Archive from settembre, 2019

Non basta allargare il campo, serve una alternativa al capitalismo.
Il #pippone del venerdì/114

Set 27, 2019 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Mentre il nuovo governo va avanti verso la definizione della manovra economica, apparentemente senza troppi scossoni, il quadro politico continua a cambiare di giorno in giorno. Colpa (o merito) della scissione di Renzi da un lato e dell’attivismo di Salvini dall’altro.

L’ex presidente del Consiglio continua la sua campagna acquisti a destra e a sinistra, fino ad arrivare a lambire gli odiati (e la cosa era reciproca fino a poche settimane fa) 5 stelle. C’è da aspettarsi che le adesioni continuino in preparazione e soprattutto dopo la Leopolda. Il Pd cerca di tamponare l’emorragia (a quanto dichiarano solo di dirigenti), con le new entry Lorenzin e Boldrini e persevera così a voler essere un partito omnibus che può contenere tutto e il contrario di tutto, la cosiddetta vocazione maggioritaria. La Lega, da parte sua, cerca di capitalizzare il momento facendo man bassa di quel che resta di Forza Italia.

Insomma, niente di appassionante. Niente in grado di smuovere davvero le coscienze. In mezzo ci sono state la vergognosa risoluzione del Parlamento europeo che ha messo sullo stesso piano nazismo e comunismo dando un sonoro schiaffone alla storia, e l’appassionato intervento di Greta al vertice Onu sul clima. Questo sì davvero in grado di smuovere le coscienze. Proprio oggi ci sarà l’ennesima giornata di grandi mobilitazioni in tutto il mondo. Segno che questo è il tema su cui costruire il futuro, non altri.

Si è riaperto, nel frattempo, un interessante dibattito su cosa serva davvero per arginare la destra di Salvini e soci. Lo ha fatto con un lungo e interessante intervento Goffredo Bettini sul Foglio, nel quale dopo una lunga analisi sulla nostra società, arriva sostanzialmente alla conclusione che l’antidoto sia il rinnovamento del Pd e l’allargamento del campo. So che si tratta di una sintesi brutale, ma in fondo questo è proprio il mio lavoro. Per cui sono certo che Bettini mi perdonerà della brutalità.

La cosa che trovo curiosa è come partendo dalla stessa analisi (perfino dalle stesse letture direi) si possa arrivare a conclusioni opposte. Provo a procedere per punti, per essere più chiaro.

