Archive from aprile, 2018

Un governo che ci dia felicità.
Il pippone del venerdì/53

Apr 27, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia? Se lo chiedeva nel 1796 Melchiorre Gioia, esponente di spicco del giacobinismo italiano, con una lunga dissertazione nella in cui sosteneva la tesi di un’Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni democratiche, indivisibile per i suoi vincoli geografici, linguistici, storici e culturali. Non so perché, ma in questi giorni di convulse (si fa per dire) trattative, ribaltoni bizantini, forni che si chiudono e si aprono, mi è tornato in mente questo saggio con il quale Gioia vinse un concorso, studiato negli anni dell’università. Mi è tornato in mente perché sono in molti gli studiosi della politica che attribuiscono alla mancanza di una qualsiasi forma di rivoluzione lo stato magmatico dell’Italia attuale.
Il giacobinismo, del resto, in Italia non ebbe gran seguito, occupa appena una mezza paginetta nei manuali dei licei. Non abbiamo avuto rivoluzioni politiche, né abbiamo partecipato a pieno a quelle tecnologiche. Da noi gli effetti di quello che succede nel resto del mondo arrivano sempre con decenni di ritardo, depurati dagli aspetti più traumatici e rivoluzionari. Assorbiti dalla classe dirigente che più o meno è rimasta quella dell’ottocento a essere ottimisti. Questa è la vera casta, davvero inamovibile, che ha saputo sempre adattarsi ai cambiamenti. Del resto siamo il paese del “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” come siamo il paese sempre pronto a saltare sul carro dei vincitori. E allora siamo sempre stati governati da una commistione fra grandi famiglie, ordini professionali, notabili locali, sistema delle banche. Una sorta di potere feudale che, sostanzialmente sempre uguale, è arrivato al ventunesimo secolo adattandosi alle condizioni mutate, anzi avvolgendo la realtà in una sorta di blob melmoso che tutto attenua e tutto comprime.
Certo, poi succede che un mondo sempre più globale fa in modo che i movimenti mondiali si espandano con maggior rapidità. E allora arriva il ’68, esplodono i no global. Sembra che tutto debba cambiare nel tempo di un batter di ciglia. Ma l’Italia sa sempre come trattare chi vuole tutto e subito. Basta pensare agli anni del terrorismo – si chiamavano “di piombo” – che seguirono il ’68 o a piazza Alimonda che spense la luce su quel movimento che – visto con occhi obiettivi – aveva capito gran parte dei disastri, sociali e ambientali, che la globalizzazione stava causando. Tutto deve cambiare perché tutto rimanga come è. Il ritornello è sempre lo stesso.
L’anomalia italiana, vera – lo so sono noioso e ripetitivo, ma invecchiando peggioro – nacque dopo la seconda guerra mondiale. E fu quel Partito comunista che diventò una sorta di Stato nello Stato. Una comunità con una sua etica perfino feroce, un suo scopo da raggiungere oltre i confini temporali della vita umana. Anche quella esperienza, davvero originale, è stata ormai messa definitivamente a tacere. Non rifaccio tutta la storia da Occhetto a oggi, ma nel momento stesso in cui si decise di cancellare il Pci perché bisognava arrivare al governo si mise una grossa pietra tombale sulla storia della “differenza” dei comunisti italiani.
