Archive from febbraio, 2019

Il giorno in cui i grillini persero le stelle.
Il pippone del venerdì/89

Feb 22, 2019 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Sono diventati normali, non sono più gli extraterrestri che pochi anni fa si presentarono con la scatoletta di tonno in Parlamento. La via che li ha portati alla normalità è un po’ strampalata a dire il vero, ma la scelta di votare contro l’autorizzazione a procedere per Salvini, ha decisamente normalizzato i 5 stelle.

Via strampalata, dicevo. Sì, perché affidare una decisione che si dovrebbe basare su uno studio rigoroso degli atti a una votazione online appare davvero curioso. Un po’ una roba da tribunale del popolo. Sia pur ampiamente pilotato dall’esposizione personale del gemello di Salvini, quel Di Maio che, seppure traballante dopo sondaggi in calo e il disastro abruzzese, resta il “capo politico” del fu movimento.  E quando chiami uno “capo” e non segretario o presidente o coordinatore mica puoi metterti a discutere: si ubbidisce.

Malgrado questo percorso che fa sobbalzare sulle sedie chi, come me, è legato al dettato costituzionale dell’assenza di vincolo di mandato per gli eletti, il M5s ha scelto di rompere la barriera più grande che aveva inventato per differenziarsi dalla politica tradizionale. Mai più immunità, dicevano, anche se innocenti ci si difende in sede processuale e non in Parlamento. Dicevano che quella era la Kasta che proteggeva sempre se stessa, in un patto non scritto che per decenni ha retto, portando le Camere a respingere quasi sempre le richieste di autorizzazione a procedere.

Ora il dado è tratto, sono diventati normali. Hanno perfino le correnti e i vari capetti che litigano fra di loro. Votano secondo convenienza politica e non secondo la loro bibbia storica: era evidente a tutti che il sì all’autorizzazione per Salvini avrebbe messo a rischio l’esistenza stessa del governo. E una crisi al buio, in una fase in cui i loro consensi sono in calo, non se la potevano davvero permettere. Di Maio, che della compagine è il vero democristiano, ha capito che una volta imboccata la strada della normalità tanto valeva percorrerla fino in fondo. E così il M5s diventerà un partito vero e proprio. Sempre senza democrazia interna, questo pare ovvio, ma più strutturato, con coordinatori locali che rimettano insieme il sistema dei meetup e provino a far piantare radici nei territori al movimento. Cade anche il veto sulle alleanze per le elezioni amministrative. Viene perfino ridiscussa la regola delle regole, quella dei due mandati a tutti i livelli. Ora potranno farne paio in un Comune e altrettanti in Parlamento o in Regione.

Sia pur con timidezze e cautele, insomma, si avviano perfino a un tentativo di formazione di una classe dirigente. C’è, senza dubbio, la “ragion pratica”: con il vincolo assoluto del doppio mandato, rischiavano di perdere sindaci, volti noti, gran parte dei parlamentari. Tutta gente pronta a portare sotto altre bandiere la popolarità guadagnata in questi anni. Non c’è ancora una piena consapevolezza della necessità di un percorso di crescita anche in politica, per cui è necessario fare gavetta prima di arrivare ad alti livelli senza combinare disastri, ma alla fine arriveranno anche a questo.

Ora si tratta di capire come questa raggiunta “normalità” dei 5 stelle influirà sul loro consenso. Di certo non mi pare che una campagna da parte dei partiti di opposizione basata su questo punto possa avere un qualche successo. Perché, qualsiasi cosa facciano i grillini, gli altri l’hanno fatta prima. E quindi la normalità potrà anche sottrarre consenso a Di Maio, ma non lo riporta di certo sul Pd o su Forza Italia.

Il punto, secondo me, è un altro. Gli italiani hanno vissuto due fasi storiche decisamente opposte dal secondo dopoguerra a oggi. Nella prima Repubblica siamo stati il più conservatore dei popoli: gli spostamenti fra un’elezione e l’altra si limitavano ai decimali. Quando un partito aumentava di un punto percentuale si gridava al trionfo. In caso opposto si parlava di crollo. Con il crollo di quel sistema politico siamo diventati, al contrario, ansiosi di novità, sempre pronti ad assecondare chi faceva del cambiamento la propria bandiera. E’ successo con Berlusconi. Salvo poi prendersi una pausa rassicurante con il faccione emiliano di Prodi. E’ successo, sia pur per una stagione brevissima, con Renzi. Poi è stata la volta di Grillo e dei suoi: nel giro di una legislatura o poco più sono passati dalla marginalità all’essere il perno dell’intero sistema politico.

Riusciranno adesso a restare a galla nell’onda di riflusso? Io credo che l’intuizione di Di Maio, in realtà sia questa: quando il consenso sale puoi anche basarti esclusivamente sulla rete, ma quando l’onda torna indietro, per resistere devi essere un partito. Avere una base definita, che ti permette di aspettare che torni il tuo turno.  Faranno in tempo? C’è da sperarlo, perché nell’abulia della sinistra e in mancanza di una prospettiva davvero nuova, il prossimo messia, allo stato delle cose, è Salvini. E manco oso pensare cosa potrebbe arrivare dopo di lui.

Della sinistra, questa settimana, meglio non parlare proprio. Sono occupati a partorire le solite due o tre liste unitarie per cui ci scazzeremo e alla fine voteremo stancamente. Finirà male. Inutile spendere altre parole.

Mica ho capito tutta ‘sta esultanza per l’Abruzzo.
Il pippone del venerdì/88

Feb 15, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Vabbeh che siamo alla canna del gas per cui qualsiasi pallido segnale di esistenza in vita diventa un grande successo, ma io davvero non capisco le dichiarazioni che sono uscite in questa settimana dopo l’ennesima sconfitta elettorale del cosiddetto centrosinistra. Certo, in Abruzzo siamo arrivati secondi e non terzi come succede spesso. Come dire, invece che perdere 4 a zero abbiamo preso soltanto due gol. Sempre “zero tituli” fanno, volendo rimanere nell’ambito delle citazioni calcistiche.

Il risultato delle elezioni regionali in Abruzzo è l’ennesima prova del fatto che usando questo schema siamo condannati a perdere. Al massimo ad arrivare secondi. Ma la distanza con la destra, sempre più a trazione leghista, resta abissale. “Beh, ma abbiamo recuperato”, dicono. E in effetti tutti insieme, ma proprio tutti, arriviamo al 30 per cento. Alle politiche era poco più del 20. Il Pd arriva appena all’11 per cento, Leu si ferma al 2,8. Più 0,1 rispetto a un anno fa. Il resto lo raccolgono liste civiche. Non credo di essere lontano dal vero se scrivo che allo stato attuale delle cose questo schieramento non è più maggioranza in nessuna regione italiana. Temo che ne avremo la riprova a breve, in Sardegna prima e in Basilicata poi. E il voto in fuga dai 5 stelle torna di corsa nell’astensione, se va bene, altrimenti si sposta direttamente sulla Lega. Non c’è nessun recupero in vista.

E questo avviene in una competizione dove l’unico candidato credibile era il nostro Legnini. Ha vinto Marsilio, di Fratelli d’Italia, noto più che altro per le sue frequentazioni romane, di Colle Oppio per la precisione, catapultato in Abruzzo per equilibri fra i partiti a livello nazionale. Insomma, non ci votano proprio in nessun caso. Sarebbe forse il caso di chiedersi perché, invece di esultare e inneggiare a non si capisce bene quale futuro di vittorie.

Per quanto mi riguarda resto convinto di alcuni elementi. Anzi questa tornata elettorale rafforza ancora di più queste mie personalissime convinzioni. Intanto, al netto delle liste civiche che comunque non sono automaticamente sommabili ai partiti nazionali, il declino del Pd continua inesorabile. Anche in un periodo di sovraesposizione dovuta all’infinito congresso che stanno svolgendo. Non faccio raffronti con le precedenti regionali, perché sarebbero davvero impietosi, ma anche rispetto alle politiche siamo quasi a meno 3 per cento. Se qualcuno pensava avessero toccato il punto più basso possibile, insomma, si mettesse l’anima in pace. E lo stesso appeal di Zingaretti, ormai sicuro vincitore delle prossime primarie, non sembra in grado di smuovere le masse popolari.

