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Aspettando un Godot che non arriva mai.
Il pippone del venerdì/48

Mar 23, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La sinistra italiana senza essere vittima di una sorta di coazione a ripetere sempre gli stessi errori. E la gravità della situazione attuale non pare essere in grado di provocare un qualche sforzo se non altro di originalità. Ora, lo stato attuale dell’arte è più o meno questo. Tutti danno la colpa a tutti del pessimo risultato del 4 marzo. Quelli di Sinistra italiana dicono che la colpa è di quelli di Mdp, visti troppo in continuità con il Pd di Renzi, quelli di Mdp rispondono che se non c’erano Grasso, Bersani e soci in prima fila manco al 3 per cento si arrivava. Quelli di Possibile che dicono che la colpa è di tutti (gli altri) e si chiudono in un narcisistico quanto paradossale congresso. Poi c’è anche Tomaso Montanari – che ormai sta sulle palle un po’ a tutti – il quale dal canto suo spiega che l’unico che ha avuto ragione fin dall’inizio è proprio lui. Avevamo giusto bisogno di un essere perfettissimo e infallibile, ma incompreso

La novità, almeno a girare un po’ per le assemblee che si stanno svolgendo a Roma, è questa: il gruppo dirigente è tramortito, se non altro dal fatto che gran parte di esso si deve cominciare a porre il tema di come mettere insieme il pranzo con la cena. Sono i militanti, i quadri, che provano a rianimarli un po’ spiegando ai dirigenti che l’unica cosa da fare (sperando che non sia troppo tardi) è procedere insieme verso un partito nuovo. Parlo di novità perché, di solito, dopo le batoste elettorali, avviene esattamente il contrario: c’è scoramento nella base e i dirigenti provano a tenere insieme i cocci.

L’errore che sembriamo costretti a ripetere, invece, è quello di continuare a parlare di Pd, di centrosinistra, di alleanze. Speranza, Bersani, lo stesso D’Alema che pure è più defilato. Sembra di sentire un disco rotto: abbiamo sbagliato in campagna elettorale, siamo sembrati troppo in continuità, troppo vicini al Pd. E il tracollo di Renzi ha travolto anche noi. Del resto basta vedere i dati delle elezioni per vedere quanto il “pozzo” avvelenato dall’ex leader rignanese sia stato letale tanto al Pd quanto a Liberi e Uguali. I numeri – sia pur nelle rispettive dimensioni – viaggiano in parallelo. Dove “tiene” il Pd va benino anche Leu (centri storici, quartieri medio alti delle grandi città). Dove il Pd crolla, Leu tende allo zero (ceti popolari, quartieri delle periferie estreme). Nulla che non fosse già successo, sono soltanto le dimensioni differenti rispetto al passato.

Insomma, comunque sia, abbiamo capito cosa non funziona. Su questo sono tutti d’accordo, sia pure ognuno con accenti differenti. E allora che si fa? Si continua nell’errore, mi pare ovvio. E giù interviste in cui si parla soltanto del Pd come baricentro di un nuovo centrosinistra. Mi sembra che in molti (troppi) stiano un po’ guardando cosa succede dal buco della serratura, nella semplice attesa che il Pd si doti di una leadership più presentabile per rientrare armi e bagagli nella vecchia casa. Siamo alle solite, insomma. Quando la sinistra è in difficoltà si mette seduta sotto l’albero aspettando un nuovo Godot. Questa volta si chiama Nicola ZIngaretti, unico vincitore (a metà) in questa tornata elettorale. Prima era stato Prodi, poi Rutelli, poi Veltroni. Poi ancora Renzi. E ogni volta tutti a chiedersi: sarà quello buono, sarà quello che ci farà vincere?

Per me – lo so sono noioso, ma questo pezzo si chiama “il pippone”, deve essere noioso – tutto comincia dalla sciagurata svolta della Bolognina. Quando abbiamo buttato a mare l’esperienza più forte della sinistra europea alla ricerca di una irraggiungibile verginità. Per me l’errore resta radicato in quello sbaglio culturale: l’idea che basta un nuovo contenitore e un nuovo simbolo per riuscire a superare i momenti di difficoltà. Grazie all’abbaglio di Occhetto e soci ci ritroviamo in questa situazione: venuto meno l’ancoraggio ideale, piano piano si è sgretolato tutto. L’organizzazione, la militanza, il senso di comunità. E continuiamo a perseverare nell’errore, cercando soltanto il leader in grado di tenere insieme la baracca e farci vincere. Senza avere l’umiltà di ripartire dai fondamentali, da quella ricerca che abbiamo abbandonato. Senza chiedersi più a cosa ci serve vincere.

Anche Liberi e Uguali nasce con la stessa tara genetica. Un quadro di valori confuso, lo scimmiottamento di procedure fintamente democratiche e in realtà soltanto pattizie, un presunto leader scelto a tavolino, doveva essere Pisapia, alla fine siamo andati su Grasso, visto che il primo era un agente del nemico. Basta che non vengano dalla tradizione comunista, verrebbe da dire. Il solito complesso di inferiorità che ci porta a scegliere il Papa straniero. Per il resto Leu era solo un contenitore. Di cosa? Questo lo vedremo dopo, ci avete spiegato.

Ecco, dopo è adesso. Mi pare di capire che si delinea un percorso di questo tipo: si fa una grande assemblea nazionale, con i famosi 1.500 delegati eletti dalle riunioni provinciali. Lì si discute e si approva (ancora una volta un finto esercizio democratico) un documento con carta dei valori e tappe del processo costituente. Chi lo scrive questo documento non è dato saperlo, si immagina siano i responsabili delle forze politiche che hanno dato vita a Leu, più Grasso. Una sorta di segreteria ultraristretta. Avrei preferito che si procedesse, per una volta, al contrario. Va bene la traccia decisa a livello nazionale. Ma poi arricchiamola e facciamola diventare “carne viva” in un confronto quartiere per quartiere. Troviamo sedi, apriamole, facciamolo vivere con un intreccio di vertenze locali, servizi utili ai cittadini e grandi questioni. Raccontiamoli questi quartieri, i loro problemi. Conosciamoli.

L’assemblea nazionale dei 1.500 è un residuo. E’ stata eletta in base a quote stabilite non si sa bene in base a cosa. Ognuno ha indicato i suoi. La lista non è mai stata scelta. E’ stata ratificata in maniera ipocrita. Dopo l’appuntamento di aprile, che ormai pare ineluttabile, allora dichiariamola sciolta in maniera definitiva. Dico di più dichiariamo che non procederemo più in quella maniera. Rinunciamo alle strutture da cui veniamo e facciamo davvero il tesseramento, nei quartieri, nelle università, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. E delegati facciamoli eleggere nelle sezioni, non nelle stanze dove non entra la vita reale. In base a chi sono non in base alla loro provenienza. Io non vorrei più essere di Mdp. Vorrei essere di Leu.

E il gruppo dirigente facciamolo nascere così. Nelle assemblee e nelle piazze.  Tra l’altro, queste elezioni un merito ce l’hanno: abbiamo cancellato il cosiddetto partito degli eletti. Andiamo a parlare, fin da subito, con quelli che hanno scelto l’impegno in Potere al popolo e vediamo insieme se siamo proprio così differenti. Perché io resto convinto che non è così, se si parte dalla base e non dalle altezze presunte. Cominciamo a parlare da subito di Europa, di quale casa costruire anche a livello continentale. Forse questo è ancora più urgente. Bastano i vecchi socialisti? Basta alla Gue, la sinistra cosiddetta radicale? Per me l’Europa resta l’orizzonte minimo a cui guardare. Basta cominciare a guardare davvero.

Ecco, proviamoci a non aspettare Godot. A rompere questa spirale che ci sta consumando, elezione dopo elezione. Non serve fare un partito con i dirigenti rimasti in piedi, dobbiamo cercare la sinistra del XXI secolo. Sbaglieremo ancora, magari. Ma almeno proviamo a fare errori nuovi.

La politica e il rispetto degli elettori.
Il pippone del venerdì/47

Mar 16, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Andiamo dal notaio, firmiamo le dimissioni contestuali dei 26 consiglieri di opposizione, mandiamo a casa Zingaretti e torniamo alle urne, senza, tra l’altro, avere più l’ingombrante candidato del centro-sinistra fra i piedi. Lo ha proposto, trovando scarsi consensi vale la pena sottolinearlo, nei giorni scorsi il pirotecnico sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi. Parentesi breve: come i miei lettori più affezionati sanno, ormai secondo me non si può parlare più di politica, ma di cinema. Bene, quale prova migliore di questa: Zingaretti vince anche grazie alla presenza di due candidati del centro-destra. Che succede poi? Che proprio l’artefice di quella spaccatura lo vuole cacciare. Oltre il cinema, fiction. Chiusa la parentesi.

Perché parto da questo, tutto sommato, secondario episodio della politica laziale nel pippone di oggi? Perché secondo me è emblematico della dimensione autoreferenziale che ha assunto la politica, o almeno una parte degli attori (è il caso di dirlo) del panorama politico italiano.

La legge regionale è chiara: viene eletto presidente della Regione Lazio chi prende un voto in più degli altri contendenti. Se non raggiunge il 60 per cento dei seggi gli viene attribuito un bonus massimo di dieci consiglieri, il cosiddetto premio di maggioranza. Poi c’è questa possibilità, assolutamente contradditoria lo sottolineo una volta di più, prevista dal nostro ordinamento anche nella legge per l’elezione dei sindaci: la sfiducia dell’aula o le dimissioni contestuali della maggioranza dei consiglieri provocano la decadenza del presidente e lo scioglimento del consiglio stesso. Dico che si tratta di una norma contraddittoria perché visto che il presidente è eletto dai cittadini, non ha bisogno del voto di fiducia dell’aula, non si capisce come quest’ultima possa sfiduciarlo. Si tratta di un espediente per ridare potere agli organismi collegiali indeboliti dall’elezione diretta del vertice. Ma è comunque una norma, lo ribadisco, del tutto contraddittoria.

Sono stati, però, altrettanto chiari i cittadini del Lazio: pur nella stessa tornata elettorale in cui si votavano anche Camera e Senato, quando hanno avuto in mano la scheda verde, quella per le regionali hanno cambiato il voto che hanno dato sulle altre due, i cui avevano premiato 5 stelle e destra, dando più voti al candidato Nicola Zingaretti. Questo fatto non va sottovalutato, lo preciso meglio, perché rappresenta un elemento importante di riflessione. La campagna elettorale, in questi casi, tende ad appiattire i risultati. Ovviamente prevalgono i messaggi politici nazionali. Questa volta, invece, l’indubbio consenso personale di Zingaretti (il presidente ottiene 1milione e 18mila voti, la somma delle liste che lo sostengono si ferma a 861mila)  porta a capovolgere addirittura il risultato delle politiche.

Viene da pensare che, proprio per l’effetto appiattimento, se non si fosse votato lo stesso giorno il divario fra il presidente uscente e i suoi avversari sarebbe stato anche maggiore, ma questa è un’altra storia.

Quello che esce da questa tornata elettorale nel Lazio è insomma evidente: i cittadini vogliono ZIngaretti presidente, ma lo obbligano a confrontarsi con le opposizioni per governare. Io lo traduco brutalmente così, magari sbaglio: ci fidiamo di te, non di quelli che ti sei portato appresso.  E il presidente riconfermato, che lo ha capito, si appresta a un giro di confronto con le opposizioni. Bisogna anche notare che si tratta di tre schieramenti differenti: da un lato i grillini, poi il centro-destra classico e infine il simpatico Pirozzi. Fatto di cui tenere conto: non è la stessa cosa che avere di fronte una opposizione unica.

Apro un’altra parentesi, perdonatemi, ma i temi si intrecciano: dal punto di vista meramente tecnico, questa è la dimostrazione plastica di come, in un sistema tripolare l’unica legge che assicura una maggioranza stabile, piaccia o no, è quella dei sindaci: elezione diretta, ma con il doppio turno e premio di maggioranza fisso.

Riprendendo il filo, cosa sconcerta nel ragionamento tutto politico che fa Pirozzi? Il mancato rispetto per la volontà degli elettori. Vale la pena di ricordare il precedente non fortunato per chi lo mise in pratica. Il Pd che sfiducia il suo sindaco a Roma. Ora, Ignazio Marino, pur venendo dopo il disastro di Alemanno, era ai minimi storici di popolarità. I cittadini romani lo consideravano uno dei peggiori sindaci della storia recente. Ma non tollerarono quell’atto vigliacco e prepotente al tempo stesso: quelle firme messe di nascosto per far decadere il sindaco eletto dai romani. Da quella data il Pd a Roma non ha vinto manco le condominiali. E’ come se gli elettori si fossero sentiti espropriati: lo abbiamo eletto noi e lo giudichiamo noi. Né si può dire semplicemente che in questo caso non sarebbe la maggioranza ma l’opposizione a far cadere Zingaretti. E’ una semplice aggravante che non inficia il senso del ragionamento: il presidente eletto dai cittadini lo giudicano i cittadini.

Io credo che chi fa politica debba sempre avere il massimo rispetto e la massima attenzione per gli elettori. Badate, non solo per i propri elettori, ma proprio per il complesso del corpo elettorale. E fare politica significa anche capire quello che ti hanno detto con il loro voto. Nel caso delle elezioni regionali è chiaro. Come, però, proviamo a fare un passo in avanti, è chiaro anche per quanto riguarda le elezioni politiche: il fatto che nessuno degli schieramenti arrivi alla maggioranza dei seggi è frutto, come è evidente, di una legge elettorale studiata appositamente, ma è al tempo stesso anche il messaggio profondo di questo 4 marzo. Vuol dire: nessuno di voi ci ha convinto fino in fondo. E allora che fare? Si torna a votare? Io credo che la cosa più seria da fare, una volta esaurita la fase della gara a chi ce l’ha più lungo, sarebbe avviare un confronto fra le forze politiche, fra quelle che si presentavano con idee simili e provare a costruire un esecutivo su basi programmatiche. Al di là dei toni e della propaganda, forse, se ci fosse un po’ di umiltà non sarebbe neanche tanto difficile.

Dico questo, e la finisco qui, perché questa legge, al di là delle balle che ci siamo sorbiti in questi mesi, è essenzialmente proporzionale. E anche il 30 per cento dei parlamentari che si elegge nei collegi uninominali, per effetto della presenza di tre poli di grandezza confrontabile, tende a diventare quasi proporzionale. A riprova di questo, salvo rare eccezioni, basta portare lo scarso rilievo avuto dal voto al singolo candidato rispetto al voto al partito. E nei sistemi proporzionali, facciamocene tutti una ragione, ci si confronta su programmi, si prendono i voti e poi si cerca una sintesi con chi è più simile a noi. Vi lascio proprio con questo interrogativo, inevaso. Chi è più simile a chi nel sistema politico italiano attuale?

Niente scherzi, ora si rema. Magari tutti nella stessa direzione.
Il pippone del venerdì/46

Mar 9, 2018 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Se vi aspettate un pippone lamentoso per la serie “quanto siamo incompresi noi della sinistra” oppure, ancora peggio, “abbiamo sbagliato tutto, quanto sono cattivi quelli di Mdp” (sostituire con Si o Possibile a seconda della formazione politica di provenienza), oppure ancora un’infinita lista di errori commessi dai nostri dirigenti, dicevo, se vi aspettate tutto questo, cambiate pagina. Il 3 per cento è la nostra realtà. Questo siamo oggi, da qui bisogna ripartire.

Del resto, conoscevamo bene i problemi che avrebbero caratterizzato questa campagna elettorale. Un’aggregazione che appariva frettolosa e tardiva al tempo stesso, un simbolo sconosciuto ai più, l’appello al voto utile che ci avrebbe inevitabilmente schiacciato. Non ha premiato il Pd, ma i 5 stelle, che sono stati percepiti dall’elettorato come l’unica alternativa credibile alla destra. Infine, non lo dimentichiamo, abbiamo giocato una partita, mi piace credere sia soltanto il primo tempo, su un campo – il Rosatellum – che non avevamo di certo scelto noi. Anzi, era stato studiato nei particolari per metterci in difficoltà.

Certo, poi ci abbiamo messo del nostro. Dell’entusiasmo di quella mattinata romana in cui Grasso aveva lanciato Liberi e Uguali è rimasto ben poco nei mesi che si sono succeduti. Le assemblee-teatrino in cui era tutto deciso, le liste calate dall’alto senza tenere conto delle proposte dei territori, la gestione farraginosa delle alleanze per le elezioni regionali. E poi il silenzio dei media, pronti a fare da grancassa soltanto a quello che ci metteva in difficoltà. Dalle affermazioni ambigue, alle differenze di vedute fra i nostri candidati. Li ricordate i litigi fra noi sui social sulla parola “foglioline”? Beh, altro che tafazzismo. In più mettiamoci anche i mezzi a disposizione. Scarsi. L’organizzazione. Approssimativa. Infine, lasciatemelo dire da un punto di vista professionale, una campagna di comunicazione di scarso spessore.

Lo sapevamo. Come sapevamo che il nostro era un tentativo necessario ma insufficiente. Questa non è comunque la fine della storia. In questi mesi ce lo siamo detti per farci coraggio o perché lo credevamo davvero? Bene, care tutte e tutti, come va di moda dire, io ci credevo davvero. Perché questo impegno ha riempito le mie giornate dal 2015 – quando ho lasciato il Pd – a oggi. E non ho alcuna intenzione di mollare ora. Cambia qualcosa aver preso il 3 per cento rispetto al 6 che ci aspettavamo, illusi da sondaggi che cercano più di condizionare la realtà che di raccontarla? Siamo in Parlamento. Missione compiuta, seppur al minimo sindacale. Questo era l’obiettivo, dare una rappresentanza al partito che dobbiamo costruire. Abbiamo fatto un percorso un po’ al contrario, ma sapevamo anche questo. Dunque: avanti.

Cercando magari di non ripetere gli errori fatti. Avanti. Senza rottamare nessuno, perché non fa parte della nostra cultura, senza chiedere a nessun dirigente della vecchia di guardia di fare un passo indietro. E non è onesto dare la colpa a una generazione di leader he ha fatto una corsa generosa, spesso senza essere candidato ovunque. A volte ha funzionato, altre meno. Io resto convinto che uno come D’Alema sarebbe stato bene averlo in parlamento. Resta fuori non per chissà quale rifiuto popolare nei suoi confronti, ma per il gioco dei seggi del Rosatellum, una sorta di partita a dadi che giochi da bendato. Insomma, non crocifiggiamo nessuno, avremo ancora bisogno di tutti.

E allora, tutti, facciamo insieme un passo in avanti. Che ognuno riconosca i proprio limiti. Che tutti si rendano conto che non siamo stati percepiti come la soluzione, ma come una parte del problema. In una competizione elettorale caratterizzata da un voto anti-istituzioni, che ha premiato tutto quanto era più lontano dall’establishment in tutti gli schieramenti, ci siamo presentati con il presidente del Senato e della Camera in prima fila. Abbiamo proposto soluzioni spesso confuse, spesso descritte in maniera contraddittoria. E’ ora di ripartire.

Io direi di dimenticare – per un po’ almeno – alcune delle parole che più usiamo, cito, a mero titolo di esempio: responsabilità, sinistra di governo, centrosinistra, Ulivo, governo di scopo, del presidente, istituzionale. Dobbiamo essere un po’ sanamente irresponsabili, insomma. Dobbiamo stare nei luoghi del conflitto, non nei salotti bene. Dobbiamo mettere in campo azioni positive per cominciare a raccontare il cambiamento che vogliamo nelle cose che facciamo e non solo nelle parole che ripetiamo sempre più stancamente.

Meno metafore, magari. E più presenza nelle scuole, nelle università, nelle periferie. Ripartiamo nella costruzione di un partito vero. Non un’associazione temporanea fra separati, ma un luogo che appartenga a tutti. Dove ci si chiama per nome e non si aggiunge la sigla di provenienza.

Il documento-appello lanciato da Grasso, Civati, Speranza e Fratoianni (l’ordine è puramente casuale), è un inizio necessario ma insufficiente al tempo stesso. Necessario perché serviva una scossa, bisognava lanciare un appuntamento immediato. Ma io credo che non basti dire: decidete un po’ voi che volete fare. Una direzione se ti vuoi ancora chiamare dirigente, la devi pur indicare. Cosa avete in mente, diciamolo chiaro: una federazione a cui tutti cedano pezzi di sovranità, un partito unitario, magari con forme di adesione collettiva? Quali sono i temi da cui partiamo? Quale il rapporto che vogliamo costruire con i sindacati, con l’associazionismo, con le realtà cresciute in questi anni nelle città? Su questo ultimo punto ad esempio, basta candidare qualche esponente di associazioni sconosciute ai più? Oppure serve un rapporto di tipo diverso? Più organico, come si sarebbe detto un tempo.

Insomma, ragazzi, gli elettori della sinistra saranno anche stati nel bosco, ma sono usciti e hanno scelto altre strade. Di fronte al tracollo del Pd, che perde buona parte del suo elettorato storico, a noi arrivano le briciole. Oggi siamo percepiti come residuali. La sinistra che fu, alla quale si accorda una sorta di diritto di tribuna perché in fondo è simpatica da vedere. Poco più che soprammobili.

Ora, io in pensione ci vorrei anche andare. Ma tra qualche anno. Sento ancora forte il bisogno di impegnarmi, di mettermi a disposizione per aiutare una nuova generazione a prendersi la rivincita. Come fare? Sono queste le domande che sento in giro fra i compagni un po’ sconsolati. Tutte le risposte non le so, vanno cercate insieme, ma alcune idee ce l’ho e vorrei avere modo di metterle alla prova. Ecco, ad esempio, evitiamo di parlare di alleanze per qualche anno, non ci facciamo incartare dagli appelli alla responsabilità. Possiamo ripartire alla definizione di una nostra visione di società. Ecco, ad esempio, riusciamo a ridare cittadinanza alla parola “socialismo”? Si può tornare a usare, si può tornare a sognare un mondo diverso. A me questo fa un po’ schifo. E’ un mondo cafone e arrogante. Ci sto stretto.

Ecco, ad esempio, possiamo invertire la tendenza? Invece di fare assemblee megagalattiche in cui parlano sempre pochi noti, possiamo aprire “la stagione delle mille piazze”? Diamoci un tempo, apriamo una fase di ascolto. Quartiere per quartiere. Dove siamo presenti usiamo le strutture esistenti, ma poi andiamo in giro, andiamo dove non siamo. Prendiamo i risultati delle elezioni politiche e cominciamo dai seggi dove prendiamo meno voti. A viso aperto. Il partito della sinistra, per me va fatto strada per strada, non nei teatri dove siamo sempre gli stessi (Brancaccio compreso). Perché non solo siamo sempre gli stessi, ma siamo sempre più vecchi e stanchi. Io penso che in questa maniera si possa ricostruire qualcosa che non sia un’aggregazione di reduci. La protezione di un gruppetto di parlamentari poco abituati a confrontarsi con gli elettori non mi interessa. Non ci sto più a portare acqua a chi è sempre presente quando si tratta di essere candidato, ma poi non risponde più al telefono una volta eletto. Ecco, queste assemblee di Liberi e Uguali che svolgeremo nelle prossime settimane, facciamole strane. Usciamo dalle liturgie politiciste che ci piacciono tanto ma ci hanno portati alla separazione dalla realtà. Non facciamo programmoni, tavoli di lavoro. Partiamo da due o tre domande e chiediamo a tutti di esprimersi su questo. Vogliamo stare insieme? Per fare cosa? Con quali strumenti? Cerchiamo di essere chiari, di non usare ambiguità comode. Non è più il tempo delle convergenze parallele, dei due forni. E’ tempo di abbattere qualche muro. Anche a testate se serve.

Infine, una notazione sul Pd. Noto con un qualche allarme che diversi compagni che hanno fato questo tratto di percorso con noi sembrano molto interessati alle prossime primarie, alle quali – i giornali lo danno per certo – parteciperà anche Nicola Zingaretti. Non voglio commentare questa forma di esercizio falsamente democratico. Sono, ovviamente, uno spettatore interessato. Perché continuo a ritenere il Pd uno dei possibili interlocutori della sinistra. Ma resto concentrato sulla costruzione di una forza di sinistra. I democratici facciano le loro scelte, vedremo se in futuro le nostre strade, di forze autonome, potranno incrociarsi ancora.

Il 4 marzo, ma anche il 5.
Il pippone del venerdì/45

Mar 2, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Si vota, finalmente. Sono state settimane interminabili e corte al tempo stesso. Interminabili per gli appassionati della politica da spettatori. La noia del dibattito sui mass media non ha precedenti. Liberi e Uguali non ha brillato in campagna elettorale.  Spesso ci siamo fatti stringere all’angolo, raramente, ci è riuscito a tratti Bersani, siamo entrati nel merito delle nostre idee. Sul fisco, sulla riduzione dell’orario di lavoro, sul diritto allo studio, sull’ambiente. Abbiamo avviato un processo, anche autocritico, di profondo ripensamento delle proposte classiche della sinistra riformatrice. Finalmente siamo usciti – stiamo provando a uscire, restiamo cauti – dalla bolla blairista del “liberismo di sinistra” e abbiamo ricominciato a fare il nostro mestiere, guardare il mondo con gli occhi dei più deboli. Temo sia troppo poco e troppo tardi per riuscire a spostare l’ago della bilancia elettorale in maniera sensibile. Ma questo, ce lo siamo detti in tutte le salse, è solo il primo tempo della partita.

Almeno abbiamo iniziato, a ripensare la sinistra. Mi dispiace solo che una parte dei movimenti e dell’associazionismo di base – che dovremmo considerare nostri interlocutori privilegiati – abbia preferito al confronto con noi le sirene della purezza ideologica. Che poi è un po’ una catena: se cominci a fare l’analisi del dna trovi sempre qualcuno che ce l’ha più puro del tuo. Per cui alla fine, invece di quel pungolo a sinistra di cui avremmo bisogno come il pane, le varie listarelle presentate saranno soltanto una (non so quanto) inconsapevole foglia di fico per Renzi. Ogni voto in meno a Liberi e Uguali, secondo me, è un passo indietro nella costruzione della sinistra – laica e socialista  – che serve in questo paese. Avremo tempo, spero tutti insieme, per riflettere, una volta passata la frenesia della campagna elettorale.  Vorrei però che due temi restassero centrali nel nostro ragionamento: quello dell’orario di lavoro e quello di un necessario radicamento popolare del nuovo partito che andremo a costruire.

Partiamo dal lavoro, visto che la nostra proposta di riduzione a parità di salario è stata praticamente ignorata da giornali e tv, interessati, come ormai avviene da mesi, soltanto alle alleanze, alle formule politiciste per giustificare un ipotetico governo post 4 marzo. Io credo che questa resti una questione centrale. Ne ho già parlato, ma vale la pena tornarci su, sia pur rapidamente. La rivoluzione robotica, della quale vediamo soltanto i primi effetti, porterà a una progressiva e fortissima riduzione della manodopera necessaria per produrre e movimentare la merce. Resto al campo dell’informazione: la scomparsa progressiva dei giornali su carta quanti posti di lavoro fa perdere? Dai tipografi, ai distributori, alle edicole. Migliaia. E ci sono sicuramente settori che saranno ancora più colpiti. Penso all’industria pesante, dove l’uomo in un futuro neanche troppo lontano non ci sarà proprio più. Le soluzioni proposte restano varie e contraddittorie. E anche questo fa parte della debolezza di una sinistra europea che è troppo presa a guardare il suo ombelico per tornare a ragionare a livello internazionale.

C’è chi ha lanciato addirittura l’imposta sui robot, proponendo di istituire una sorta di meccanismo di compensazione che vada a salvaguardare quanto meno le entrate dello Stato. Guadagni di più, devi essere tassato in qualche modo. Io credo che la riduzione dell’orario di lavoro resti lo scenario migliore. Per due ordini di ragioni: in primis perché mantiene inalterato il margine  di profitto. Le innovazioni tecnologiche, del resto, devono produrre come risultato ultimo un miglioramento del benessere collettivo. Se comportano un semplice aumento del profitto di pochi a scapito del livello di vita di molti non sono innovazione, ma regresso. E quindi è giusto che il lavoro umano diventi, come dire, più prezioso. Serve meno, ma resta indispensabile. Quindi lo paghi di più.  Succede in Germania, dove i metalmeccanici hanno appena firmato un contratto che prevede la possibilità di scendere a 28 ore settimanali, non si capisce perché la proposta di Liberi e Uguali (32 ore) non sia realizzabile. Certo non ci arriveremo domani, ma la strada è quella. Poi, resta sempre il problema di come organizzare una società in cui l’orario di lavoro scenda così drasticamente.

Mi affascina l’idea di una sorta di banca del tempo, dove ognuno mette a disposizione della collettività le proprie ore avanzate per lavori utili. Mi affascina per due motivi: il primo perché rappresenta una forma di socialità nuova, che combatte l’isolamento che pervade il nostro tempo. Per dirla chiaramente: le ore in più le possiamo sommare a quelle che dedichiamo all’addivanamento da televisione, oppure viverle in maniera sociale, dando un contributo al benessere collettivo. Il secondo, perché potrebbe essere un modo per fare esperienze lavorative differenti, sia pure in forma ridotta, ampliando sul campo la propria formazione. E anche di questo, di persone in grado di svolgere più ruoli, temo avremo sempre più bisogno.

Dovremo, insomma, riflettere molto e con la mente aperta su questi temi, su quella “società del non lavoro” destinata a rivoluzionare i nostri classici parametri di riferimento. La sinistra deve servire anche a questo. A ragionare e trovare le soluzioni ai problemi complessi. Si dice tanto che serve un argine al populismo. Bene. Magari sarebbe utile che chi lancia appelli non fosse, a suo modo, altrettanto populista. Ma non si costruiscono argini a nulla, se non si pensa a radici culturali profonde. Se la sinistra non fa il suo mestiere, non mi stanco di ripeterlo, non argina proprio nulla.

L’altro tema – anche su questo ho già scritto, ma vale la pena ricordarlo – del quale dobbiamo farci carico è come organizzare un moderno partito di massa. E guardate che non è una questione meramente tattica. Perché la crisi che sta attraversando la nostra democrazia è stata in primo luogo proprio la crisi dei partiti di massa. E più in generale la crisi dei corpi intermedi. In queste settimane, pur nel vortice della campagna elettorale, ho avuto sempre in testa l’intervento di una compagna in una riunione nella periferia romana. Diceva più o meno che non basta dire cosa vogliamo fare, non basta scrivere meglio i programmi e fare volantini più accattivanti. Dobbiamo darne una dimostrazione concreta. Confesso che – detta nel corso di una delle nostre sonnolente e spesso rituali riunioni – l’ho ascoltata con sufficienza. Questa è un po’ matta, mi sono detto. Spero non si offenda se per ventura mi legge. Poi, però, ho cominciato a riflettere e mi sono reso conto non solo di quanto avesse ragione, ma anche del fatto che la storia del movimento operaio è piena di esempi virtuosi e concreti. Basta pensare alle società di mutuo soccorso della fine dell’800. Non è da lì che nasce il movimento socialista? E cosa c’è di più socialista che realizzare dei piccoli presidi di egualitarismo e solidarietà? Io la dico, di solito, in maniera più banale: le sezioni di partito, per vivere, devono tornare a essere percepite come luoghi utili per i cittadini. Luogo utile ovviamente ha significati differenti a secondo del nostro interlocutore. A Roma, nel pieno dell’emergenza dei rifugiati, offrimmo alcune nostre sedi per farli dormire, per fare un esempio. Non si tratta di assistenzialismo, ma di cominciare a cambiare la società pezzo per pezzo. E così: biblioteche e scuole popolari, mutua assistenza, gruppi di acquisto solidale, mense popolari. Dobbiamo aprire sedi in tutti i quartieri e farne luoghi vivi, di costruzione dell’alternativa di sistema a cui pensiamo. Anche per questo mi dispiace l’occasione persa da chi ha preferito l’isolamento all’unità: perché tante esperienze esistono già e bisogna che siano protagoniste.

Sono andato lungo, ma sono temi che mi appassionano e ben altro ci sarebbe da scrivere. Vi saluto. Non prima ovviamente di fare l’ultimo appello. Si vota solo domenica. Alle politiche bisogna solo fare una croce sul simbolo. Su quale lo sapete. E’ inutile tornarci su. Alle regionali (Lazio e Lombardia) potete anche esprimere due preferenze di genere (uomo-donna). E andate a votare presto. Da bravi compagni.

 

 

Un voto senza turarsi il naso. Come sempre.
Il pippone del venerdì/45

Feb 23, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ho sempre trovato di cattivo gusto l’invito ad andare a votare turandosi il naso. La considero una mancanza di rispetto verso la libertà democratica per eccellenza, quella di scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. Cosa vuol dire turarsi il naso? Che il voto ha un odore nauseabondo? Che la lista sulla quale fare la croce puzza?

Ora, io sono uno che ha il naso molto sensibile ai cattivi odori, per cui mi dà fastidio anche la semplice idea. Detto però dal segretario di un partito a proposito della sua stessa lista, come è avvenuto nei giorni scorsi, sembra addirittura un paradosso. Soprattutto se si pensa che il segretario in questione, Matteo Renzi, quel partito lo ha modellato a sua immagine e somiglianza, con una vera e propria pulizia etnica delle minoranze. E’ come se uno dicesse: mi faccio schifo anche da solo, ma votatemi. L’invito a scegliere il meno peggio fatto addirittura dall’attore protagonista della commedia. Io non ci ho mai creduto, figuriamoci adesso. Certo, a volte il partito che ho votato, il candidato che ho scelto nel caso di elezione diretta del sindaco o del presidente della Regione, non coincideva alla perfezione con le mie idee. Ci mancherebbe altro.

Però, nella mia ormai considerevole esperienza da elettore, ha sempre votato con convinzione, scegliendo un progetto al quale affidare quella che, lo ripeto, è una delle mie facoltà a cui tengo di più. Il voto. Per me la mattina delle elezioni ha sempre un sapore particolare. Mi preparo la tessera elettorale dalla sera prima, sveglia presto. E sono nervoso fino a quando non sono dentro il seggio con la scheda in mano. I comunisti votano la mattina all’alba, si diceva un tempo, perché poi non si sa mai cosa può succedere. E ancora adesso che i comunisti non ci sono più (o almeno non ci sono sulla scheda), basta andare in qualsiasi seggio durante lo spoglio per confermare che i voti della sinistra stanno sempre sotto, sul fondo dell’urna, perché i nostri elettori sono i primi ad arrivare. E questo gesto di andare a votare la mattina presto è un po’ la rappresentazione concreta dell’importanza che noi diamo al voto alle elezioni. Di quanto teniamo all’esercizio di questo diritto democratico.

Ecco perché quella pronunciata da Renzi non è solo una delle tante frasi infelici che ho sentito in questa campagna elettorale, rappresenta una rottura (l’ennesima) con il sentire comune di quello che dovrebbe essere, lo era almeno fino a cinque anni fa, il suo popolo, il popolo del Pd. Mi chiedo se nelle urne, quando i presidenti dei seggi apriranno gli scatoloni, le schede democratiche saranno ancora in fondo oppure questa volta galleggeranno in cima, ultima testimonianza dell’avvenuta mutazione di quel progetto fallito.

Ma bando alle malinconie da fine impero e veniamo a noi. Arrivati ormai a dieci giorni dal voto la nostra campagna elettorale procede. Fra alti e bassi, ignorati dai giornali, con pochissimi mezzi a disposizione. Siamo molto social, stiamo nelle piazze, nelle città. Con pazienza, casa per casa, lentamente e in ritardo, Ma ci siamo. Avverto molto, in questi giorni, quello che ritengo il punto più debole della nostra proposta politica, il non essere un partito. Strutturato, pesante direi, usando un termine a cui si è attribuita una ingiusta valenza negativa. Avverto la difficoltà del fare politica senza sedi, con le case dei compagni adibite a magazzini provvisori di volantini e manifesti. Con gli appuntamenti dati al bar, le bandiere passate di mano in mano. Dalla sezione alla chat di whatsapp, per dirla in poche parole. Non so se il modello organizzativo funziona meglio. Di certo non si riesce a costruire quel senso di comunità che caratterizzava i partiti di un tempo.

Perdonatemi la nostalgia, ma in questi momenti, noi ormai sulla strada della vecchiaia tendiamo a essere nostalgici. E io ricordo gli anni del liceo e dell’università, il mio circolo della Fgci, la sezione di Garbatella, Ia mitica Villetta. I compagni più grandi (non ci saremmo mai permessi di chiamarli anziani) che ci proteggevano come fossimo il loro bene più prezioso. E forse lo eravamo davvero, rappresentavamo il loro futuro. E allora qualsiasi cosa ti servisse c’era il compagno che ti dava una mano. Serviva un dottore, si andava dal compagno medico. Perdita nel tubo? C’era il compagno idraulico. C’era un compagno per tutto. Magari non è che risparmiavi, ma era una garanzia di serietà. E rappresentava quell’essere comunità che è la cosa più grave che abbiamo perso.

Per cui, ridotti un po’ alla stregua di barboni della politica, in strada dalla mattina alla sera senza avere più una “casa” a cui fare riferimento, ripensare a tutto il patrimonio, materiale e di passione, che abbiamo dissipato in questi anni fa davvero rabbia. E questo è solo l’aspetto più evidente delle nostre difficoltà in questa campagna elettorale. Quello più sottile, ma anche più preoccupante, è la mancanza di credibilità politica che deriva dal nostro essere una simpatica accozzaglia, uso il termine in senso scaramantico. I cittadini sono meno disposti a darti fiducia se non sei chiaro sulle prospettive che gli offri. E il nostro essere una coalizione e non un partito non fa chiarezza proprio sulle prospettive. Per di più ci rivolgiamo a un popolo che aveva riposto grandissime speranze nel progetto del Partito democratico e adesso è profondamente scottato dal suo fallimento ormai conclamato. Quando ti bruci prima di rimettere la mano vicino al fuoco ci pensi bene.

Questo è un nostro elemento di debolezza, l’ho sempre detto fin dall’inizio. Per questo fa benissimo Pietro Grasso a ripetere tutti i giorni che Liberi e Uguali non finisce il 5 marzo, che siamo il nucleo di quello che dopo le elezioni diventerà il partito della sinistra. Fa bene perché indichiamo, ammettendo i nostri ritardi accumulati in questi anni, una prospettiva precisa facendo intravedere quell’unità, quella solidità che i nostri elettori ci chiedono. Lasciamo la porta aperta, perché non possiamo arrenderci a perdere sia i compagni che ancora stanno nel Pd, sia quelli con cui il filo di una discussione comune si è momentaneamente interrotto e hanno scelto di dare vita a Potere al popolo. Ma diciamo chiaramente che dal 5 marzo, possibilmente fin dal mattino, lavoreremo per aprire il cantiere del nuovo partito. E poco male allora se prenderemo più o meno voti di quello che ci aspettiamo. Queste elezioni sono soltanto l’inizio della storia.

E bene fa anche il capogruppo Laforgia a andare ancora oltre: indichiamo fin d’ora la data del congresso costituente. Un gesto simbolico, senza dubbio. Ma in campagna elettorale servono anche i gesti simbolici, oltre ai programmi. Non capisco la reazione fredda di alcuni. Sui giornali leggo della “paura di essere fagocitati dagli ex Pd”. Questa rappresentazione degli ex Pd (sempre che si possano definire come una categoria politica) come degli orchi pronti a succhiare le ossa dei bravi compagni della sinistra cosiddetta radicale un po’ mi irrita. Ma poi si va avanti. Io sono uno sicuro del fatto che questa sia la strada giusta. E quindi credo che sia giusto rispettare i tempi di tutti. Senza forzature. Ma sono queste proposte, sono le idee di Grasso e Laforgia che mi fanno andare verso le urne, non solo senza turarmi il naso, ma con fiducia e convinzione. Il 4 marzo, farò tre croci sul simbolo rosso di Liberi e Uguali, una per scheda non vi preoccupate non sono impazzito. E le faccio belle robuste e visibili. Non si sa mai, magari un presidente di seggio miope…

Manuale pratico per arrivare vivi al 5 marzo.
Il pippone del venerdì/44

Feb 16, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Non sono uno abituato a fare polemiche in campagna elettorale. Ma consentitemi un appello a tutti noi: svegliamoci. Ora, è vero che non siamo un partito, che siamo un po’ disorganizzati, che siamo pochi e per di più questa campagna elettorale in pieno inverno è anche difficile dal punto di vista climatico. Tutto vero. Però, ragazzi: di elezioni ne abbiamo viste tante, quello che serve lo sappiamo. E allora facciamolo.

Ripartiamo dall’abc.

  • Lasciamo perdere i sondaggi (per fortuna dalle 24 di oggi ne sarà vietata la diffusione). Non è possibile che ogni volta che esce una rilevazione della più sperduta società di statistica andiamo nel panico. Alcuni, penso ad esempio a quelli finti su una presunta competizione sul filo di lana in alcuni collegi di Roma fra la destra estrema e quella moderata, sono fatti ad arte per confondere le acque, per chiamare a raccolta gli elettori dubbiosi. Consideriamo poi che si tratta di rilevazioni che hanno un margine di errore del 2 per cento. Oggi, su tutti i quotidiani, ci danno intorno al 6. Tanto o poco che sia questa è la realtà, proviamo a cambiarla nelle prossime due settimane.
  • Basta parlare degli altri e soprattutto di possibili alleanze future. Su una cosa gli analisti più seri sono d’accordo: il prossimo parlamento non avrà una maggioranza. Perfino la grande intesa fra la destra estrema e quella moderata, escludendo la lega, sarebbe lontana da quel 50 per cento dei seggi più uno. Quindi a chi ci chiede con chi ci vogliamo alleare dopo il voto rispondiamo serenamente che la questione non si pone. Non ci sarà una maggioranza possibile fra noi e i cinque stelle, fra noi e il Pd. Non ci saranno i numeri, inutile darsi le martellate sui cosiddetti evocando impossibili scenari futuri.
  • Allo stesso modo non funziona puntare sulle disgrazie altrui: prima rimborsopoli dei cinque stelle, ora i nuovi guai giudiziari napoletani del Pd e della destra estrema. Problemi loro. La via giudiziaria al socialismo, come si chiamava ironicamente un tempo, non funziona. In alcuni casi, vedasi la campagna di stampa montata su questa vicenda dei bonifici allegri dei grillini, secondo me potrebbero addirittura produrre un effetto boomerang. Perché poi ognuno ha i suoi scheletrucci nell’armadio e in queste occasioni te li ritirano tutti fuori.
  • Altra cosa da evitare: le assemblee in luoghi chiusi. Ora, io capisco che fa freddo, che cominciamo anche a essere stanchi. Le sale magari le riempiamo anche, ma ci ritroviamo sempre fra di noi. Anche un po’ stanchi di sentirci ripetere le stesse cose. E allora stiamo nelle strade. Breve manuale di come si organizza un banchetto: gazebo con almeno due bandiere montate ai lati, materiale elettorale, possibilmente manifesti attaccati, magari anche fatti a mano, attirano di più, l’attenzione, dimostrano vitalità. Inventiamoci cose nuove e antiche: furgoni con le vecchie trombe, mini palchi volanti. Facciamoci vedere. Scusate se sono pedante, ma vedo in giro cose anonime. Infine andiamo a cercare noi gli elettori. Prendiamo i vecchi elenchi che tutti abbiamo e andiamo casa per casa. Non bastano le mail o le chat. Ci sono due fine settimana per farlo. Non perdiamo tempo.
  • Non facciamo iniziative di “frazione”. Liberi e Uguali deve essere l’inizio di un progetto. Se facciamo assemblee dove tutti i partecipanti vengono da una delle formazioni politiche di partenza diamo l’idea (secondo me respingente) che sia un’aggregazione momentanea volta a garantire qualche parlamentare.
  • I social: non li lasciamo agli avversari, ma su questo campo sono più bravi di noi. I grillini sono maestri. E allora utilizziamoli per quello che valgono. Diffondiamo il materiale, pubblicizziamo gli appuntamenti, non incartiamoci in assurde discussioni con personaggi assurdi che spesso fanno i provocatori di professione. Un vaffanculo, perdonatemi la volgarità, spesso è dovuto e sufficiente. Curiamo le nostre pagine, non le lasciamo vuote o, peggio, in balia dei troll.
  • Il nostro slogan è “per i molti, non per i pochi”. E allora cerchiamo di parlare ai molti, non facciamoci assurde masturbazioni mentali sugli indecisi e quello che serve a convincerli o sugli elettori delusi da Renzi o sui grillini pentiti. Parliamo agli italiani. A tutti. Fra questi ci saranno anche le categorie elencate sopra.

 

Fin qui la “pars destruens”, sostanzialmente le cose da non fare. Ora veniamo alle cose da fare e da dire. Ci sono due settimane, tiriamo fuori due idee forti. Due cazzotti da dare nello stomaco degli italiani.

Lavoro, facciamo una proposta alla tedesca: riduzione dell’orario a 28 ore a parità di salario. Se funziona nelle fabbriche della Merkel perché da noi non dovrebbe andar bene. Del resto con la robotizzazione ormai dilagante qualcosa ci dovremo pur inventare per garantire una ripresa dell’occupazione

Fisco: diciamo chiaramente quale progressività vogliamo, quali sono le aliquote che proponiamo e quali detrazioni (sarà quello il vero mercato delle vacche se vince il centro destra). Proponiamo una super tassa alla francese per i ricchi. Non ci facciamo spaventare.

Secondo me, seguendo queste poche regole, di buon senso, possiamo uscirne vivi. E magari avere anche qualche sorpresa. Ora vi saluto, vado a preparare il materiale per le prossime uscite. Sarà un fine settimana intenso.

Caro Minniti, contro i fascisti la piazza serve.
Il pippone del venerdì/43

Feb 9, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Scrivevo alcuni mesi fa, era un pippone di ottobre, che c’era in Italia un’ondina nera che cresceva. Si sentiva nei nostri quartieri, si percepiva che un misto di indifferenza e qualunquismo stava diventando sempre più forte in Italia. Un vero e proprio brodo di cultura per i nuovi fascisti. I fatti di Macerata sono un altro campanello di allarme, l’ennesimo. I risultati elettorali di Casapound, i cortei con migliaia di ragazzi che sfilano in maniera militare e si concludono con orge di braccia romanamente tese. I comportamenti razzisti a cui assistiamo in pratica ogni giorno e non abbiamo il coraggio di reagire. Tutti anelli di una catena inquietante.

Ed è grave, inutile che ci giriamo intorno, che un sindaco inviti le forze democratiche a non manifestare nella sua città, una città che dovrebbe essere ferita e reagire in maniera democratica. E’ grave che il ministro dell’Interno affermi su un quotidiano che “se il questore non vieta le manifestazioni ci penserà il ministero”. Come è grave, al tempo stesso, che tutti sappiamo come si chiama il fascista che ha sparato, ma nessuno di noi sa come si chiamano i feriti. Nessuno che sui social si sia inventato una foto profilo con un “siamo tutti…” Sono semplicemente “gli immigrati a cui Traini ha sparato”. Ed è grave che, anche a sinistra, solo dopo giorni qualcuno abbia pensato di andarli a trovare in ospedale. Non parlo delle alte cariche dello Stato, ma dei leader della sinistra. Anche chi è lontano dal becero razzismo della Lega e dei fascisti ha accettato di considerare gli immigrati come una categoria sociale. Non sono persone con facce, storie, drammi. Non uomini e donne, ma immigrati. E in quanto tali sono soltanto un problema: sporcano, infettano, violentano. Senza distinzione. Per cui anche un gesto di umana solidarietà diventa faticoso, non ci viene automatico.

Per questo credo che sabato, a Macerata, ci debba essere una prima importante risposta. Io mi auguro che Anpi, Arci e Cgil ci ripensino. Mi auguro che tutte le forze democratiche ci ripensino e siano alla manifestazione. E non basta dire “stiamo organizzando un corteo per fine febbraio a Roma”. Ci vogliono tutte e due queste piazze. Serve una risposta immediata, nelle stesse strade dove si è consumato un gesto che non è folle, ma è più drammaticamente un atto di terrorismo fascista. E’ perfino paradossale, se ci pensate bene: nel nostro Paese il primo atto terroristico, in questi anni di attacchi dell’Isis in tutto il mondo, arriva da un italiano e colpisce gli immigrati.

Serve la piazza di Macerata, caro Minniti.  Intanto per un motivo banale, perché non possiamo lasciarla ai fascisti, che ci saranno come hanno già fatto in questi giorni. Non lasciamogli più un millimetro delle nostre strade perché poi riprendersele è difficile. Ma serve soprattutto per dare un segnale a noi stessi. A quelli che si ritengono antifascisti e antirazzisti, ma non sentono più il bisogno di manifestarlo nei comportamenti concreti di ogni giorno.

Serve la piazza di Macerata, caro Minniti. Serve per dare un segnale di riscossa culturale. Serve dire: abbiamo capito, ora basta. Ora basta con i silenzi, basta con le timidezze. Siamo ancora la sinistra che i fascismi li ha affrontati e vinti. Tante volte. Siamo ancora il Paese solidale, dove l’accoglienza è la regola non l’eccezione. Siamo ancora il Paese che non solo è tollerante verso gli altri popoli, ma considera le diversità una ricchezza. Non è una questioni di sondaggi elettorali, di perdere o guadagnare qualche decimo di percentuale. E’ una questione essenziale per capire dove questo Paese.

E’ una questione culturale. Lo scrivo spesso, ma vale la pena ribadirlo ancora di più in questa occasione. Noi, la sinistra, non abbiamo perso soltanto qualche competizione elettorale, abbiamo perso l’egemonia culturale. Abbiamo perso le nostre antenne nella società, l’arretramento del nostro fronte è un fenomeno complessivo. Quando diamo la colpa a Renzi commettiamo un errore marchiano. Renzi è il prodotto della nostra crisi, non la causa. Lo spostamento a destra a cui assistiamo non è un fenomeno elettorale. Quello è solo il prodotto ultimo di una deriva profonda che ha cambiato i nostri cervelli la nostra percezione della realtà. Per questo serve una sinistra che rimetta radici non solo in Parlamento.

Spesso e volentieri, nei momenti più cupi, in cui ci troviamo con qualche compagno a riflettere sulle disgrazie italiche, arriviamo a una domanda che ci blocca: “Ma se noi, che siamo compagni di base, quelli che una volta si sarebbero chiamati quadri, arriviamo a comprendere l’urgenza di ritrovare le nostre radici, di aprire sedi, di tornare a essere una forza popolare e non salottiera, perché i nostri dirigenti non si pongono questo problema? Perché loro che dovrebbero avere strumenti di analisi più raffinati dei nostri non hanno avvertito per tempo questa deriva che ora rischia di travolgerci?” Non sappiamo darci una risposta precisa. Insufficienza della classe dirigente italiana nel suo complesso, personalismi. Farfugliamo, ma non arriviamo a una soluzione.

Ora, però, non è il momento delle analisi. E anche questo pippone oggi lo finisco qui. Non è il momento delle domande, perché ormai siamo oltre l’emergenza democratica. Ecco, ripartire da una manifestazione, da un grande evento popolare. Che riempia di nuovo di significato questa parola, sinistra, che fra un po’ ci ricorderemo davvero in pochi. A testa alta. Altrimenti anche riportare in Parlamento una robusta pattuglia di parlamentari non servirà a molto. Diciamolo forte, ora: abbiamo capito, ai fascisti non daremo tregua. Non arretriamo neanche un metro. Ieri come oggi. Prima che sia tardi.

…Ed il nemico attuale, è sempre ancora eguale, a quel che combattemmo sui nostri monti in Spagna…

L’unico voto utile per la sinistra.
Il pippone del venerdì/42

Feb 2, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Prima di cominciare questo mese che ci porterà alle elezioni è bene fare chiarezza sul “voto utile”. Perché questo sarà il leit-motiv che ci accompagnerà fino al 4 marzo. Non c’è solo il richiamo diretto, gli appelli dei padri nobili, quello di Prodi è solo il primo, saremo subissati di dichiarazioni simili. Basta pensare ai giornali di questi giorni, in cui tutta l’attenzione è dedicata agli scontri sui collegi. Paginate su paginate con fotine dei candidati e sondaggi a dir poco campati per aria. Tutto per creare un finto allarme sulla destra che sarebbe molto vicina alla maggioranza assoluta ma che ancora non ci arriva perché una cinquantina di seggi all’uninominale sarebbero in bilico. E allora ecco una sorta di richiamo subliminale, una chiamata alle armi contro i populisti. Se ci facciamo chiudere in questo recinto rischiamo sul serio di farci del male.

E allora proviamo a rimettere in ordine le cose. Partiamo da Liberi e Uguali. Siamo partiti bene, con le due assemblee nazionali, un clima di grande attesa, molta partecipazione, fiducia. Poi sono arrivate le spine, la questione delle alleanze sulle regionali di Lombardia e Lazio, la questione delle liste, con discussioni abbastanza consuete, ma amplificate dal fatto di non essere un partito ma – al momento – una mera aggregazione elettorale, una sorta di associazione temporanea di imprese in cui ognuno tende a salvaguardare la sua componente. E’ stato, per dirla in tutta sincerità, un mese in cui buona parte dell’entusiasmo iniziale si è spento, soffocato dalle polemiche e dalle discussioni sui candidati. In molti territori si sono aperte ferite, alcune scelte sono apparse troppo “conservative”, tese esclusivamente a salvaguardare unicamente i parlamentari uscenti. Si poteva fare meglio, senza dubbio. Ma dobbiamo tener conto anche di una legge che, di fatto, non permette alcuna competizione reale. Tutto è affidato alle scelte effettuate dai partiti, i candidati non hanno alcuna possibilità di competere realmente. Non ci sono le preferenze nella parte proporzionale, i collegi uninominali sono così grandi che difficilmente un candidato può incidere sul risultato, con le poche eccezioni, forse, di persone talmente note da rappresentare veramente un valore aggiunto. Un meccanismo infernale nel quale una formazione politica appena nata e di natura essenzialmente parlamentare come Liberi e Uguali rischiava di lasciarci le penne.

Siamo ancora in piedi. Con tutte le ferite del caso, ma siamo ancora in piedi. E abbiamo questo mese in cui non solo dobbiamo resistere ai richiami vari, ma dobbiamo rilanciare il nostro messaggio per tornare a crescere e arrivare a un risultato che ci permetta non solo di riportare una pattuglia della sinistra in parlamento e nei consigli regionali, ma anche di incidere realmente sulle scelte politiche che saranno prese nei prossimi cinque anni. Io credo che per farlo dobbiamo uscire dalla trappola del voto utile e delle sfide nei collegi. Come farlo? Provo a dire come la penso.

Intanto la definizione di voto utile. Tutte le preferenze espresse a formazione politiche che andranno a eleggere anche un solo deputato sono utili. Quindi tutti i voti dati a liste che supereranno il 3 per cento. Dunque: Forza Italia, FdI, Lega, 5 stelle, Pd, Leu. Le altre liste sono specchietti per le allodole. Servono soltanto a portare qualche decimale in più ai partiti che eleggeranno davvero deputati, grazie al meccanismo infernale previsto dalla legge: se non superi lo sbarramento i tuoi voti vengono comunque attribuiti alle altre forze con le quali sei coalizzato se hai preso più dell’uno per cento.  Ecco spiegato l’accanimento del Pd nel cercare alleanze con cespuglietti apparentemente insignificanti. Oppure, nel caso delle liste che vanno da sole, servono soltanto a indebolire gli schieramenti più vicini. Liste come Forza Nuova, solo per fare un esempio, tolgono decimali alla destra, ma non arriveranno al 3 per cento.

Dunque il voto a Liberi e Uguali ha di per sé una sua utilità, non è un voto “disperso”. Perché la somma di questi voti avrà una sua rappresentanza parlamentare. Non fatevi ingannare dalle paginate sulle sfide nei collegi uninominali dove LeU non appare quasi mai. Solo un terzo dei parlamentari viene eletto con questo metodo, il resto, la grande maggioranza dei seggi, sono stabiliti in maniera perfettamente proporzionale. E questo, appunto, vale per tutti i partiti che supereranno il 3 per cento.