E così arriviamo ai giorni nostri. Sono giorni in cui essere ottimisti diventa davvero difficile. La sinistra è sparita. Ora, Liberi e Uguali sarà anche un gruppo sparuto, ma comunque più consistente di partiti che ai tempi del proporzionale facevano il bello e il cattivo tempo. Basta pensare che un eventuale governo Pd-M5s al senato avrebbe appena 161 voti. Roba che il primo Turigliatto che si sveglia con la luna storta ti fa saltare il banco. Quei quattro senatori eletti con Leu, insomma, servirebbero come il pane. Eppure nulla: manco vengono consultati dall’esploratore Fico. Il Pd, dal canto suo, dorme sonni agitati, diviso fra chi vede una luce in fondo al tunnel perché proprio costituzionalmente non riesce a immaginarsi confinato all’opposizione e Renzi che pensa la politica soltanto in termini di potere personale. Faranno mai un governo?
Il ragionamento gattopardesco lo vorrebbe fortemente. Non a caso in questa direzione premono i mass media più legati alla casta del potere. Perché un governo che renda normali i 5 stelle, che depotenzi la domanda di cambiamento contenuta nel loro successo ricondurrebbe la situazione politica a un ambito noto e quindi rassicurante. E quindi mai un governo fra Di Maio e Salvini perché sarebbe una rincorsa fra estremismi differenti, ma simili nella loro radice culturale. Ben venga un governo che faccia piombare nel blob Grillo e i suoi.
E la sinistra? Viene da pensare che abbia perso il suo ultimo appuntamento con la storia. Non oggi. Il risultato elettorale del 4 marzo è solo l’ultimo effetto del logoramento quanto meno ventennale al quale siamo stati sottoposti. Dall’accettazione del capitalismo come orizzonte unico, alla globalizzazione subita e neanche mitigata. Capita la lezione si potrebbe ripensare, riorganizzare, pensare a nuove radici da far crescere nel conflitto, in quelle periferie sociali che crescono sempre più. Nulla di tutto ciò. Si continua stancamente a parlare di governo, di costruire un nuovo centro-sinistra non si capisce bene con chi. Ultimo caso il Molise. Dove tutti insieme – ma proprio tutti – si arriva al 17 per cento. Sarà un test piccolo, ma non insignificante. Il centro-sinistra ha chiuso un ciclo storico. La partita è ormai fra 5 stelle e destra. Non solo non esiste quel quarto polo vagheggiato da Sinistra italiana, ma manco il terzo che vorrebbero Bersani e soci.
I partitini di Leu si sono rinchiusi nei loro piccoli recinti, teatro di miserie umane di autoproclamati leader. Pensano ai loro piccoli tesseramenti. Alle loro piccole idee per sfangare le prossime elezioni. Alle loro piccole clientele per far felice qualche famiglia. Come ho sentito dire. Quella voce che, sia pur in maniera contraddittoria e con toni incerti, aveva cominciato a farsi sentire in campagna elettorale è scomparsa. Di Potere al popolo si sono perse le ancor più flebili tracce. Si aspetta il big-bang del Pd per rifare un partito socialdemocratico alla tedesca, in grado di tornare a quelle cifre elettorali che garantiscano tranquillità alla sua classe dirigente. E allora? Alla domanda che poneva Melchiorre Gioia alla fine del ‘700, come si può rispondere oggi?
Io credo che il nuovo paradigma debba essere quello della felicità. Capisco che è un parametro complesso da misurare, ma il benessere di un popolo è qualcosa di meno semplice rispetto al reddito. Servirebbe un movimento che si ponesse la felicità come obiettivo. Felicità in termini di esperienza comunitaria, di coesione sociale, di conservazione delle ricchezze ambientali, di mutuo soccorso. Sarebbe una rivoluzione, questa volta difficilmente riassumibile negli schemi classici. E per questo non la vedremo mai.
E comunque, buon Primo maggio a tutti. Che almeno questa sia una giornata senza lavoro.