Il secondo dato che a me pare evidente è che dobbiamo smetterla di pensare a costruire coalizioni raccogliticce e pensare a noi stessi. Ricominciare da una forza di sinistra, ecologista e socialista, che non sia l’ennesimo cespuglietto senza popolo, ma sia in grado, al contrario, di essere polo attrattivo nei confronti della galassia di partitini esistenti. E questa forza non potrà essere un partito tradizionale, ma dovrà necessariamente tenere conto del tempo che viviamo. Faccio un esempio concreto: la grande manifestazione sindacale della settimana scorsa. Sicuramente ci ha fatto bene. Ma come viene tradotta quella spinta in rappresentanza politica? Possiamo ancora permetterci di ragionare per compartimenti stagni (da un lato i sindacati, dall’altro i partiti) o dovremmo abituarci a pensare nuove forme di connessione, organizzazioni ibride, come ha scritto giustamente Michele Prospero? Costruire un partito, dunque, ma con l’obiettivo di costruire una rete sociale ampia.

Il dato dei voti a sinistra resta miseramente ancorato al risultato di Leu alle politiche. Anche questo in realtà è sorprendente. Dopo quasi un anno di disastri c’è ancora qualche ostinato che ci dà fiducia. Malgrado noi, viene da dire. Roba da Tso. E’ evidente però che senza una forte “gamba” di sinistra, qualsiasi alleanza futura si possa ipotizzare è destinata alla mera partecipazione. Di vincere non se ne parla proprio.

In ultimo resto molto dubbioso se sia proprio necessario riproporre ogni volta il famoso centrosinistra. La formula non è sufficiente. Facciamocene una ragione. Non lo è quando si vota con il doppio turno, perché anche se arriviamo al ballottaggio si coalizzano tutti contro di noi. Non lo è, come in questo caso, quando si vota con il turno unico perché arriviamo secondi, se va bene. Non lo è a maggior ragione quando si vota con il proporzionale perché in quel caso le alleanze si fanno dopo il voto, non prima. Sarebbe, infine, il caso di pensare bene, proprio perché si vota con il proporzionale puro, a cosa facciamo per le Europee. Nel mio piccolo ribadisco fin d’ora che un listone da Calenda a Bersani non lo voto neanche sotto tortura. Credo non lo votino neanche Calenda e Bersani, tra l’altro.

L’unica strada, con questi numeri, è riaprire un dialogo con il M5s. Saranno lontani da noi come cultura politica, il loro fideismo ci urta il sistema nervoso centrale, sta cosa della lotta alla kasta non si può sentire… Però se i nemici da battere sono il liberismo e la derivata nostrana in salsa leghista, credo che il programma originario dei grillini non sia neanche tanto lontano da quello che pensiamo noi. Lo stesso reddito di cittadinanza, sia pure fatto male, è una forma di redistribuzione della ricchezza alla quale non possiamo continuare a dire solo no. E fra le colpe del Pd ci metto anche aver consegnato una forza con la quale si poteva davvero lavorare nelle mani di Salvini.

Detto questo: sabato e domenica vado a “Ricostruzione”, ovvero il lancio della nuova formazione proposta da Speranza e soci. E’ poco, con troppe ambiguità e troppe timidezze. Ma da un punto fermo bisognerà pur partire. Vediamo che succede.

Due o tre cose sulle elezioni europee.
Il pippone del venerdì/87

Feb 8, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

O si va avanti tutti insieme o non va avanti nessuno. Era uno slogan di una vecchia campagna di tesseramento alla Cgil, negli anni ’50 del secolo scorso. E nel marasma senza forma della politica attuale suonano davvero lontane e allo stesso tempo sempre più attuali. Non da ora credo che il sindacato sia l’ultimo baluardo della nostra democrazia. Che non è costruita sul rapporto diretto fra governanti e cittadini. Il nostro sistema costituzionale non considera il voto come unico strumento di controllo del popolo sul potere legislativo. Tutt’altro. La nostra Costituzione considera come elemento centrale della democrazia la partecipazione continua dei cittadini alla vita dello Stato. Lo strumento individuato sono i cosiddetti corpi intermedi: i partiti, i sindacati, l’associazionismo. Senza questo elemento di “mediazione” cambia la forma stessa dello Stato.

Il disegno che sta scritto nella carta, non a caso considerata intrisa di elementi di socialismo, è semplice e chiaro: per una vera democrazia l’intervento del cittadino al momento del voto non è sufficiente. Il motivo è evidente. Se così fosse il potere economico, che nella società della comunicazione diventa ancora più pervasivo, diventerebbe un tutt’uno con il potere politico. Ecco allora che l’unione nei partiti e nei sindacati diventa quello strumento di affrancamento dei deboli che nella teoria marxista è la strada che conduce al superamento del modo di produzione capitalistico. Ed ecco perché le forza della destra da sempre hanno osteggiato la partecipazione. Divide et impera, sentenziavano i romani nell’antichità.

E noi, come dire, abbiamo abboccato in pieno. Al di là degli errori strategici, del bagno di liberismo che ha infestato le nostre acque, io resto convinto che l’errore fondamentale che abbiamo commesso dall’89 in poi sia questo. Certo l’aver sposato le teoria della destra capitalista ha un suo peso. Abbiamo perso la nostra diversità e al tempo stesso abbiamo perso la speranza nella possibilità di un futuro differente. Ma ancor più grave è essere stati folgorati dal fascino del leaderismo: abbiamo creduto che la fine dei partiti fosse inevitabilmente collegata al mondo nuovo con il quale non abbiamo saputo fare i conti.

Il congresso del Pd che si sta stancamente svolgendo in questi mesi ne è l’esemplicazione perfetta. Fanno passare come grande esercizio democratico il rito della scelta del leader. Un rito meramente muscolare dove vince quello che ha più mezzi e annovera fra le sue file il numero maggiore di notabili locali. Ogni giorno si alzano polveroni mediatici, si lasciano le truppe libere di scannarsi tra loro, ma su cosa? Sul nulla. Qualcuno si alzi in piedi e mi spieghi le differenze fra i candidati in lizza. Nessuna analisi su quanto è successo, sulle ragioni delle sconfitte. Nessuna proposta di radicale innovazione. Al massimo si invoca discontinuità e ci si propone di ricostruire il Pd. Su quali valori, su quali fondamenta non si dice mai. Semplicemente perché non ci sono valori, non ci sono fondamenta da cui costruire. Il Pd è un’alleanza elettorale resa permanente, non un partito di massa. Non a caso il meccanismo delle primarie è estraneo alla cultura europea e viene direttamente importato dagli Usa. Da un sistema dove, anche qui banalizzo, economia e politica sono spesso una cosa sola e non vi sto a raccontare chi vince.

E’ l’era della cosiddetta disintermediazione. Avviene nell’informazione, così come nella politica. Ce la vogliono far passare come la massima espressione di libertà, ma in realtà rappresenta il culmine della dominazione capitalista. L’eliminazione della libertà di informazione, che è l’effetto della disintermediazione in quel campo, è stata la condizione necessaria per il sovvertimento del sistema dei partiti. Ci hanno cibato per anni con il mito della “kasta” da combattere e non avevamo capito che insieme alla kasta avrebbero spazzato via anche la possibilità di partecipare e di cambiare davvero il nostro mondo.

Detto questo, sabato bisogna andare in piazza con Cgil, Cisl e Uil. Perché, con difetti e limiti che tutti conosciamo, sono l’ultimo presidio di democrazia che ci resta. Ancora di più dopo l’elezione di Landini a segretario della Cgil. Uno che ha ben in testa quello che sta avvenendo. Attorno a questo presidio, insomma, c’è, secondo me, l’unica possibilità di ripartire. E per ripartire bisogna guardare alle elezioni europee andando al tempo stesso oltre le elezioni europee.