  • Siamo d’accordo sul fatto che non ci troviamo più nella società del novecento dove c’era un popolo, nel senso classico della parola. Un popolo organizzato nei partiti, nei sindacati, nell’associazionismo. La nostra società liquida ha teso via via a cancellare tutto questo e il popolo è diventato (o meglio tornato) a essere plebe, uno sciame indistinto pronto a infatuarsi per chi gli propone la scorciatoia più a portata di mano. Io continuo a essere convinto, però, che in altre parti del mondo una risposta la sinistra abbia cominciato a darla, non solo in termini di mera resistenza. Se in Italia questo non è successo non è un accidente della storia. Al contrario: abbiamo pensato di immergerci nella società liquida smantellando il nostro sistema sociale e cercando di nuotare nella corrente. Pensavamo di essere squali, eravamo solo lucci. Pesce famoso per abboccare all’amo. Dobbiamo trovare il modo di navigare nella società liquida oppure costruire isole e farle diventare continenti? Io sono per la seconda ipotesi.
  • Se partiamo da questo presupposto non basta dire che dobbiamo tornare dal popolo e stare “nel” popolo” soprattutto quello brutto e cattivo. Questa ovviamente è una precondizione. Se ci ostiniamo a pensare che abbiamo ragione noi e tutti gli altri sbagliamo ci ritroveremo a essere sempre meno, perfino negli argentati salotti romani. Quella che un tempo si chiamava “la proletarizzazione” delle classi dirigenti, però, non è la soluzione, ma solo il primo passo nell’individuazione del male.
  • La prima soluzione offerta da Bettini è quella di una risposta alla crisi della società in termini di proposte innovative. Il dirigente democratico individua nella giustizia la prima forma di protezione sociale e su quella punta. E poi servono risposte sui temi più “caldi”, quale famiglia, quale sistema di formazione, quale idea di patria e di Europa, quale piano per il mezzogiorno. Questo per lui è il compito che deve svolgere il Pd, partito che una volta tolta la zavorra renziana, avrebbe tutte le carte in regola per essere alla guida di questo sforzo programmatico che vada oltre la quotidianità e contribuisca a definire insieme quelli che Bettini stesso ha più volte definito il “cielo” e la “terra”, ovvero un quadro culturale e ideale in cui muoversi per affondare le proprie radici.
  • La seconda, che ne dovrebbe essere la diretta conseguenza, è l’allargamento del campo. Sostanzialmente andare oltre lo steccato di un nuovo Ulivo da Fratoianni a Calenda, mischiare gli elettorati di centrosinistra (senza trattino) e dei 5 stelle e prepararsi allo scontro elettorale. Un campo largo (uso non a caso la definizione cara a Bettini) in grado di costituire l’antidoto al populismo e al sovranismo che con la crisi di governo e la successiva soluzione sembra vivere una provvisoria battuta d’arresto.
  • Secondo il mio modesto avviso si tratta di un’analisi, credo che nessuno si offenderà, intrisa di quell’umanesimo tipico dell’ultimo periodo di Ingrao, affascinante ma senza soluzioni. Si tratta, infatti, di una corrente di pensiero in grado spesso di disegnare un quadro ampio, di vedere ben oltre l’oggi, ma purtroppo piuttosto sterile quando si tratta di passare alla proposta.

Cosa manca in tutto questo? Una constatazione che credo sia il punto vero da cui ripartire: il capitalismo, nelle forme in cui si è realizzato, è incompatibile non soltanto con l’idea di giustizia che abbiamo tutti in comune nella sinistra. No, è incompatibile – o almeno lo sta diventando – con l’esistenza stessa del genere umano. Non solo si acuiscono intollerabili differenze sociali, si sta mettendo a rischio la “casa terra”. Se la sinistra partisse da questo punto e provasse non a dare le pur necessarie soluzioni al problema del mezzogiorno, ma a disegnare un orizzonte ideale in cui la necessità di superare l’attuale sistema di produzione sia il punto centrale, forse sarebbe più facile sedersi a un tavolo e discutere con quali forme possiamo tornare a parlare a quel popolo che ci vede non solo distanti, ma nemici. E allora anche la questione del campo largo o meno, avrebbe una rilevanza minore. Perché non ci sarebbe più a unirci soltanto la ricerca della vittoria elettorale, ma una nuova società da costruire. Solo allora potremo archiviare i vari Renzi che non sono accidenti capitati per caso, ma frutto della nostra resa degli anni ’90 del secolo scorso.

Rientrare nel Pd non serve a nessuno.
Il pippone del venerdì/113

Set 20, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

I commentatori, ma anche diversi leader politici a partire dallo stesso Renzi, danno per scontato che l’uscita dell’ex segretario dal Pd coincida con il rientro delle truppe “rosse” di Bersani e D’Alema. Ora a parte che dipingerli come pericolosi estremisti pare un’operazione davvero eccessiva. Stiamo parlando sempre dell’ex presidente del Consiglio che, per primo in Italia, sposò le tesi di Blair e dell’ex ministro famoso per le lenzuolate di liberalizzazioni. Due leader che nella loro carriera politica sono stati ampiamente criticati proprio da quella sinistra cosiddetta radicale che li ha a lungo osteggiati. Anche con qualche ragione. Due riformisti doc, insomma. Se poi cantano bandiera rossa (anche se l’immagine di D’Alema che canta non regge un granché) lo fanno magari per ricordare la gioventù, forse anche con qualche nostalgia, ma di sicuro per loro quella del comunismo non è una prospettiva politica. Ma questo è un altro discorso, sapete come la penso.

