Archive from febbraio, 2018

Un voto senza turarsi il naso. Come sempre.
Il pippone del venerdì/45

Feb 23, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ho sempre trovato di cattivo gusto l’invito ad andare a votare turandosi il naso. La considero una mancanza di rispetto verso la libertà democratica per eccellenza, quella di scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. Cosa vuol dire turarsi il naso? Che il voto ha un odore nauseabondo? Che la lista sulla quale fare la croce puzza?

Ora, io sono uno che ha il naso molto sensibile ai cattivi odori, per cui mi dà fastidio anche la semplice idea. Detto però dal segretario di un partito a proposito della sua stessa lista, come è avvenuto nei giorni scorsi, sembra addirittura un paradosso. Soprattutto se si pensa che il segretario in questione, Matteo Renzi, quel partito lo ha modellato a sua immagine e somiglianza, con una vera e propria pulizia etnica delle minoranze. E’ come se uno dicesse: mi faccio schifo anche da solo, ma votatemi. L’invito a scegliere il meno peggio fatto addirittura dall’attore protagonista della commedia. Io non ci ho mai creduto, figuriamoci adesso. Certo, a volte il partito che ho votato, il candidato che ho scelto nel caso di elezione diretta del sindaco o del presidente della Regione, non coincideva alla perfezione con le mie idee. Ci mancherebbe altro.

Però, nella mia ormai considerevole esperienza da elettore, ha sempre votato con convinzione, scegliendo un progetto al quale affidare quella che, lo ripeto, è una delle mie facoltà a cui tengo di più. Il voto. Per me la mattina delle elezioni ha sempre un sapore particolare. Mi preparo la tessera elettorale dalla sera prima, sveglia presto. E sono nervoso fino a quando non sono dentro il seggio con la scheda in mano. I comunisti votano la mattina all’alba, si diceva un tempo, perché poi non si sa mai cosa può succedere. E ancora adesso che i comunisti non ci sono più (o almeno non ci sono sulla scheda), basta andare in qualsiasi seggio durante lo spoglio per confermare che i voti della sinistra stanno sempre sotto, sul fondo dell’urna, perché i nostri elettori sono i primi ad arrivare. E questo gesto di andare a votare la mattina presto è un po’ la rappresentazione concreta dell’importanza che noi diamo al voto alle elezioni. Di quanto teniamo all’esercizio di questo diritto democratico.

Ecco perché quella pronunciata da Renzi non è solo una delle tante frasi infelici che ho sentito in questa campagna elettorale, rappresenta una rottura (l’ennesima) con il sentire comune di quello che dovrebbe essere, lo era almeno fino a cinque anni fa, il suo popolo, il popolo del Pd. Mi chiedo se nelle urne, quando i presidenti dei seggi apriranno gli scatoloni, le schede democratiche saranno ancora in fondo oppure questa volta galleggeranno in cima, ultima testimonianza dell’avvenuta mutazione di quel progetto fallito.

Ma bando alle malinconie da fine impero e veniamo a noi. Arrivati ormai a dieci giorni dal voto la nostra campagna elettorale procede. Fra alti e bassi, ignorati dai giornali, con pochissimi mezzi a disposizione. Siamo molto social, stiamo nelle piazze, nelle città. Con pazienza, casa per casa, lentamente e in ritardo, Ma ci siamo. Avverto molto, in questi giorni, quello che ritengo il punto più debole della nostra proposta politica, il non essere un partito. Strutturato, pesante direi, usando un termine a cui si è attribuita una ingiusta valenza negativa. Avverto la difficoltà del fare politica senza sedi, con le case dei compagni adibite a magazzini provvisori di volantini e manifesti. Con gli appuntamenti dati al bar, le bandiere passate di mano in mano. Dalla sezione alla chat di whatsapp, per dirla in poche parole. Non so se il modello organizzativo funziona meglio. Di certo non si riesce a costruire quel senso di comunità che caratterizzava i partiti di un tempo.

Perdonatemi la nostalgia, ma in questi momenti, noi ormai sulla strada della vecchiaia tendiamo a essere nostalgici. E io ricordo gli anni del liceo e dell’università, il mio circolo della Fgci, la sezione di Garbatella, Ia mitica Villetta. I compagni più grandi (non ci saremmo mai permessi di chiamarli anziani) che ci proteggevano come fossimo il loro bene più prezioso. E forse lo eravamo davvero, rappresentavamo il loro futuro. E allora qualsiasi cosa ti servisse c’era il compagno che ti dava una mano. Serviva un dottore, si andava dal compagno medico. Perdita nel tubo? C’era il compagno idraulico. C’era un compagno per tutto. Magari non è che risparmiavi, ma era una garanzia di serietà. E rappresentava quell’essere comunità che è la cosa più grave che abbiamo perso.