A quanto pare, a maggio avremo sicuramente in campo il Partito democratico, non si sa ancora bene se da solo o sciolto nel fronte cosiddetto “antipopulista”, e l’ammucchiata capitanata da De Magistris dove convivono formazioni che si battono per uscire dall’Europa con chi dice l’esatto contrario. Roba che viene voglia di votare Salvini. La sinistra, in tutto questo, rischia di restare a casa. Che, come ho già detto mesi fa, può anche essere un’opzione dignitosa. Ma se su quella scheda ci fossimo sarebbe sicuramente meglio. Ora, alle elezioni regionali in Abruzzo e Sardegna gli elettori troveranno ancora il simbolo di Liberi e Uguali. Perché di fatto era l’unica scelta possibile, anche se le nefaste fratture nazionali si fanno sentire purtroppo anche a livello locale. Vedremo che risultato avranno queste liste. Temo non eccezionale, visto quello che è successo negli ultimi mesi.

Io credo che dovremo impiegare il tempo che ci separa dalle urne a costruire il partito della sinistra ecologista e socialista che abbiamo immaginato. Consapevoli che è un tentativo necessario ma non sufficiente. E credo anche che, al tempo stesso, dovremo verificare fino in fondo se sia proprio impossibile ripresentare Leu anche per l’Europa. Può sembrare assurdo, ma se ci pensate bene, di fratture di fondo fra le forze che hanno dato vita alla lista per le politiche non ce ne sono. Le differenze, io così la penso, sono di poco conto. E se può stare insieme l’accozzaglia di De Magistris, a maggior ragione avrebbe senso ripresentare Liberi e Uguali. Andare alle europee consapevoli che serve un orizzonte più ampio se vogliamo davvero far diventare la parola “Ricostruzione” un percorso concreto verso un soggetto politico basato sulla parola partecipazione. Dove si costruisca la classe dirigente, sperimentandola sul campo e non facendola crescere in provetta. Chissà. Magari a forza di sbagliare per una volta la azzecchiamo.

La pizza di fango del Camerun e il reddito di cittadinanza.
Il pippone del venerdi/86

Feb 1, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Siamo in recessione. Per la prima volta nella storia – credo – un presidente del Consiglio anticipa l’Istat e mette le mani avanti: il Pil continua a diminuire per il secondo trimestre di seguito (questa volta dello 0.2 per cento) e quindi adesso è ufficiale, la crisi è certificata. Sarebbe il caso di avviare anche una riflessione seria sulle tecniche comunicative che usa questo governo, perché, almeno in questo campo sono davvero avanti di molto. Ma torniamo al punto.

Ora, le cose a dire il vero non andavano un granché bene neanche prima quando il Pil cresceva. Perché il modesto aumento del prodotto interno lordo che abbiamo avuto gli anni scorsi non si è mai trasformato in crescita vera del Paese. Né dal punto di vista dell’occupazione, né da quello dello sviluppo infrastrutturale. Non è questa la sede per ragionare sulle colpe, ma anche senza voler arrivare al superamento della società capitalista, è evidente come l’aver puntato tutto sul mercato, cancellando i diritti dei lavoratori e  distribuendo corposi incentivi per le imprese, non ha funzionato. Il volano più forte per la crescita, lo insegnano gli economisti keynesiani, non pericolosi estremisti, sono gli investimenti pubblici. Perché creano un effetto a catena per il quale alla fine il guadagno per il Paese in termini economici, di competitività e di benessere sociale è molto più alto del costo. Il Fmi, anche qui non si tratta di pericolosi rivoluzionari, stima che un dollaro di investimento pubblico genera tre dollari di guadagno. Si tratta di calcoli complessi, che si basano sul ritorno diretto, sullo stimolo che genera nei confronti dei privati, sul ritorno occupazionale. Ma questa è la sintesi. Se, dunque, è tutto così semplice perché non si fa?

La risposta che mi viene in mente d’istinto è che i nostri governanti abbiano puntato sugli investimenti sicuri e come è noto, dai tempi della “Tv delle ragazze” in poi, il solo investimento certo è nella famosa pizza di fango del Camerun, l’unica moneta che ci può salvare dal baratro. E questo giustificherebbe anche la continuità di azione (altro che governo del cambiamento) che unisce i governi italiani da anni, da decenni si potrebbe dire guardando lo stato delle nostre infrastrutture.