Resta l’altro mito da sfatare, cioè, per dirla con le parole di Casini che un “voto a LeU è un voto dato alla lega di Salvini”. Ora, intanto bisognerebbe ricordare al neo renziano Casini che lui con la Lega ci ha governato fino all’altro ieri e quindi non è titolato a parlare di sinistra e manco di centro-sinistra, ma questo mito del voto utile per evitare un governo di destra non sta in piedi. Non sta in piedi per una ragione essenzialmente matematica. E va ricordata anche a Renzi, un altro che ripete il mantra del voto utile contro LeU. Grazie alle politiche di questi anni, la partita a queste elezioni si gioca essenzialmente fra centro-destra e Movimento cinque stelle. Tutti gli altri sono staccati. Sono molto staccati. I mass media possono provare a far finta di credere che ci sia una qualche contesa in cui Renzi e la coalizioncina bonsai messa su per mascherare l’isolamento del Pd possano realmente competere. Basta fare un giro in strada per capire che non è così. Che, per le ragioni di cui abbiamo discusso ampiamente nei mesi scorsi, c’è un vero sentimento popolare contro il Pd, a favore delle destre e dei cinque stelle.

Sono due gli elementi ancora realmente aperti in questa tornata elettorale. Il primo è la dimensione della vittoria della destra, se potrà cioè esprimere una maggioranza autosufficiente in Parlamento. Il secondo, qualora questo non avvenisse è la somma dei voti fra Forza Italia e Partito democratico. Potrebbe sembrare la classica somma fra mele e pere che non può dare alcun risultato. Ma non è così: da Macron alla Merkel, il risultato che tutti si auspicano nelle alte sfere della borghesia europea è proprio questo. Un governo di larghe intese fra Berlusconi e Renzi, con l’esclusione dell’ala cosiddetta populista, da Salvini a Grillo. Le burocrazie Ue questo vogliono per anestetizzare ancora una volta il nostro Paese.

E allora è evidente come il voto a Liberi e Uguali è l’unico voto davvero utile per chi si definisce di sinistra. Perché solo riportando a votare un forte numero di astensionisti e solo con una forte affermazione si possono evitare sia la vittoria della destra che la grande coalizione marmellata alla tedesca. Solo con una forte presenza parlamentare di LeU possiamo mettere un puntello alla prossima legislatura. Altrimenti, con buona pace della parte sinistra ancora rimasta nel Pd, nascerà “finalmente” quel partito della nazione a cui si sta lavorando da anni. Non sarà a guida Renzi, non sarà a guida Berlusconi, troveranno un personaggio meno vulcanico, in grado di rassicurare banchieri e mercati finanziari. Magari quel Calenda, che tanto successo riscuote negli ultimi tempi.

Un ulteriore tassello per completare il quadro sono state le liste democratiche, dove le minoranze sono state decimate, gli uomini più autorevoli emarginati. Vana è la speranza di chi spera di aprire la strada della rivincita contro Renzi a partire dalla sconfitta elettorale. Come davvero curiosa è la posizione dei quadri delusi del Pd che minacciano di votare la lista della Bonino per “dare un segnale” al partito. Per dare questo benedetto segnale, non a Renzi, ma all’Italia, la strada è obbligata: se si vuole rafforzare la sinistra si vota la sinistra. Non certo una forza ultraliberista il cui programma essenziale è andare oltre le richieste dei potentati europei, con misure quali il blocco dei livelli di spesa nei prossimi cinque anni che porterebbero questo Paese a una nuova stagione di recessione. A me non piace una società dove il tuo datore di lavoro controlla i tuoi movimenti con un braccialetto elettronico. Per questo va ricostruita una forza che rappresenti i lavoratori. In Italia come in Europa. Il 4 marzo è solo il primo appuntamento. Importante.

E allora un ultimo appello, prima che la campagna elettorale cominci davvero: guardiamoci in faccia, scarpe comode e maciniamo chilometri. Sciogliamo il nostro “io” in un “noi” collettivo. Bandiera rossa in spalla, volantini in mano. Eppur bisogna andar.

Mi è venuta una strana idea: ma se facessimo un po’ di campagna elettorale?
Il pippone del venerdì/41

Gen 26, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Dopo una settimana in cui abbiamo dedicato il pippone a questioni più alte, torniamo sulla terra, che le elezioni incombono. A me pare che il tarlo del masochismo non abbandoni mai la sinistra. Abbiamo cominciato questa avventura di Liberi e Uguali in ritardo, con ferite ancora aperte e con i pantaloni più o meno rattoppati. Incontrare sulla nostra strada un uomo come Grasso è stata quasi una sorpresa. Fosse che stavolta ce ne va bene una, mi sono detto. L’entusiasmo che c’era all’Atlantico, la folla, la passione. Niente. E’ durato lo spazio di un sospiro. Siamo tornati al nostro livello abituale di masturbazione mentale nel giro di pochi istanti. Per non parlare di chi pur di affermare il proprio io fa liste alternative sapendo benissimo che non arriveranno mai a superare il quorum. Ma restiamo al tema.

Nell’ordine, abbiamo riempito queste settimane con le seguenti polemiche: all’assemblea c’era troppa gente; il nome Liberi e Uguali è maschile; il leader non è stato votato dall’assemblea; Grasso ha chiamato le donne foglioline; Grasso in passato ha elogiato Berlusconi; azzerare le tasse universitarie non è di sinistra; l’assemblea dei delegati (al nazionale) del Lazio non ha votato il mandato a Grasso per aprire un confronto sulla Regione, pur non avendo votato, però, era contraria; la Boldrini sbaglia a chiudere ai 5 stelle; Bersani sbaglia ad aprire ai 5 stelle; Grasso è troppo decisionista; Grasso non decide nulla, è ostaggio dei veterocomunisti; D’Alema non deve parlare di quello che succederà dopo le elezioni; D’Alema non deve parlare di programmi, ci dica cosa farà dopo le elezioni; D’Alema non deve parlare; D’Alema deve essere più presente non può fare solo la campagna elettorale in Puglia; sono troppi i parlamentari uscenti candidati nelle liste; le liste sono state decise tutte nelle segrete stanze; Liberi e Uguali nasce con tutti i vizi del passato, la base non conta nulla; in Liberi e Uguali c’è troppo assemblearismo (vedasi caso Lombardia); dobbiamo assolutamente convincere Anna Falcone a candidarsi con noi; la candidatura della Falcone è il tipico esempio dell’opportunismo in politica.

Ometto tutte le polemiche minori su questa o quella dichiarazione che non andava bene, ometto anche le sopracciglia della Boldrini (presidente diamo una sfoltita alla foresta, il riscaldamento globale non ne risentirà). Ometto anche le prossime polemiche sul materiale di propaganda che sarà sicuramente troppo generico, ma anche troppo prolisso, colorato, ma troppo pastello, per non parlare delle liste per le regionali sulle quali non oso pensare cosa riusciremo a tirare fuori. Sarà anche vero che i social hanno sostituito le pareti dei cessi e rappresentano una sorta di moderno muro bianco in cui ciascuno di noi tira fuori il peggio di sé, ma io credo che noi di sinistra ci mettiamo un nostro quid in più. Altro che fake news. Noi abbiamo una sorta di memoria selettiva che ci porta a ricordare solo gli errori, solo le sconfitte. Per cui Bersani diventa “quello che ha governato con Berlusconi”. Che non sia vero non importa. Il problema non è che qualcuno fabbrica notizie false contro di noi, ma che noi stessi siamo i primi ad amplificarle e fare un dramma di qualsiasi pisciatina di gatto.

L’ultima in ordine di tempo, vale la pena di soffermarsi un po’ sull’attualità, è quella sulla composizione delle liste per Camera e Senato. Ora, già parlare di liste è difficile, perché questa pessima legge elettorale ha inventato un meccanismo infernale, fra collegi uninominali, proporzionali, alternanza di genere, pluricandidature e via dicendo. Un meccanismo che, di fatto, impedisce qualsiasi tipo di consultazione della base. E se guardate bene anche chi ha detto di averlo fatto, come i grillini, guarda caso non pubblica i risultati con i voti ottenuti dai candidati e alla fine si è affidato ai vertici per riempire tutte le caselle. Abbiamo provato, con le assemblee regionali, a raccogliere proposte dalla base. C’è stata una grande disponibilità di tanti compagni a metterci la faccia, come si suol dire, anche in quei collegi uninominali in cui tutti ci danno perdenti. Non sarà una corsa inutile la loro. Perché il loro nome sarà quello più in evidenza sulla scheda. E conterà eccome avere candidati credibili in tutta i collegi d’Italia. Gente conosciuta, che aiuti a dare visi e gambe alle nostre liste.

Poi sono cominciate le normali fibrillazioni su questo o sul quel nome “paracadutato” dal centro sui territori. Apriti cielo. I giornali che abitualmente non ci si filano proprio, hanno immediatamente trovato spazio e pagine intere sono state dedicate alla rivolta della Calabria o all’insurrezione della Sardegna. Cortei di protesta in viaggio verso Roma, tessere che volano, sedi occupate. Succede sempre, in ogni elezione. Questa volta il tutto è esacerbato da due fattori. Il primo è sempre riferibile a questa legge che ha eliminato tutte le possibili forme di scelta da parte dell’elettore. Ti concede di fare una croce sul simbolo che hai scelto, niente più. Il resto è già deciso. Il secondo, purtroppo, deriva dalla nostra insufficienza, dal nostro essere lista elettorale e non partito. Per cui sei mentalmente portato a difendere “i tuoi” e se invece ti propongono un candidato che arriva da un’altra formazione politica o da un’altra storia la prendi come offesa mortale. Ci sono ancora problemi, è evidente. Alcuni errori che, spero, saranno corretti.

Dobbiamo fare i conti, però, con un fattore che non dipende da noi: il tempo. Febbraio ha 28 giorni, poi arriva marzo. E’ un attimo, questa campagna elettorale, purtroppo o per fortuna, durerà davvero poco. E per una lista appena nata, con un simbolo mai visto prima, è una corsa a ostacoli. Ora, faccio una profezia, nelle prossime ore le polemiche finiranno, presenteremo le liste, nel Lazio e in Lombardia avremo un supplemento di supplizio per quelle regionali, ma lì la pratica è relativamente più semplice perché c’è spazio per tutti, i guai cominciano dopo con la caccia alla preferenza. Una volta presentate le liste resterà qualche mal di pancia, ma avremo i candidati schierati al nastro di partenza. E che siano paracadutati, aviotrasportati, fanteria o cavalleria, possono pure arrivare dalla luna, ma devono battere il territorio metro per metro.