Per cui, ridotti un po’ alla stregua di barboni della politica, in strada dalla mattina alla sera senza avere più una “casa” a cui fare riferimento, ripensare a tutto il patrimonio, materiale e di passione, che abbiamo dissipato in questi anni fa davvero rabbia. E questo è solo l’aspetto più evidente delle nostre difficoltà in questa campagna elettorale. Quello più sottile, ma anche più preoccupante, è la mancanza di credibilità politica che deriva dal nostro essere una simpatica accozzaglia, uso il termine in senso scaramantico. I cittadini sono meno disposti a darti fiducia se non sei chiaro sulle prospettive che gli offri. E il nostro essere una coalizione e non un partito non fa chiarezza proprio sulle prospettive. Per di più ci rivolgiamo a un popolo che aveva riposto grandissime speranze nel progetto del Partito democratico e adesso è profondamente scottato dal suo fallimento ormai conclamato. Quando ti bruci prima di rimettere la mano vicino al fuoco ci pensi bene.

Questo è un nostro elemento di debolezza, l’ho sempre detto fin dall’inizio. Per questo fa benissimo Pietro Grasso a ripetere tutti i giorni che Liberi e Uguali non finisce il 5 marzo, che siamo il nucleo di quello che dopo le elezioni diventerà il partito della sinistra. Fa bene perché indichiamo, ammettendo i nostri ritardi accumulati in questi anni, una prospettiva precisa facendo intravedere quell’unità, quella solidità che i nostri elettori ci chiedono. Lasciamo la porta aperta, perché non possiamo arrenderci a perdere sia i compagni che ancora stanno nel Pd, sia quelli con cui il filo di una discussione comune si è momentaneamente interrotto e hanno scelto di dare vita a Potere al popolo. Ma diciamo chiaramente che dal 5 marzo, possibilmente fin dal mattino, lavoreremo per aprire il cantiere del nuovo partito. E poco male allora se prenderemo più o meno voti di quello che ci aspettiamo. Queste elezioni sono soltanto l’inizio della storia.

E bene fa anche il capogruppo Laforgia a andare ancora oltre: indichiamo fin d’ora la data del congresso costituente. Un gesto simbolico, senza dubbio. Ma in campagna elettorale servono anche i gesti simbolici, oltre ai programmi. Non capisco la reazione fredda di alcuni. Sui giornali leggo della “paura di essere fagocitati dagli ex Pd”. Questa rappresentazione degli ex Pd (sempre che si possano definire come una categoria politica) come degli orchi pronti a succhiare le ossa dei bravi compagni della sinistra cosiddetta radicale un po’ mi irrita. Ma poi si va avanti. Io sono uno sicuro del fatto che questa sia la strada giusta. E quindi credo che sia giusto rispettare i tempi di tutti. Senza forzature. Ma sono queste proposte, sono le idee di Grasso e Laforgia che mi fanno andare verso le urne, non solo senza turarmi il naso, ma con fiducia e convinzione. Il 4 marzo, farò tre croci sul simbolo rosso di Liberi e Uguali, una per scheda non vi preoccupate non sono impazzito. E le faccio belle robuste e visibili. Non si sa mai, magari un presidente di seggio miope…

Manuale pratico per arrivare vivi al 5 marzo.
Il pippone del venerdì/44

Feb 16, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Non sono uno abituato a fare polemiche in campagna elettorale. Ma consentitemi un appello a tutti noi: svegliamoci. Ora, è vero che non siamo un partito, che siamo un po’ disorganizzati, che siamo pochi e per di più questa campagna elettorale in pieno inverno è anche difficile dal punto di vista climatico. Tutto vero. Però, ragazzi: di elezioni ne abbiamo viste tante, quello che serve lo sappiamo. E allora facciamolo.

Ripartiamo dall’abc.