Posto che, invece, abbiano altre idee in testa, sarebbe utile capire quali. Io credo che i 5 stelle abbiano in testa un modello diverso di società, girando fra le visioni proposte dalla Casaleggio e associati, qualche spunto lo troviamo. La suggestione è che, nel giro di pochi anni, il lavoro così come lo abbiamo conosciuto sia destinato a scomparire del tutto. Non è neanche troppo nuova la teoria che prefigura la fine della necessità di lavorare per l’uomo con la sempre crescente robotizzazione. Basti pensare che lo stesso Bill Gates,  decisamente un capitalista, propone una tassa sui robot per compensare la perdita di posti di lavoro. Con quella tassazione si dovrebbero poi finanziare nuove forme di welfare, a partire da un reddito di cittadinanza a questo punto davvero generalizzato. Perché dunque affannarsi a creare nuovi posti di lavoro se il futuro che ci aspetta è questo? Proviamo a ragionare.

La fine del lavoro e il tempo del non lavoro, tema per me davvero affascinante, è stata del resto ipotizzata da fior di economisti e sociologi. E molte sono le soluzioni in campo. Quella proposta da Casaleggio, in realtà,  è soltanto una delle possibilità.  E’ la stessa storia che però contraddice questa visione. Mi spiego meglio. Non siamo di certo alla prima rivoluzione industriale. Più volte ormai abbiamo assistito a profondi rivolgimenti tecnologici che hanno cambiato radicalmente il modo di produrre. Il lavoro però non è finito. Si è trasformato. Cosa avrebbe di differente la robotizzazione? Di sicuro che sostituisce del tutto, almeno questo è il futuro che si prevede, il lavoro umano in diversi settori. Sarà davvero la fine del lavoro, o ancora ci sarà una trasformazione del ruolo umano? Perché, se è vero che nuovi sistemi produttivi riducono l’esigenza di mano d’opera in molti settori, è anche vero che le varie rivoluzioni tecnologiche hanno generato bisogni nuovi. Avremo comunque lavori differenti, legati alle esigenze della società digitale. Come avremo comunque bisogno di lavori legati al welfare e alle aspettative di vita che continuano ad aumentare.

Probabilmente, comunque sia, il numero complessivo di lavoratori necessari sarà minore. Anche se francamente le visioni di una società in cui il fattore umano scompaia del tutto dal lavoro mi sembra molto al di là da venire. Di fronte a questa diminuita esigenza di mano d’opera ci possono essere, secondo me, due riposte alternative. La prima è quella assistenzialistica: tassiamo i robot, tanto le imprese avranno un margine di profitto maggiore e dunque se lo potranno permettere. Con quella tassa garantiamo il famoso reddito di cittadinanza universale. Punto. Casaleggio e soci non si pongono il problema del grande rivolgimento sociale che avverrebbe necessariamente in una società in cui il lavoro diventa un fattore marginale nella vita dell’uomo. Detto in poche parole: che si fa da mattina a sera? Divano senza soluzione di continuità?

L’altra risposta, quella che secondo me una forza socialista dovrebbe dare è quella che porta al concetto di lavoro di cittadinanza. Ovvero: in una società come quella disegnata, garantire un reddito a tutti diventa una necessità non eludibile, questo è vero. Ma questo si può fare, oltre che tassando i robot, anche diminuendo l’orario di lavoro – a parità di salario – e creando delle strutture in cui i lavoratori possano mettere a disposizione della società il tempo libero guadagnato. E anche il reddito di cittadinanza, allo stesso modo, si può trasformare in lavoro di cittadinanza. Posto che, vista la situazione della nostra economia (per non parlare del funzionamento dei centri per l’impiego) di offerte di lavoro non ne arriveranno a carrettate, perché non ipotizzare che chi usufruisce del reddito di cittadinanza possa restituire alla collettività quel valore sotto forma di lavoro sociale?

Può sembrare banale, ma non è così. Sono due visioni di società opposte. E credo che avviare un ragionamento profondo su questi temi dovrebbe essere al centro del nostro percorso di ricostruire di una forza socialista in Italia. Troviamo gli spazi per ragionarci e facciamolo in fretta. Anche perché secondo me su questi ragionamenti si può costruire un’alternativa vera alle destre anche a livello europeo. Altro che i fronti indistinti, servono idee radicali.

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