Detto questo, al momento, l’unica che ha annunciato la sua adesione al Pd è l’ex Forza Italia Beatrice Lorenzin. Affascinata dal carisma di Franceschini, dicono, interessata comunque a rafforzare la componente di centro che, malgrado quello che appare all’esterno, è sempre più la vera pietra attorno alla quale ruota tutto il partito. Senza Franceschini, mi pare ormai evidente, non si governa quel partito e non si vincono le primare.

Il vero ragionamento che si dovrebbe fare – qualcuno timidamente ci prova – è se l’attuale offerta politica presente in Italia rappresenti l’elettorato. E qui si può aprire un ragionamento serio. Al momento, e gli ultimi partiti nati o nascenti rappresentano bene questa situazione, vanno di moda i leader più che i partiti. E’ un po’ la rappresentazione plastica di quello che scrivevo nell’ultimo pippone la settimana scorsa. La conseguenza della vittoria della cultura berlusconiana che ha scassato i corpi intermedi si riflette nella costituzione di forze politiche in cui conta solo il leader. In suo nome nascono, dopo di lui muoiono. Il partito di Renzi, quello di Calenda, quello di Toti, ma anche se vogliamo Fratelli d’Italia della Meloni e ancor più la Lega di Salvini, contano per quello che dice il leader. All’estremo opposto stanno i 5 stelle, dove, almeno a parole, si vorrebbe praticare una sempre più spinta forma di democrazia diretta che travalica il concetto stesso di partito. Poi, alla fine, comanda sempre Grillo, ma la teoria di Casaleggio (padre) andava proprio a colpire l’essenza stessa della democrazia rappresentativa che, a suo dire, andava sostituita da una consultazione continua del corpo elettorale, rendendo superflue le forze politiche tradizionali. Semplifico, ma alla fine il concetto è questo.

Il Pd stesso, lo ha spiegato bene Renzi nell’intervista dell’addio, nasce con il presupposto del partito carismatico, dove il leader viene scelto attraverso le primarie aperte e il ruolo dei militanti viene declassato a meri cuocitori di salsicce nelle feste estive. Portatori d’acqua senza alcun diritto di scelta in più rispetto ai semplici elettori. E infatti gli iscritti calano e le  feste non si fanno quasi più.

La domanda da porsi allora non è se la sinistra di Speranza e Bersani rientrerà o meno nel Pd. Anche perché non si capisce bene, in termini meramente numerici, quale spostamento a sinistra potrebbero determinare in un partito dominato dai centristi alla Franceschini, uno che con i numeri ci sa fare e parecchio. La vera domanda da porsi è se questo schema basato sui partiti personali sia la conseguenza ineluttabile del nostro modello sociale (del resto avviene un po’ in tutto il mondo) oppure se ci sia un mare aperto da navigare a patto di attrezzarsi con la barca giusta. E qui l’esperienza di D’Alema una mano vera la potrebbe dare.

Ovvero: nel mondo di oggi siamo destinati a dare unicamente la fiducia a leader che manco ci dicono cosa vogliano fare, oppure c’è una strada alternativa? Sarà anche vero che destra e sinistra non esistono più, ma rimangono – e sono sempre più drammatiche – quelle diseguaglianza che sono alla base della nascita stessa della sinistra. E’ una domanda alla quale occorre dare una risposta anche in tempi rapidi. L’argine all’avanzata delle destre estreme che in questo momento è rappresentato dal governo Conte2 regge se gli si dà un orizzonte culturale, una mission. Altrimenti, a maggior ragione dopo la scissione di Renzi, sarà un governo in balia dei voti parlamentari, una scialuppa alla mercé delle onde bizzose del leader di turno.