  • Lasciamo perdere i sondaggi (per fortuna dalle 24 di oggi ne sarà vietata la diffusione). Non è possibile che ogni volta che esce una rilevazione della più sperduta società di statistica andiamo nel panico. Alcuni, penso ad esempio a quelli finti su una presunta competizione sul filo di lana in alcuni collegi di Roma fra la destra estrema e quella moderata, sono fatti ad arte per confondere le acque, per chiamare a raccolta gli elettori dubbiosi. Consideriamo poi che si tratta di rilevazioni che hanno un margine di errore del 2 per cento. Oggi, su tutti i quotidiani, ci danno intorno al 6. Tanto o poco che sia questa è la realtà, proviamo a cambiarla nelle prossime due settimane.
  • Basta parlare degli altri e soprattutto di possibili alleanze future. Su una cosa gli analisti più seri sono d’accordo: il prossimo parlamento non avrà una maggioranza. Perfino la grande intesa fra la destra estrema e quella moderata, escludendo la lega, sarebbe lontana da quel 50 per cento dei seggi più uno. Quindi a chi ci chiede con chi ci vogliamo alleare dopo il voto rispondiamo serenamente che la questione non si pone. Non ci sarà una maggioranza possibile fra noi e i cinque stelle, fra noi e il Pd. Non ci saranno i numeri, inutile darsi le martellate sui cosiddetti evocando impossibili scenari futuri.
  • Allo stesso modo non funziona puntare sulle disgrazie altrui: prima rimborsopoli dei cinque stelle, ora i nuovi guai giudiziari napoletani del Pd e della destra estrema. Problemi loro. La via giudiziaria al socialismo, come si chiamava ironicamente un tempo, non funziona. In alcuni casi, vedasi la campagna di stampa montata su questa vicenda dei bonifici allegri dei grillini, secondo me potrebbero addirittura produrre un effetto boomerang. Perché poi ognuno ha i suoi scheletrucci nell’armadio e in queste occasioni te li ritirano tutti fuori.
  • Altra cosa da evitare: le assemblee in luoghi chiusi. Ora, io capisco che fa freddo, che cominciamo anche a essere stanchi. Le sale magari le riempiamo anche, ma ci ritroviamo sempre fra di noi. Anche un po’ stanchi di sentirci ripetere le stesse cose. E allora stiamo nelle strade. Breve manuale di come si organizza un banchetto: gazebo con almeno due bandiere montate ai lati, materiale elettorale, possibilmente manifesti attaccati, magari anche fatti a mano, attirano di più, l’attenzione, dimostrano vitalità. Inventiamoci cose nuove e antiche: furgoni con le vecchie trombe, mini palchi volanti. Facciamoci vedere. Scusate se sono pedante, ma vedo in giro cose anonime. Infine andiamo a cercare noi gli elettori. Prendiamo i vecchi elenchi che tutti abbiamo e andiamo casa per casa. Non bastano le mail o le chat. Ci sono due fine settimana per farlo. Non perdiamo tempo.
  • Non facciamo iniziative di “frazione”. Liberi e Uguali deve essere l’inizio di un progetto. Se facciamo assemblee dove tutti i partecipanti vengono da una delle formazioni politiche di partenza diamo l’idea (secondo me respingente) che sia un’aggregazione momentanea volta a garantire qualche parlamentare.
  • I social: non li lasciamo agli avversari, ma su questo campo sono più bravi di noi. I grillini sono maestri. E allora utilizziamoli per quello che valgono. Diffondiamo il materiale, pubblicizziamo gli appuntamenti, non incartiamoci in assurde discussioni con personaggi assurdi che spesso fanno i provocatori di professione. Un vaffanculo, perdonatemi la volgarità, spesso è dovuto e sufficiente. Curiamo le nostre pagine, non le lasciamo vuote o, peggio, in balia dei troll.
  • Il nostro slogan è “per i molti, non per i pochi”. E allora cerchiamo di parlare ai molti, non facciamoci assurde masturbazioni mentali sugli indecisi e quello che serve a convincerli o sugli elettori delusi da Renzi o sui grillini pentiti. Parliamo agli italiani. A tutti. Fra questi ci saranno anche le categorie elencate sopra.

 

Fin qui la “pars destruens”, sostanzialmente le cose da non fare. Ora veniamo alle cose da fare e da dire. Ci sono due settimane, tiriamo fuori due idee forti. Due cazzotti da dare nello stomaco degli italiani.

Lavoro, facciamo una proposta alla tedesca: riduzione dell’orario a 28 ore a parità di salario. Se funziona nelle fabbriche della Merkel perché da noi non dovrebbe andar bene. Del resto con la robotizzazione ormai dilagante qualcosa ci dovremo pur inventare per garantire una ripresa dell’occupazione

Fisco: diciamo chiaramente quale progressività vogliamo, quali sono le aliquote che proponiamo e quali detrazioni (sarà quello il vero mercato delle vacche se vince il centro destra). Proponiamo una super tassa alla francese per i ricchi. Non ci facciamo spaventare.

Secondo me, seguendo queste poche regole, di buon senso, possiamo uscirne vivi. E magari avere anche qualche sorpresa. Ora vi saluto, vado a preparare il materiale per le prossime uscite. Sarà un fine settimana intenso.

Caro Minniti, contro i fascisti la piazza serve.
Il pippone del venerdì/43

Feb 9, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Scrivevo alcuni mesi fa, era un pippone di ottobre, che c’era in Italia un’ondina nera che cresceva. Si sentiva nei nostri quartieri, si percepiva che un misto di indifferenza e qualunquismo stava diventando sempre più forte in Italia. