune fai quello che credi. E se si confrontano seggio per seggio i risultati dei candidati municipali “sassolini” con il risultato al Comune di Marino, il tema è evidente. Marino capovolge i rapporti di forza delineati nei municipi.
La sua storia, il suo modo di fare politica, un po’ da esterno senza mai però alzare troppo i toni, ne fanno un candidato credibile per l’elettorato di centro sinistra. Si può ipotizzare un recupero di quel voto che alle politiche è andato a Grillo ma che, a distanza di pochi secondi, si era già indirizzato su Zingaretti.

Si dice: vabbeh ma Roma è la capitale del cattolicesimo. Faccio notare che alle Regionali del 2010 Emma Bonino, ovvero una sorta di Satana in gonnella, a Roma portò via il 54 per cento dei voti. Quindi non mi sembra questo il tema vero.
Il dato delle primarie ci dice Marino sfonda nelle periferie, proprio lì dove Grillo alle politiche è stato primo partito ovunque. E sfonda in quelle periferie che spesso sono state accusate di essere la patria del voto di scambio. Devo dire, è solo un inciso, che a me sono sembrate primarie generalmente corrette. Molto più che in passato. Abbiamo imparato a limitare ed emarginare i fenomeni clientelari che pur esistono. Si può ancora migliorare, ma siamo sulla strada giusta.
Il punto, secondo me, è che Marino, per vincere non deve essere solo e deve essere capace di allargare il campo. Bene, insomma, il suo essere personaggio civico più che politico. Ma adesso servono le idee, le persone, una squadra che, tutelando queste caratteristiche preziose, lo accompagnino in una sfida complessa, lunga. Roma è una città difficile. Che ti ama e ti odia. Ti coccola e ti prende a calci nel sedere. Non basta dire di amarla, devi imparare a sentirne il respiro, a capire in anticipo quale sarà l’emergenza di domani. Credo che Veltroni in questo fosse straordinario. Serve un campo di forze ampio, non tanto in senso politico, ma sociale. Serve un blocco che senta Marino come il proprio candidato. E questo si fa mettendo in campo, da subito una squadra larga, rappresentativa di questa città. Si fa uscendo dall’etichetta di candidato della sinistra e basta, mettendo le mani nei problemi quotidiani di questa città. Per fare il sindaco dei romani devi andare oltre. Altrimenti c’è il rischio di andare lindi e puliti contro un muro. A posto con la coscienza ma irrimediabilmente perdenti.
Marino deve dire cosa vuole fare sui grandi temi, dall’urbanistica, alla mobilità. Ricordandosi sempre, però, che questa è una città che ha fame. Che manca il lavoro. Che la disoccupazione giovanile è un livello intollerabile. Deve saper parlare al cuore della sinistra, deve far tornare in campo anche alle elezioni “vere” quel voto di opinione senza il quale si perde. Sempre. Ma deve dare anche risposte alle ansie quotidiane dei cittadini, dalle buche, ai rifiuti, agli autobus scalcinati. Al lavoro, lo dico ancora una volta.
Io credo che per fare questo serva l’unione fra forze sociali e partiti della coalizione. E serva innanzitutto il Pd. Che non si deleghi, ancora una volta, la campagna elettorale ai soli candidati al consiglio comunale. Mettiamo al servizio del candidato sindaco le nostre idee alle quali abbiamo lavorato in questi anni e le nostre persone migliori. Scelga lui. In assoluta libertà chi crede sia più utile a costruire un progetto per Roma. Ce la facciamo a fare questo? Questo, malgrado sia un po’ scassato, resta un partito grande, forte e generoso. Ricco di intelligenze. Mettiamole in campo.