E in questo quadro sta alla sinistra, sia pur socia minoritaria nella maggioranza, provare a dare un timone certo alla scialuppa. Altrimenti non arriveremo mai alla terra ferma.

Quindi la domanda, alla fine, non è se valga la pena rientrare o meno nel Pd. Ma se Zingaretti riuscirà a smarcarsi dal suo ruolo di tacchino designato e diventare il protagonista di un cambiamento vero nel campo politico nazionale, aprendo una vera fase costituente. Non di un nuovo partito che rimescoli un po’ le carte esistenti. Bisogna  aprire un cantiere vero che metta al centro non tanto le idee sul da farsi quotidiano, ma la costruzione di un nuovo orizzonte culturale. In questo quadro sì, allora sarebbe suicida per i vari Speranza, ma anche Fratoianni e spezzatini vari, stare alla finestra e non partecipare. Io non credo che ci siano le forze necessarie. Lo dico senza eufemismi. E francamente non me la sento di mettermi al servizio di un progetto che non abbia questa ambizione: interrompere la stagione dei partiti carismatici da nascono e muoiono in funzione del capo e riaprire un percorso di elaborazione culturale ancor prima che politica. Una grande stagione che ponga al centro i temi del socialismo e dell’ecologia che non possono essere più trattati su piani differenti e che abbia come scopo quello della costruzione di una grande forza laburista in Italia. Se si parte da questo e non dalla ricerca del leader a tutti i costi forse una speranza ce l’abbiamo anche noi. Staremo a vedere.

Siamo stati a un passo dai pieni poteri. Ricordiamolo.
Il pippone del venerdì/112

Set 13, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Finita la sbornia del totoministri, del totoviceministri e del totosottosegretari, una roba che al confronto il calciomercato sembra un film avvincente, sarà il caso di prendersi un attimo di pausa, riaccendere il cervello e capire la fase drammatica che abbiamo vissuto e quello che serve per lasciarsela alle spalle.

Lo diceva benissimo in un editoriale su Repubblica Ezio Mauro giusto ieri. Anche se va considerato una voce isolata in un gruppo editoriale che, giorno dopo giorno, non manca di manifestare tutta la sua contrarietà al patto fra Democratici e Cinque stelle. Lo stesso Mauro, del resto, avverte fino in fondo la fragilità di un accordo che fatica a diventare alleanza stabile. Ci vorrà del tempo per capire quale delle due strade prenderanno: accordo occasionale o strutturale? Ci vorrebbe la palla di vetro. Le regionali in Umbria, Emilia e Calabria, ma anche un possibile allargamento della maggioranza nel Lazio, saranno il primo vero banco di prova.

La cosa certa è che il Conte 2 nasce per reciproche convenienze occasionali. I 5 stelle, pur avendo provato da vicino quanto sia scomodo il Salvini di governo, hanno baciato il rospo Pd solo per paura di vedersi più che dimezzati da uno scontro elettorale ravvicinato. I renziani idem. Zingaretti, al contrario, ha dovuto cedere alla maggioranza del suo partito che, malgrado i proclami del segretario, di affrontare le urne in questa situazione non ne voleva proprio sapere.

Il punto fermo da cui partire deve quindi essere chiarito: non abbiamo solo rinviato le elezioni facendo nascere questo governo un po’ rabberciato e fatto da presunti alleati che si insultavano fino a due minuti prima. Abbiamo bloccato o quanto meno messo una zeppa nelle ruote di un meccanismo che Salvini ha evocato benissimo parlando di “pieni poteri”. Ovvero lo svuotamento di quel sistema liberale sancito dalla Costituzione con la sua architettura di pesi e contrappesi fra i poteri, per arrivare a una democrazia apparente, dove il Parlamento sia soltanto un orpello da convocare quando serve per ratificare decisioni prese altrove. E dove gli altri poteri siano assoggettati all’esecutivo. Quanto è successo in quest’anno nei rapporti fra il ministro dell’Interno e la magistratura dovrebbe insegnare qualcosa. Fino all’elezione diretta del Capo dello Stato che, senza una architettura costituzionale appositamente costruita, vorrebbe dire una roba tipo la Russia di Putin, dove alle elezioni si eliminano direttamente i candidati delle opposizioni.