La sinistra faccia una cosa giusta: riprendiamoci L’Unità.
Il pippone del venerdì/52

Apr 20, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Mentre l’Italia aspetta con ansia la formazione di questo benedetto governo, fra incontri, incarichi, esploratori giornalieri e aspiranti presidenti del Consiglio, una notizia è passata quasi inosservata: L’Unità viene messa all’asta. La storica testata che fu del Pci, fondata da Antonio Gramsci, è stata pignorata dai dipendenti a garanzia dei propri crediti con l’editore (fondamentalmente stipendi arretrati) e il tribunale adesso ha avviato la procedura e affidato la perizia per la valutazione, primo passo per poi procedere alla vendita del giornale. Trattandosi di procedura giudiziaria, ovviamente, non c’è spazio per mediazioni o ragionamenti politici: se la aggiudicherà il miglior offerente.

Ora, partiamo da una notazione: intanto questo fatto sottolinea, ce ne fosse ancora bisogno, l’assoluta cialtronaggine dei dirigenti del Pd che si sono occupati dell’ultima edizione del giornale. Ripercorriamo  rapidamente: il quotidiano era tornato in edicola nel 2015, dopo la crisi e la sospensione delle pubblicazioni avvenuta nel 2014. L’editore, come già avvenuto in passato, non era più il partito di riferimento, il Pd in questo caso, o una società controllata dallo stesso, ma un privato, tal Pessina, imprenditore impegnato nel campo delle costruzioni, a digiuno di vicende editoriali, vicino – all’epoca – a Matteo Renzi. Fu costituita una società in cui il partito aveva, tramite una fondazione, una quota di minoranza, ma si riservava il potere di nomina del direttore. In questi casi, di solito, si tende a separare la proprietà della testata dall’editore vero e proprio, attraverso un contratto di affitto, magari a un prezzo simbolico. Detta in poche parole: il Pd avrebbe potuto rimanere proprietario della testata, il vero valore di un giornale, affidandone la semplice edizione al socio privato. Invece no, a Pessina viene trasferito il pacchetto completo. Morale della favola, il costruttore attualmente è proprietario de L’Unità e anche dell’archivio del giornale. Un patrimonio storico e culturale di enorme valore in mano a uno che costruisce ospedali. E, morale della favola due, la testata rischia di essere comprata da qualche sconosciuto che ne potrà fare l’uso che vuole. Sempre che questi sprovveduti non facciano addirittura scadere la registrazione: una testata per “esistere” deve essere pubblicata almeno una volta l’anno, altrimenti decade la sua iscrizione nel registro della stampa e chiunque la potrebbe iscrivere ex novo senza pagare un euro ai lavoratori. Mancano pochi mesi.

Ecco, proprio nei giorni in cui esercitiamo la nostra abituale capacità di prenderci a martellate i cabbasisi litigando sulle sigle per il 2 per mille, vorrei lanciare un appello credo un po’ più utile: utilizziamo quei fondi, magari integrati da una sottoscrizione popolare, per ricomprare L’Unità. Credo che sarebbe un utilizzo più utile che pagare qualche costosa sede in centro, comoda perché “sta proprio accanto alla Camera”, per non parlare dell’utilità degli staff dei (sedicenti) dirigenti. Vorrà dire che per le riunioni utilizzeranno le sedi istituzionali e gli staff se li pagheranno di tasca loro. Per quello che producono…

I partitini della sinistra dispersa – comprendendo anche Rifondazione, neo Pci e tutti quelli che ci vogliono stare – potrebbero mettersi attorno a un tavolo non per contrattare l’ennesima alleanza elettorale, ma un progetto concreto di una casa comune, sia pur solo editoriale.  Si potrebbe anche chiedere un impegno alle fondazioni che amministrano il patrimonio immobiliare ex Pci. Sposetti batta un colpo. Sicuramente il milione e mezzo di elettori che hanno votato per formazioni di sinistra il 4 marzo non sarebbero insensibili.

Non si tratta soltanto, insomma, di salvare dal “macero” una testata di grande valore per tanti di noi. Ma di ridare a tutti un punto di riferimento, un luogo di confronto aperto. Ecco io la immagino così la nuova Unità: una ossatura snella, pochi giornalisti giusto per coordinare il lavoro, inizio solo on line, spazio al dibattito e al contributo di intellettuali. Non credo ci sarebbe alcuna difficoltà a trovare giornalisti, uomini di cultura, ma anche militanti disposti a dare un contributo volontario. Siamo un popolo di grafomani del resto.