I Municipi
Quello del voto municipale è l’aspetto che, diciamo la verità, ci ha occupato di più in tutta la campagna per le primarie. I risultati mi sembrano positivi, con una squadra di candidati, nel complesso, giovane, rinnovata e soprattutto all’altezza della sfida che ci attende.
Alfonsi, Torquati, Santoro, Veloccia, Marchionne. Cito solo quelli che conosco un po’, nessuno si offenda. Mi soffermo, in conclusione sul risultato del VII Municipio (ex IX e X) dove le cose sono state complicate dall’accorpamento “a freddo” deciso dalla destra proprio alla vigilia delle primarie. Io credo che possa rappresentare un modello di cosa il Pd non deve fare. Nessuna selezione delle candidature, troppi candidati competitivi. Non è un giudizio di valore. Ma faccio notare che, soltanto limitandosi ai due candidati ex Ds, Franco Morgia e Fabrizio Patriarca, la somma dei loro voti doppia il risultato della candidata vincente, Susanna Fantino di Sel. Che ha avuto una buona affermazione, ma che sarebbe rimasta lontana dal primo posto se fossimo riusciti a fare sintesi. Mi ci metto anche io, anche se ho provato fino all’ultimo a trovare una soluzione più unitaria. Non ci sono riuscito e quindi sono parimenti responsabile rispetto agli altri.
In sintesi e per non annoiarvi oltre, Io credo che di quella squadra larga i primi attori debbano essere proprio i candidati presidenti. Sono loro che sentono il respiro della città più da vicino. Mettiamoli in condizione di lavorare da subito per il nostro Bene Comune, Roma.

Con Bersani e Zingaretti.
E con Flavia alla Regione

Feb 22, 2013 by     No Comments    Posted under: in primo piano

Brutta o bella che sia stata, ormai la campagna elettorale è agli sgoccioli. Due sole notazioni su questo. A Roma è stata l’ennesima campagna elettorale dove il partito è stato quasi del tutto assente. La campagna elettorale è stata come di consueto subappaltata ai candidati alla Regione. Come si sono comportati? Un po’ meglio rispetto al solito. Ma neanche tanto. Invasioni di manifesti, mega cene. Il tutto in calo rispetto al passato, ma c’è stato. Andava eliminato alla radice, secondo me, perché quando si spendono centinaia di migliaia di euro per essere eletti alla Regione, oltre ad essere fuorilegge, si dovrà anche rispondere ai finanziatori.  E quindi, almeno questa volta, si potevano evitare le cene da duemila persone, le centinaia di migliaia di manifesti affissi in tutta Roma e Provincia, le pubblicità ossessive sulle fiancate degli autobus. Si poteva e si doveva evitare perché se magari porterà qualche preferenza in più all’aspirante consigliere, al tempo stesso ce ne fa perdere fra le tante persone che sono stanche di una politica dai costi milionari. Qualche commissione di garanzia prima o poi dovrà capire quanto si spende in una campagna per le regionali. Magari prima che lo faccia qualche procura.
Serviva il partito, serviva una regia romana e regionale che, come avviene ormai da anni, è mancata.
I dirigenti si sono limitati a partecipare alle iniziative dei candidati. Non può bastare. Soprattutto con lo sguardo rivolto agli appuntamenti che ci aspettano nei prossimi mesi. Riuscirà il Pd di Roma a mettere in piedi un ragionamento collettivo, una campagna di comunicazione comune, oppure si limiterà a tirare la volata a qualcuno? Riuscirà a porsi alla testa di un movimento di popolo per liberare la città da questo sindaco deprimente?
Detto questo, ci siamo. Fra poche ore si vota. E, con tutte le nostre pecche abbiamo la concreta possibilità di cambiare, sia in regione che a livello nazionale. Da ragazzino mi emozionavo quando Pajetta finiva i comizi del venerdì dicendo: Ricontattate gli incerti, telefonate a tutti i vostri amici e parenti. Ricordate che bisogna continuare a lavorare fino alla fine, perché anche un voto può essere decisivo.