Quello che Mauro non dice, ma credo lo abbia ben chiaro, è che Salvini non è un incidente di percorso della storia, una specie di guappo che furbescamente ha cercato di capovolgere un sistema solido e in salute. Al contrario, il Capitano è la faccia ultima, forse la peggiore, di un lungo percorso. Si parte da Tangentopoli che, è evidente al di là del giudizio di merito, travolse una intera classe dirigente. Non si tratta di dire se fu giusto o no. I processi si fanno nelle aule dei tribunali e si sono conclusi da tempo. Ma il risultato fu un che un Paese ingessato dal dopoguerra agli anni ’90 del secolo scorso, si scoprì all’improvviso bisognoso di un cambiamento totale.

Al di là del fatto che la sinistra sia arrivata più o meno al governo per lunghi anni nella fase successiva, il vero protagonista di quella fase è stato Berlusconi. Non tanto e non solo il personaggio, ma per quello che ha rappresentato e che ha finito anche per sconvolgere il sistema di valori a cui la sinistra aveva affidato le sue speranze. Il berlusconismo ha rappresentato in Italia una vera e proprio rivoluzione culturale caratterizzata dalla repulsione per i riti della democrazia e per i corpi intermedi. Siamo come tornati indietro agli anni 20, quelli della confusione e del miraggio dell’uomo forte come risposta ai problemi. “Ci vuole ordine”, dicevano i capitalisti di inizio ‘900 rispondendo alle istanze che arrivavano dal proletariato (parliamo di un secolo fa, il termine è più che legittimo, non datemi del vecchio comunista).

Questa rivoluzione culturale, dicevamo, ha profondamente cambiato la nostra società: alla fine del percorso i partiti sostanzialmente non ci sono più, i sindacati sono in gran parte ridotti a patronati per l’assistenza fiscale, tutto quel mondo ricco dell’associazionismo che tanta linfa aveva dato al rinnovamento della nostra democrazia, si è rinchiuso nella asfittica dimensione del volontariato. Siamo una società più povera, più divisa, fatta di “isolati” spesso anche rancorosi.

Mettiamoci anche che, allo stesso tempo, paghiamo anche il prezzo di una globalizzazione che non abbiamo saputo né comprendere, né, tanto meno, governare e arriviamo alla  conclusione che Salvini è la prosecuzione in forme differenti di questo processo, non la sua negazione. Solo partendo da questo ragionamento e quindi dalla consapevolezza di quanto sia complicato il compito che abbiamo davanti (abbiamo in senso lato), si può provare a ragionare su come si esce da questo “loop” e come si torna a pensare di costruire un modello sociale differente, io direi anche  socialista. Ma di questo parliamo le prossime settimane. Per il momento fermiamoci qui, sperando che nei partiti della nuova maggioranza (mi rifiuto di chiamarla giallorossa, anche perché, sportivamente parlando, porta anche un po’ male) si diffonda questa consapevolezza sul delicato momento storico che stiamo vivendo e ci si attrezzi di conseguenza. Nutro qualche speranza residua sul Pd, un po’ meno sui 5 Stelle che, negli anni passati, sono stati anzi acceleratori della deriva autoritaria. Ma, avendola subita sulla loro pelle per un tratto di strada, magari anche loro potranno avere qualche sussulto democratico.

L’unico governo possibile, sperando che basti
Il pippone del venerdì/111

Set 6, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Insomma, abbiamo il governo, che non sarà un dream team, ma del resto in giro tutti questi fenomeni della politica non ci sono. Dicono che sia il governo più di sinistra nella storia d’Italia. Ora, non so se sia vero, quello che è certo è che la sinistra, ancora una volta si fa carico del Paese in un momento molto difficile.

Difficile resistere alla tentazione di dire che ve lo avevo detto, che ad agosto era meglio andare in vacanza e dimenticarsi della politica. Una lezione che farebbe bene ad apprendere il capitano Salvini, che ha messo insieme le due cose, arrivando a perdere nel giro di pochi giorni non solo tutto il potere faticosamente accumulato nel giro di anno, ma – cosa per lui ben più grave – perde il mito di invincibile che si era costruito inanellando una vittoria elettorale dopo l’altra. Regione dopo Regione, per arrivare al picco delle Europee, Salvini aveva trasformato la Lega da movimento locale a partito in grado di vincere ovunque, perfino nel profondo sud da cui, fino a pochi mesi prima, avrebbe voluto addirittura la secessione. Devono essere stati fatali i troppi cocktail.

Ha vinto troppo, si potrebbe chiosare, e si è montato la testa. Ora lo aspetta una – speriamo lunga – traversata nel deserto da cui potrebbe anche uscire come un pollo spennato. Ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza. Bisogna tornare a governare l’Italia dopo un anno vissuto più sugli annunci, sui manifesti politico-ideologici trasformati in leggi bandiera, che sui provvedimenti in grado di incidere davvero sulla crisi del nostro Paese. Ha ragione Zingaretti, compito di questo nuovo esecutivo è chiudere la stagione dell’odio.

Sulla nuova alleanza Pd-M5s non voglio tornare neanche troppo a lungo. Da tempo – posso quasi vantare una primogenitura dopo l’intuizione di Bersani (se gli dessimo retta qualche volta…) – vado in giro dicendo che la sinistra e il Pd potevano tornare a concorrere per la vittoria soltanto spaccando a martellate l’asse fra Di Maio e Salvini e riportando il movimento fondato da Grillo alle sue origini. Origini  che, pur con tinte miste di populismo e democrazia elitaria, non potevano che essere nella lunga crisi vissuta dalla sinistra italiana. La tematica dei beni comuni, i diritti sociali e civili, una nuova stagione di sviluppo legata al rispetto e alla conservazione dell’ambiente, solo per citare alcuni degli argomenti che i grillini delle origini agitavano come loro bandiera esclusiva, sono i temi con cui la sinistra in tutto il mondo sta facendo i conti. E solo uscendo dall’equivoco bastardo della mitigazione del neo liberismo si torna a essere percepiti come punto di riferimento.

Certo, si poteva fare un anno e mezzo fa. Non sto a dire è colpa di questo o di quello. Certo, dopo la disfatta elettorale delle politiche, il Pd c’ha messo troppo a metabolizzare il nuovo quadro politico. Ci si è baloccati con qualche zero virgola in più in qualche tornata elettorale, ma per tornare in campo davvero c’è voluta la cantonata agostana di Salvini. Solo quando si è aperto lo spiraglio, e anche in questo caso con tempi di reazione davvero troppo lenti, si è riusciti ad aprire lo sguardo e a capire che davvero le elezioni in questa fase era l’ultima cosa che si poteva concedere.

Del resto la politica è una cosa semplice: se il tuo avversario vuole una cosa è il caso di cercare di fare l’esatto contrario. Per capire questo principio elementare, per arrivare a quella conclusione che fra i comuni mortali era data per ovvia, c’è voluta la discesa in campo di tutti o quasi i padri nobili del Pd. E c’è voluto il via libera preventivo di Renzi, che al contrario si muove sempre con grande rapidità anche nelle conversioni a U, per mettere in moto le diplomazie e riaprire la partita.