Poi, magari, siccome sono uno anche affezionato al mondo reale, da lì potremmo riorganizzare le feste, tutti insieme. E ancora potremmo pensare a dei quaderni cartacei, magari con cadenza mensile o anche più. Quaderni tematici che possano essere punti fermi, di raccolta di idee, in un mondo dove tutto dura lo spazio di un click. E magari potremmo far vivere la nuova Unità aprendo spazi di dibattito non solo web, usando la testata per tornare – non ci torno perché ne ho già parlato più volte –  aprire sedi, non di partito, ma utili: ecco, quelle che ho chiamato le Case del popolo 2.0, perché, a questo punto, non chiamarle Case dell’Unità?

Insomma, questa vicenda de L’Unità potrebbe essere un nuovo inizio. Visto che Liberi e Uguali lo stanno ammazzando in culla, tra reciproci veti, personalismi di (sedicenti) dirigenti che parlano soltanto fra di loro e si convincono – sempre fra di loro – della giustezza delle posizioni che assumono salvo poi prendere schiaffoni a ogni tornata elettorale, una casa anche solo editoriale unitaria sarebbe un bel modo per ripartire da zero, tornando a parlarci senza dannose intermediazioni. Avendo luoghi in cui farlo, ne sono convinto, scopriremmo che le divisioni tra noi sono molto meno di quelle che ci fanno pensare.

Cari elettori, vi abbiamo preso per il culo.
Il pippone del venerdì/51

Apr 13, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Noi ci abbiamo provato in tutte le maniera a essere ottimisti, positivi, propositivi. Da noi, cosiddetta base, in questo mese post elettorale sono arrivate proposte, iniziative, documenti, discussioni sulla forma partito. Da voi, cari dirigenti, non sono arrivate mai parole chiare. Intervistine, indiscrezioni passate a mezza bocca al giornalista amico. E invece dovete avere il coraggio di dirlo chiaramente: cari elettori vi abbiamo preso per il culo.

Ricordate quando ci hanno detto: non c’è tempo adesso per fare il partito, ma dopo le elezioni ci impegneremo tutti insieme a costruire una grande casa comune, con un percorso aperto, democratico, partecipato? Lo hanno messo nero su bianco, in un appello pochi giorni diffuso pochi giorni prima delle elezioni. Tutte balle. Subito dopo il 4 marzo è parso subito chiaro che ognuno preferiva tornarsene nella casetta propria. Qualcuno trombato e quindi offeso a morte (per la serie: la sinistra esiste soltanto se la dirigo io). Altri perché “abbiamo di fronte a noi prospettive differenti”, altri ancora in attesa che il Pd si scomponga per rifare un partito un po’ di sinistra, ma non troppo. Par di ascoltare quella canzone di Jannacci, quando dice “il nostro piangere fa male al re”. La morale della favola è semplice: una sinistra forte, autorevole, autonoma, in Italia non ci deve essere. Dà fastidio al manovratore.

Ma come, potreste dire, Liberi e Uguali allora? Che fine fa? Par di capire – ma la conferma si avrà solo nei prossimi giorni con i congressi e le assemblee varie di Possibile, Sinistra italiana e Mdp – che rimarrà una specie di coordinamento parlamentare e poco più. Del resto ci sono elezioni dove il simbolo è già stato presentato e, soprattutto, fosse mai che non si fa un governo e si torna a votare. In quel caso Leu verrebbe rispolverato e ripresentato in grande stile (si fa per dire). Insomma: cari elettori, non solo vi abbiamo preso per il culo, ma siamo pronti a farlo di nuovo. Il primo risultato dell’ennesima trovata geniale del gruppo dirigente di Leu è che alle regionali di fine aprile e alle amministrative di giugno, come diceva uno splendido Guzzanti d’antan, ognuno fa un po’ come cazzo gli pare. Da qualche parte c’è il simbolo rosso con le foglione, altrove liste civiche, in qualche caso saremo con il Pd, in altri da soli.