Nessun messaggio può essere più efficace in queste ore.
Cosa votare e come votare: Senato e Camera solo una croce sul simbolo del Pd. Alla Regione una croce sul simbolo vale anche come voto a Nicola Zingaretti. E poi si può esprimere una preferenza, badate una sola, altrimenti si rischi di annullare la scheda.
A chi dare questa benedetta preferenza?
Francamente non mi permetto di dirvi chi votare, chi sarebbero i presunti migliori. Ognuno di noi ha la testa per scegliere. Vorrei, più umilmente, dire chi ho scelto e perché.
Fin dall’inizio di questa avventura ho lavorato e sostenuto Flavia Leuci. Per tre ragioni.
La prima è che di Flavia mi fido. La conosco da anni, siamo stati spesso dalla stessa parte della barricata, ma anche quando non siamo stati d’accordo è sempre stata leale e trasparente. E in Regione di lealtà e trasparenza ne abbiamo davvero bisogno.
La seconda è che la l’esperienza necessaria per poterci rappresentare in Regione. E quando dico rappresentare intendo un rapporto continuo con militanti e cittadini che riporti questo ente così distante a una dimensione umana. Dico l’esperienza perché chi vi propone il rinnovamento e basta in un ente complesso come questo vi racconta una emerita baggianata. Il rinnovamento si fa nei municipi, nei comuni. Lì ci si deve fare le ossa, lì va selezionata la classe dirigente che poi verrà candidata a livelli più alti. Arrivare in Regione senza aver fatto “la gavetta” significa fallire il proprio compito, quello principale di un partito: mettere i migliori candidati possibili a ogni livello. Flavia ha fatto la consigliera in circoscrizione, poi è stata dieci anni in Provincia. E’ una che conosce, approfondisce i problemi e quando non capisce chiede consiglio. Ha l’esperienza e l’umiltà necessaria per essere una buona consigliera.
La terza è che è una donna. Ora, come è noto io sono un maschilista doc, del resto diffidate dai maschi che vi dicono di avere la cultura delle donne. Vi stanno per fregare. Ma anche da maschilista mi rendo conto che in una società in cui le donne sono più del 50 per cento è ridicolo pensare con nel gruppo del Pd non ci sia neanche una donna. E guardate che il rischio c’è tutto. Basta leggere la liste provinciali per capire come siano state costruite così, per avere tutti uomini. Io credo che Flavia sia l’unica donna che ha la concreta possibilità di essere eletta.

Le altre candidate saranno anche rispettabili e brave ma non ce n’è una che abbia la militanza e le capacità di Flavia Leuci. Anche la storia di partito. E io che sono vecchio voglio una consigliera che risponda al suo partito e ai suoi elettori, non che vada a fare la battitrice libera.

Ce la possiamo fare, dicevo. Sarebbe una vergogna, dopo il successo delle donne nelle primarie un gruppo Pd fatto di soli maschi. Ce la possiamo fare, basta ricordarselo domenica e lunedì. E ricordarlo a tutti i nostri contatti. Prendere le agendine, le rubriche sul palmare, sull’ipod, sull’ipad, su quello che vi pare, ma attaccatevi al telefono. C’è tempo fino a lunedì. Per far vincere Bersani e Zingaretti. E anche, se vi avanza tempo, per far eleggere una donna, una compagna vera, nel consiglio regionale del Lazio.

Buone elezioni a tutti.

Questo è il tempo per costruire

Dic 3, 2012 by     2 Comments    Posted under: appunti per il futuro, dituttounpo', il pd, il x municipio