Qui subentra il mio personalissimo appello: abbiamo limiti evidenti, in questi mesi li abbiamo visti tutti. E credo che abbiamo anche gli strumenti per correggere questi limiti nell’immediato futuro. Senza fare sconti. Ma ora serve una moratoria di un mese. Io sono di vecchia scuola. Si discute e ci si scanna fino a quando non suona il gong. Poi si diventa soldati. Io la vedo così: per un mese i nostri dirigenti sono perfetti, i migliori che avremmo mai potuto sperare. Che nessuno degli avversari osi criticare i nostri candidati. Non ne esistono di più bravi, preparati. E, a dirla tutta, sono pure belli. Esagero, state tranquilli, non sono diventato del tutto pazzo. Qualcuno dei nostri non è bellissimo, lo ammetto.

Esagero per dire come la penso: facciamo un mese di campagna elettorale tutta proiettata all’esterno a far conoscere le nostre proposte, il nostro simbolo. Mettiamoci tutti la faccia. Io resto fiducioso sul risultato finale, il mio obiettivo resta quello di riportare in parlamento non tanto la sinistra, genericamente intesa, ma quella cultura socialista che da troppo tempo manca in Italia. Si può fare. Basta smetterla con le polemiche inutili che interessano soltanto a qualche appassionato di contese sterili, appunto. Armiamoci di scarpe comode, bandiere nelle strade, bussiamo alle porte di tutti, entriamo nelle case, come facevamo un tempo. Strada per strada, portone per portone. E facciamolo soprattutto lontani dai salotti buoni delle città. Torniamo a parlare con i deboli. Se vogliamo davvero ridare voce a chi non ce l’ha dobbiamo chiedergli il voto, come prima cosa. Sono sfiduciati, incazzati con noi? Hanno ragione. La nostra lista, secondo le ultime rilevazioni è più debole proprio fra i poveracci. E allora lì dobbiamo battere. Prendiamoci gli insulti, ammettiamo gli errori, proviamo a convincere quanti più elettori possibili. Vediamo se sappiamo ancora come si fa a stare nelle piazze e nelle strade dell’estrema periferia.

Anche perché, guardate che se va male sarà veramente triste: con chi ce la prendiamo nei prossimi cinque anni se non abbiamo più parlamentari da biasimare anche quando si soffiano il naso?

L’arte di prendere per il culo il popolo.
Il pippone del venerdì/40

Gen 19, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Lo so. A voi piace quando dedico questo spazio al taglio (spesso con l’accetta) dell’attualità politica, quando entro a gamba tesa nell’agone della quotidianità. Però il pippone non nasce per guadagnare like o portare lettori sulle mie tesi. Resta una specie di esercizio mentale che mi impongo, uno spazio nel quale soffermarmi a riordinare idee e provare a ragionare in chiave meno immediata. Si chiama pippone mica per scherzo. Vuole, anzi deve essere noioso e non sconveniente al tempo stesso.

E allora oggi vorrei partire da qui, dallo stato della politica italiana ridotta a cumulo di promesse senza senso, per capire l’origine di quanto accade. Il berlusconismo ha rotto ogni argine. Ormai “un milione di posti lavoro” lo dicono più o meno tutti, “più dentiere per tutti” sembra un ritornello di una canzonetta estiva. Insomma la gara è a chi le spara più grosse. Io non credo che sia solo questo però, il berlusconismo è l’effetto della malattia, non la causa. E’ il bubbone evidente, che va sicuramente inciso, ma l’incisione non risolve le cause profonde del degrado dell’offerta politica nel nostro paese.

Parto da un esempio concreto, ma solo per spiegarmi: ieri mattina, intervista mensile di D’Alema sul Corriere della Sera, ormai depositario dei pensieri del Max nazionale. Come al solito fa un quadro della situazione, condivisibile o meno ma sicuramente accurato, fa una previsione sul risultato delle elezioni, basato sulla concretezza sia pur effimera dei sondaggi non sulle fanfaluche della propaganda, poi spiega, in tutta crudezza che se non ci sarà, come è facile prevedere, un vincitore, servirà un “governo del presidente”, cioè un esecutivo che guidi il paese con spirito di servizio per una fase breve, con compiti limitati prima di tornare a votare. Una legge elettorale decente, ad esempio. Che magari ci dia una maggioranza alla fine dei giochi. Parrebbe una affermazione legata al buon senso. Eppure, nel giro di un battito di ciglia, si scatenano gli acefali: D’Alema farebbe meglio a stare zitto, non si dicono certe cose, siamo al solito inciucista.

Ora, non vorrei fare il solito difensore del baffetto, avranno anche ragione. Certe cose in campagna elettorale non vanno dette. Si fanno dopo. Evitando la partigianeria elettorale vorrei solo partire da qui per ragionare su come si sia estinta una cultura politica che univa al tempo stesso una visione sul futuro e la concretezza di un’analisi basata sulla realtà. La cultura dei Gramsci e dei Togliatti, ma anche dei De Gasperi e dei Nenni. Nel secolo scorso (sigh!) i partiti, non solo quelli che si rifacevano al socialismo, avevano una visione ideologica che gli dava una sorta di “cielo”, ma non dimenticavano la crudezza della situazione realtà e avevano una ricetta concreta per il presente, una specie di “terra” alla quale restare ancorati e nella quale mettere radici. Venute meno le ideologie, finite anche le visioni, ormai la dimensione della politica si è ridotta alla quotidianità. Una quotidianità alla quale manca dannatamente il cielo. Basta pensare ai giovani che sempre più si allontano dalla militanza: non hanno un sogno in cui identificarsi e i giovani hanno bisogno dei sogni, di una prospettiva visionaria, di identità. Venuti meno i grandi pensatori del ’900, i nani della nostra classe dirigente attuale hanno sostituito le idee con la pubblicità. E la politica da arte del governare è diventata arte del prendere per il culo il popolo. C’è chi lo vuole al potere e spesso schifa i quartieri che non hanno manco una sala da tè. C’è chi lo vuole felice e beota e lo rincoglionisce di termini inglesi per non fargli capire nulla. C’è chi gli promette ricchezze da mille e una notte.

Per questo i Corbyn, i Sanders sembrano giganti. Guardate che mica fanno niente di eccezionale. Parlano di socialismo, di una società del futuro che superi le ingiustizie del capitalismo e provano a rendere questo nostro cielo comune più terragno con proposte pratiche: niente tasse sull’università, ad esempio. Ha fatto discutere la riproposizione alle nostre latitudini dell’idea che in Gran Bretagna ha spopolato. Non entro nel merito, sul fatto che i diritti debbano essere universali ci sarebbe da scrivere un libro. Faccio notare che abbiamo per lo meno introdotto nel dibattito quotidiano un elemento che dà l’idea del futuro, di una nazione che non pensa solo al proprio egoistico oggi ma guarda per lo meno ai propri figli.

Ecco, tornare a coniugare sogni e realtà senza questa ipocrita confusione dei piani a cui assistiamo ogni giorno. E dunque: diritti universali – niente tasse sui diritti. Grasso, nel suo impacciato approccio mediatico, ha questa dote: farfuglia, ma ogni tanto ti butta lì un macigno. Ieri sera, rispondendo a una assurda contestazione sulla presunta irrealtà di una forte lotta all’evasione fiscale ne ha buttata lì un’altra, forse troppo in sordina: gli evasori fiscali sono ladri di diritti, ha detto.  A me questo concetto piace e credo che andrebbe sviluppato. Chi non paga le tasse fa in modo che tutti noi abbiamo meno diritti, meno servizi. Non è più dritto e quindi da imitare. E’ un ladro di diritti e deve finire in galera. Chi evade ruba i tuoi diritti. Che ne dite? Funziona come slogan? Secondo me sì, molto.

Il cielo e la terra si uniscono, non si confondono.

Io continuo a sostenere che la sinistra doveva prima di affrontare l’agone elettorale ritrovare il suo cielo. Riproporre una visione sociale e soprattutto socialista. Tornare ad affrontare il tema, il nodo, del superamento del capitalismo. Tornare a dire con forza che non possiamo acconciarci al meno peggio e vogliamo una società che abbatta la forma capitalista di produzione e organizzazione politica. Solo dove l’ha fatto con coraggio la sinistra sta superando la crisi che dura dal crollo del muro. Non abbiamo avuto né il tempo né il coraggio in Italia, ancora una volta abbiamo preferito una coalizione elettorale che, purtroppo, mostra i suoi limiti appena tocca prendere una decisione. Ora bisogna, come dire, scavallare il 4 marzo. Cercando di non arrivarci con troppe ferite. Poi verrà – lo spero – il momento di fare finalmente i conti senza l’assillo di dover conservare la poltrona a qualche parlamentare.

Lo so, sono troppo dalemiano. Penso alla concretezza dell’oggi e provo a trovare la maniera di superare le contraddizioni, a vedere se si arriva a domani. con la poca lucidità di cui sono capace.  Ma credo anche che di prese in giro siamo un po’ tutti stanchi, di pifferai magici ne abbiamo conosciuti tanti. Un po’ di sano realismo, secondo me, ha un suo fascino. A patto di tornare a vedere il cielo. Ovviamente biancazzurro! (E la battuta sarà anche fuori contesto, ma siamo quasi a domenica).

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