Ora, a parte l’ingenuità del ragionamento, io vorrei provare a ripercorrere quello che è successo in un anno e poi ditemi voi, io mi taccio, quale sia la definizione migliore da dare a questo (sedicente) gruppo dirigente.

Febbraio 2017: si scinde il Pd, quelli della “ditta” chiedono a Renzi di arrivare alle primarie con più tempo per presentare e far conoscere candidati alternativi. Gli rispondono picche e loro se ne vanno. Il 25 febbraio fondano Articolo Uno – Mdp. Nello stesso periodo dalla fusione di Sel e Futuro a sinistra nasce Sinistra italiana. Una parte rilevante dell’ex Sel, – fra cui Arturo Scotto, Ciccio Ferrara e Massimiliano Smeriglio – aderisce però a Articolo Uno. Un movimento con un cospicuo gruppo di parlamentari, ma che rinuncia ad essere strutturato nei territori. Perfino il tesseramento parte a stento. Di eleggere un gruppo dirigente non se ne parla proprio, bastano gli “eletti”.

Aprile-giugno 2017: Massimo D’Alema propone di fare un partito unitario della sinistra, riunendo le esperienze a sinistra del Pd. Ipotizza una alleanza elettorale, costruita con la selezione democratica dei candidati che poi diventi un partito. Bersani, d’altro canto, guarda all’ex sindaco Giuliano Pisapia come possibile “federatore”. Anna Falcone e Tomaso Montanari lanciano l’idea di una grande assemblea per promuovere una nuova formazione politica che nasca dal basso, nella quale i partiti ci siano ma anche no. E’ l’assemblea del Brancaccio, da cui origina l’omonimo percorso, poi fallito per ragioni rimaste misteriose.

Luglio 2017: dopo qualche mese di travaglio nasce “Insieme” con una manifestazione a Roma in piazza Santi Apostoli. Dovrebbe essere il nucleo di una specie di Ulivo 2.0. Ci sono Tabacci, Lerner, qualche prodiano, le truppe bersaniandalemiane, i verdi, qualche socialista. Una forza politica autonoma che mira a costruire un campo largo del centro-sinistra. Leader indiscusso il già citato Giuliano Pisapia. Che dopo pochi giorni manifesta profonde crisi di identità e si abbraccia calorosamente con la renzianissima ministra Boschi.

Ottobre-dicembre 2017: dopo un’estate travagliata, piena di reciproci malumori, Bersani e Pisapia divorziano ufficialmente. L’avvocato milanese tenterà poi in tutti i modi di fare un accordo con il Pd per presentare una lista ulivista alle elezioni, ma alla fine si ritirerà. Alcuni dicono di averlo avvistato in qualche parco milanese a dar da mangiare i piccioni. La lista Insieme alla fine si presenterà sul serio alle elezioni, con un risultato che non lascerà traccia alcuna nella storia italiana. Articolo Uno, Si e Possibile, dal canto loro scoprono di essersi sempre amati e trovano un altro leader, il presidente del Senato Grasso, uscito dal Pd poche settimane prima. Una grande assemblea popolare, il 3 dicembre, lo incoronerà ufficialmente: nasce Liberi e Uguali. Nello stesso periodo l’altro pezzo del Brancaccio, quello capitanato da Rifondazione e partitelli vari, trova come foglia di fico alcuni centri sociali e nasce la lista “Potere al popolo”.

Da dicembre a oggi come sia andata lo sappiamo tutti. In una frase sola: Liberi e Uguali non ne azzecca una manco per sbaglio. Una campagna elettorale inesistente, liste per niente nuove e calate dall’alto. Un risultato elettorale modesto. La sinistra nelle sue varie forme viene spazzata letteralmente via. Anche considerando il Pd un partito di questa area, complessivamente arriva a stento al 25 per cento. Leu si ferma al 3,4 per cento, Pap si ferma all’un per cento classico di Rifondazione. E anche dove si è vinto (almeno un po’) come nel Lazio, dal giorno dopo abbiamo ricominciato a darci martellate sulle gengive (o giù di lì).

Ci sarebbe da dire, ragazzi, fermiamoci, ragioniamo un mesetto, ma poi ripartiamo. Come la penso lo sapete. L’ho scritto ampiamente in questo periodo. Forma partito, valori fondanti, esigenza di tornare a una radicale critica della società capitalista, un nuovo orizzonte a cui guardare. Ci sarebbe materiale per avviare davvero una fase di ricostruzione. Che non si esaurisca in pochi giorni e poche assemblee nelle quali contrattare i posti negli organismi dirigenti. Andrebbero demolite le casette da cui veniamo, per farne una dove accogliere non soltanto i militanti con la tessera, ma anche tutti quelli che di tessere non ne avevano ma hanno creduto al progetto di Liberi e Uguali. Bisognerebbe considerare il milione e mezzo di voti che sono arrivati a sinistra del Pd come una base di militanti irriducibili su cui poggiare questo nuovo edificio. E invece no. Pap va avanti da solo. Leu, dopo aver annunciato assemblee territoriali, assemblee costituenti nazionali,  resta, di fatto, come mero specchietto per le allodole ma partono i tesseramenti ai soggetti fondatori. Delle assemblee unitarie, al momento, non se ne parla proprio più.

Se avete un certo mal di testa dopo questo pippone, pensatevi adesso tornare nelle vesti di militanti e dirigenti di base e spiegare ai compagni che si devono rifare la tessera di Articolo Uno – Mdp, di Sinistra italiana o di Possibile. Io mi immagino le facce e anche qualche insulto. Per non parlare degli elettori (non che ci abbiano creduto poi in tanti) a quali dovremo dire, sinceramente, che li abbiamo presi in giro. Per l’ennesima volta. Che Leu era solo l’ennesimo accrocco messo in piedi in fretta e furia per eleggere qualche parlamentare.

Cosa fare, come andare avanti non lo so davvero. Una provocazione però la voglio lanciare: mi chiedo ma davvero è stato un bene superare il quorum del 3 per cento ed eleggere 18 parlamentari? Forse era meglio restare fuori dalle elezioni. Almeno il partito degli eletti ce lo saremmo scordati. Ci saremmo scordati le segreterie, i portaborse, la corsa al posticino per gli amici degli amici. Perché di una cosa sono convinto: con questa classe dirigente ci meritiamo di essere cancellati. Loro perché per l’ennesima volta ci hanno dimostrato tutta la loro incapacità tattica e strategica. Noi perché non siamo in grado di prenderli a calci nel sedere.

La cosa drammatica, e la finisco davvero, è che non ci si rende conto del fatto che le energie e le idee ci sono, basta leggere i mille documenti prodotti in tutta Italia, i tanti interventi di intellettuali che pongono problemi, indicano soluzioni. Energie vive, da non disperdere. Serve, insomma, una ripresa forte dell’iniziativa unitaria. Badate bene, non è facile e il processo non durerà un giorno. Ma se aspettiamo i gruppi dirigenti nazionali e non mettiamo in rete le esperienze di questi mesi, se, insomma, non li prendiamo per il collo e li costringiamo a guardare un po’ verso il basso (che non fa male), continuerà questo processo di distruzione che va avanti dal 1989 e che ci priverà di ogni prospettiva di cambiamento anche per i prossimi trent’anni. Insomma, la situazione è un po’ come l’immagine che accompagna questo articolo: sono macerie? O sono mattoni?