Le primarie nazionali ci dicono cose importanti. La prima, non mi stancherò di ripeterlo, è che c’è un popolo che guarda a noi come l’unica speranza di cambiamento per questo Paese. In un periodo di disgusto verso la politica, vedere migliaia di persone, milioni, che si registrano, si mettono in fila e pagano addirittura per poter esprimere il loro contributo dà un’iniezione di adrenalina fortissima. Che ti permette di superare la stanchezza delle settimane passate al circolo, delle alzatacce, delle polemiche inutili e faziose.
A questo popolo, vero, non teleguidato, non comandato dagli “apparati” come hanno provato a far credere, noi dobbiamo sincerità e concretezza: ci hanno dato fiducia e ci hanno rimesso al centro della scena politica. E’ chiaro a tutti che senza la coalizione di centro sinistra, questa volta, non sarà possibile nessun governo. Il popolo delle primarie ci ha dato questa forza. Un patrimonio immenso. Non disperdiamolo, facciamo vedere loro che la fiducia è ben riposta.
La seconda è che le campagne fatte tutte “contro”, tutta polemica e poco sostanza, alla lunga non pagano. A me lo hanno insegnato da piccolo. Mi dicevano i “vecchi”: anche quando fai un volantino ci devi mettere i no ma anche i per. Altrimenti non va bene, siamo all’opposizione ma vogliamo costruire non distruggere. Ecco penso che Renzi abbia sbagliato questo. Ha cercato di fare la parte di quello che mandava tutti a casa, di quello giovane e brillante, una sorta di Obama bianco, che avrebbe rimesso l’Italia a posto in quattro e quattr’otto. “Io ho contro l’apparato, ma ho il consenso dei cittadini”. In realtà del mago Zurlì non ne abbiamo bisogno, le sue ricette sono vecchie, affondano le radici in un neoliberismo bocciato dalla storia. E il popolo del centro sinistra, che condivide sicuramente una parte del suo messaggio, ha dimostrato di aver capito che si serve una persona seria, un lavoratore come Bersani, un centromediano alla Oriali, per rimettere insieme i cocci e ripartire. Per cui alla fine Renzi è stato bocciato proprio da quel voto di opinione su cui aveva puntato la sua campagna elettorale tutta fuochi d’artificio e lustrini televisivi. Verrebbe da dire che non è più tempo di format ma di concretezza. E la concretezza emiliana di Bersani, che magari non avrà un grande carisma, ha avuto la meglio. Come fu per Prodi contro Berlusconi.

Eppure di Renzi dobbiamo tener conto. Dobbiamo tener conto della voglia di rinnovamento che c’è nella gran parte di quel voto. Dei tanti che l’hanno scelto, magari non conoscendo nulla delle sue proposte, ma che esprimono un’ansia e una preoccupazione vera. Ci dicono chiaramente che non si può continuare sulla strada degli anni passati. Ci dicono che anche noi, anche il centrosinistra deve andare oltre i suoi vecchi schemi di pensiero e proporre persone diverse. C’è un tempo per tutti. E questo non è più il tempo delle vecchie facce. Qualcuno l’ha capito e si è messo a disposizione. Altri sgomitano per restare in pista. Bersani adesso ha la forza, la legittimazione necessaria, per promuovere una classe dirigente nuova e preparata. Non serve la rottamazione, non serve la delegittimazione di un partito che, nelle sue mille e mille contraddizioni, ha dimostrato ancora una volta tutta la sua forza.
Serve un lavoro di promozione di quei dirigenti, giovani e non, che in questi anno sono cresciuti, nell’amministrazione, nel partito. Sono tanti, questo è il loro tempo.

E questo va fatto, non solo in Parlamento. Va fatto nelle Regioni che vanno al voto, a partire dal Lazio, va fatto nella scelta dei candidati a tutti i livelli.

Il caso Roma

Entro più nello specifico del caso Roma. Emigrato Zingaretti verso la conquista della Regione si è aperta una voragine. E’ mancato un lavoro di sintesi da parte del gruppo dirigente che si è fidato troppo delle primarie prossime venture. Ai cittadini dobbiamo presentare una sintesi, candidati in grado di governare una città umiliata dagli anni di Alemanno. Non dobbiamo presentare un campionario delle nostre debolezze, ma delle nostre energie migliori. Deve essere una sfida in positivo per far tornare a correre la Capitale. Ecco che allora i vari Sassoli, Gentiloni, Prestipino, Marroni, non sono sufficienti. Serve un sindaco, non un ex giornalista emigrato a Bruxelles o un ex assessore della giunta Rutelli. Neanche la candidatura del capogruppo in consiglio comunale, che in questo quadro è sicuramente la più legittima, quella che segue un percorso logico, secondo me è sufficiente a rappresentare una svolta per Roma. Nomi non ne faccio, perché questo corsa che si scatena ogni volta ci fa soltanto male. Segnalo però un’esigenza, un’urgenza: che il gruppo dirigenti largo del Pd romano si faccia carico di trovare questa sintesi: non lasciamola ad altri, perché quando Roma ha rinunciato alla sua autonomia si sono prodotti disastri.