Ora, dicevo, il Conte bis non sarà il governo dei sogni, ma segna alcuni punti secondo me molto interessanti. Il primo è il ritorno dopo tempo immemorabile di un politico puro all’Economia. Un professore di Storia, che però ha presieduto una commissione economica al Parlamento europeo e proprio per questo può essere in grado di far tornare l’Italia a quel tavolo delle decisioni europee da dove siamo stati esclusi per troppo tempo e in una fase davvero cruciale. Del resto l’Europa non potrà che guardare con occhio benevolo e attento al nostro ritorno fra i paesi che considerano l’Unione come l’unico approdo possibile. Togliere un grande paese, come siamo nostro malgrado, dalla lista di chi rema contro e si muove con minacce e ritorsioni, aiuta il processo di crescita di tutta la Ue.

Avrei voluto, lo confesso, un politico puro anche al Viminale. Ma del resto sono comprensibili le apprensioni del presidente Mattarella che ha avvertito e credo “caldeggiato” (diciamo così) la necessità di riportare alla normalità democratica un ministero delicato che in quest’anno e mezzo è diventato un po’ coatto, come diciamo a Roma. Una macchina che è andata spesso fuori giri deve tornare a lavorare normalmente. Nulla di meglio, dunque, che un prefetto esperto come Lamorgese, nota tra l’altro per le sue vere e proprie battaglie per difendere i diritti dei migranti dalle sparate leghiste, che sarà in grado di tranquillizzare i dirigenti del ministero, riportando la situazione sotto controllo senza essere vista come un corpo estraneo.

Bene anche il ritorno in campo di Leu: faccio notare che si era rotta l’alleanza sul no di Sinistra italiana a un rapporto organico con il Pd, ma appena si è intravista l’opportunità di un governo nuovo tutti i no sono spariti d’incanto. Sarebbe il caso di riprendere il percorso, ma temo che le ambizioni personali saranno ancora una volta un macigno inamovibile. Bene, ovviamente, il ministero della Salute assegnato a Roberto Speranza. Quello del rilancio della sanità pubblica era uno dei nodi centrali del nostro programma, potremo provare a fare qualcosa da attori protagonisti.

Mi lascia qualche dubbio, anche visti i suoi precedenti, lo spostamento di Di Maio agli Esteri. Sembra più che altro un premio di consolazione. Speriamo che resti ingabbiato nelle rete che si potrà costruire fra Amendola, inviato da Zingaretti agli Affari Europei, Gentiloni, che andrà a fare il commissario dell’Unione europea probabilmente con responsabilità proprio degli affari economici, e, appunto, Gualtieri che dal Mef avrà una posizione privilegiata per poter incidere sulla nostra politica estera.

Ultima considerazione su Zingaretti che, dopo aver toppato l’avvio, si è rimesso in carreggiata e ha preso pian piano il centro della scena da segretario vero. Ha delegato agli esperti (Franceschini in primis) la conduzione quotidiana della trattativa, intervenendo puntualmente per eliminare le mine che si sono presentate via via in questo travagliato mese di tira e molla continuo. Ha ceduto su alcuni punti mirando al bersaglio grosso: riuscire a costruire questo governo non con un contratto fra estranei ma con un programma comune che fa ben sperare. E ha portato a casa ministeri di sicuro rilievo. Ora si tratta di procedere giorno per giorno verso un’alleanza strutturale e non più imposta dalle circostanza.

Insomma, a Salvini gli eccessi sulle spiagge italiane potrebbero davvero costare cari. Sta al nuovo governo Conte lasciarlo a rodersi il fegato. Del resto a settembre si torna dal mare e gli stabilimenti si apprestano a chiudere. Lasciamoci alle spalle anche quest’anno e mezzo che ha spezzato le coscienze, aumentato le fratture nella nostra società e cominciamo a ricostruire. Si può fare. A patto che sia davvero il governo della discontinuità, ma non solo con il passato recente.

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