Il Partito delle Case del popolo 2.0. Per fare società.
Il pippone del venerdì/50

Apr 6, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Il Pd sembra essere tornato improvvisamente a essere centrale nella vicenda politica italiana. La linea renziana dell’Aventino lo ha trasformato in una preda ambita, sembra una scena di un film di quelli classici: la bella figlia del re contesa fra più principi che si nega. E più si nega e più la braccano. In realtà si tratta di un effetto ottico. Di Maio usa il Pd per giustificare l’approccio con Salvini. Quando dice che lui preferirebbe un accordo con il Partito democratico non renziano fa finta di non sapere che si tratta di una condizione impossibile. Renzi, al di là dei vagiti delle varie correnti interne, è ancora l’azionista di maggioranza. E senza i suoi voti (già ampiamente negati) un governo non si può proprio fare. Questione di numeri. E allora, incassato il no, porterà i 5 stelle a un accordo con la destra di Salvini. Esclusa Forza Italia? Vedremo. Se ne parla a fine aprile, dopo le regionali in Friuli e Molise. Intanto becchiamoci un’altra settimana di consultazioni soporifere.

Nel frattempo, salvo rinvii, si sarà svolta anche l’assemblea nazionale dei democratici che incoronerà il nuovo segretario. Si dice che sarà confermato il reggente Martina (anche se nelle ultime ore affiorano incertezze fra gli azionisti di maggioranza, ovviamente i renziani). Le variabili sono molte. Per quanto tempo? Fino alla scadenza del mandato? Fino a ottobre? Fino alle Europee? La data di svolgimento delle primarie (sì, faranno ancora le primarie, nessuno ha la forza di modificare lo statuto) è una delle chiavi di lettura per capire cosa accadrà nei prossimi mesi. Affari loro? Neanche tanto, visto che al futuro del Pd, di fatto, ha deciso di legare i suoi destini anche Liberi e uguali, che ha rinviato la sua assemblea nazionale a maggio. Il fatto che la data sia successiva a quella dell’appuntamento democratico non è casuale.

Sulla scialuppa di Liberi e Uguali arrivano, infatti, gli echi di due sirene contrapposte. Da un lato, quello di Sinistra italiana, non si è insensibili al richiamo di de Magistris e al progetto di Diem25, ovvero la lista transnazionale per le Europee che farebbe capo all’ex ministro greco Varoufakis e al francese Hamon, già candidato alle presidenziali francesi per il Partito socialista. Dall’altro lato, quello di Articolo Uno, si sta con l’orecchio teso pronti a scattare nel caso qualcosa si muova in casa democratica. Non un semplice cambio di segretario, che tutti (o quasi) considerano insufficiente per “tornare a casa”, ma una vera e propria scomposizione del partito che riporti a uno schema bipolare il centrosinistra. Una sorta di riedizione di Ds e Margherita. Non è più, infatti, il solo Sandro Gozi a sostenere la necessità di andare oltre il Pd per fare una sorta di partito di Macron in Italia. Anche fra i renziani doc sono molte le voci che, più prosaicamente, fanno i conti. Il centro destra, con due forze trainanti arriva a essere la coalizione più forte, perché non ripetere lo stesso schema anche dall’altra parte?

C’è la convinzione, tra l’altro, che alla fine un governo Di Maio – Salvini si farà, magari aggregando un pezzo di Forza Italia. E a quel punto tornerebbe in campo l’idea originaria dello statista fiorentino: ovvero lanciare un’Opa sui moderati in libertà, dopo essersi ovviamente liberato di quel che resta della sinistra nel Pd. Oppure dopo essersi liberato proprio del Pd e aver lanciato “Avanti”, la riedizione italiana di “En marche”. In pratica, a quanto si capisce dai retroscena, il marchio democratico, considerato ormai usurato dalle sconfitte, si trasformerebbe in una specie di bad company sulla quale scaricare tutte le colpe del passato e Renzi tornerebbe in campo con un contenitore tutto nuovo, dove assemblare i moderati in cerca di casa. La sinistra avrebbe il compito di fare altrettanto in vista di una futura ricomposizione, quanto meno sotto forma di alleanza elettorale.

In pratica si tratterebbe di fare quel nuovo Ulivo da molti evocato già prima del 4 marzo ma reso impossibile proprio dalla presenza stessa del Pd. Troppo grande per essere alleato alla pari, troppo piccolo realizzare davvero la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria.