Il X Municipio e mezzo

Chiudo queste brevi considerazioni sulla situazione del territorio dove faccio politica tutti i giorni o quasi. Con l’accorpamento annunciato fra X Municipio e una parte del IX, questa diventa una città da oltre 200mila abitanti. Ci sono capoluoghi di Regione più piccoli in Italia. Una grande città che continua a crescere e ha problemi diversi dal suo “centro” alla sua periferia. Per quanto riguarda il X io ribadisco che la sinistra, il PD in primo luogo, ha la necessità di chiudere la negativa esperienza dell’ultima consiliatura di Medici e di guardare oltre. Ho in passato ampiamente spiegato perché ritengo sia un’esperienza da chiudere al più presto.
Le candidature presentate al momento non sono sufficienti. Su un versante abbiamo  una continuità preoccupante con il malgoverno di questi anni, dall’altro manca la “brillantezza” che serve per fare una battaglia vera, non di testimonianza. Se non altro almeno da questa parte c’è la consapevolezza della necessità di ampliare il quadro e di non presentare una candidatura slegata da un percorso condiviso.
Da luglio in poi non ho sostanzialmente più parlato del X Municipio, rispondendo con i fatti alla richiesta che il gruppo con cui ho lavorato in questi mesi mi ha fatto. Non ho portato avanti quel programma di rottura radicale che avevo abbozzato, con la proposta di una mia candidatura. Eppure sono ancora molti – e non solo nel partito – che mi chiedono di mettermi in gioco in prima persona. Da quelli che non considerano il PD locale e il suo attuale gruppo dirigente un interlocutore credibile, a quelli che avvertono, come me,  il bisogno di una rottura non solo generazionale, ma di contenuti. Di una cesura netta. Che vogliono parlare di qualità della vita e non di nuove costruzioni. Di smart city, di raccolta differenziata, di zone pedonali e non di nuove inutili strade.
Non nascondo che l’avventura non mi dispiacerebbe affatto. Del resto bastano 750 firme fra i cittadini per candidarsi alle primarie del centro sinistra. Come dire: una mezza giornata con tre banchetti nelle zone di maggior aggregazione.
E questo, lo ripeto, è il nostro tempo. Non è il tempo delle candidature “conservative”. E’ il tempo di osare, di provare sul campo una nuova classe dirigente.
Eppure sento che una mia candidatura sarebbe insufficiente. Sento che non è il momento delle avventure, degli uomini soli al comando. E’ il tempo, anche nel X Municipio e mezzo, di fare squadra. Di proporre agli elettori, un candidato presidente, ma soprattutto una squadra unita, al di là e oltre le correnti, per fare una rivoluzione democratica anche in quella città che si distende fra Ponte Lungo e Vermicino. A questo lavorerò nelle prossime settimane: alla costruzione di un percorso condiviso, che porti non solo e non tanto a un candidato in netta discontinuità con il passato, ma alla costruzione di una nostra squadra che rappresenti a pieno il percorso fatto in questi anni e che dica chiaramente queste sono le nostre idee per fare del X Municipio e mezzo la casa della trasparenza e della partecipazione.
Perché questo viaggio va fatto assieme.  Non c’è un uomo solo al comando.

Appunti per il governo
del Lazio

Ott 26, 2012 by     4 Comments    Posted under: appunti per il futuro, dituttounpo', il pd

Un mio piccolo contributo all’elaborazione del programma per le prossime elezioni regionali. Non si tratta ovviamente, di un ragionamento articolato e complessivo, ma di alcuni spunti, secondo me essenziali, per governare davvero e non tirare a campare. Read more »

La regola dell’emerita cippa

Ott 10, 2012 by     8 Comments    Posted under: dituttounpo', il pd, roma

Leggo in questi giorni di un nervosismo (per dirla così) fra amministratori, eletti, nominati vari. Si dimettono, si autocandidano a incarichi dei quali non sanno assolutamente nulla, si propongono, si promuovono, cenano, telefonano, inguacchiano. Read more »

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