A me è venuta la nausea soltanto a scriverla questa roba. Figuriamoci a metterla in pratica. Per due ragioni essenziali. La prima è che non sono davvero un nostalgico di Prodi e dell’Ulivo. A quella stagione, che oggi si tenta di dipingere come età dell’oro, si deve, in buona parte, il disastro attuale. Fu in quegli anni che si delineò una sinistra culturalmente minoritaria, che si accontentò del compito di rendere un po’ meno cattivo il capitalismo. In quella stagione si sono gettate le basi per il Jobs act renziano, si è precarizzato il lavoro, rendendo sempre più complesso perfino portare il sindacato nelle aziende. Si è, in sintesi, spianata la strada a quella frammentazione sociale che oggi rende così debole, non tanto e non solo la sinistra, ma la nostra stessa democrazia. La seconda ragione, è che, se anche non volessimo considerare il carattere secondo me negativo della prima versione dell’Ulivo, le minestre  riscaldate non funzionano mai. Dopo una sconfitta si riparte cercando strade nuove.

Non sto a ripetere come la vedo, il percorso che secondo me andrebbe seguito, coniugando, come ho già ampiamente scritto, le necessità strettamente organizzative con quelle della creazione di un vero e proprio laboratorio politico. Per me quella di un partito che metta in campo un’analisi di tipo marxista della società resta non solo la prospettiva più credibile, ma l’unica che possa ridare fiato a una prospettiva vera di cambiamento, di riscatto sociale. Un partito genericamente di sinistra sarebbe l’ennesima ridotta difensiva. Peccato che da difendere ci sia ben poco. I nostri dirigenti, questo è l’altro corno del problema, sono insufficienti. Quelli più acuti come Bersani hanno forse azzeccato l’analisi, intravedendo l’ondata antisistema che stava per arrivare. Ma nessuno pare in grado di andare oltre la stantia formula del centrosinistra. Al massimo, quando proprio si impuntano, pretendono di mettere un trattino fra le due parole. E’ deprimente, ma questo sono in grado di produrre. Né dal sindacato sembrano arrivare segnali di un possibile risveglio nel campo più prettamente sociale. Politica e società vanno di pari passo e se non hai rappresentanza politica diventa sempre più complesso dare rappresentanza sociale.

E allora che fare? Arrendersi e mettersi al vento aspettando che ci sbattano il grugno per l’ennesima volta? Io non credo sia possibile, perché non c’è più tempo. Credo che servano due condizioni insieme per uscire dall’avvilente stallo attuale: dall’alto, le energie migliori dei vari campi – politica, cultura, sindacato, esperienze sociali – devono unirsi e fare squadra; dal basso, serve una campagna nazionale di assemblee popolari. Non il “Brancaccio due”, perché quella roba lì era finta, c’eravamo solo “noi”, la sinistra tradizionale nelle varie declinazioni. Non prendiamoci in giro. Bisogna andare in profondità, nei quartieri nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università. Io penso a una rete di “Case del popolo 2.0” luoghi dove non si fa soltanto politica, si fa società. Luoghi di aggregazione, dove trovi il medico popolare, la scuola per gli stranieri, servizi di tipo mutualistico, momenti di svago e di cultura. Non un “muretto” per far svernare i militanti, ma iniezioni di un nuovo modello di comunità. Da lì si deve ripartire, non basta un nuovo partito. Serve una nuova comunità che non stia a discutere per giorni su quale assessore indicare al Comune, su chi candidare. Una comunità attiva, riconoscibile, che infonda robuste solidarietà nella nostra società polverizzata. La nuova sinistra non può nascere negli studi televisivi o nei gruppi parlamentari, deve essere sinistra sociale.

Ci sono le energie e il coraggio per rifondare un partito in questo modo? Le energie sicuramente ci sono, serve la capacità di metterle in rete e farle connettere. Ma il tempo non è molto, basta con i rinvii a fantomatiche assemblee nazionali. Bisogna mettersi “en marche”, ma senza Macron.

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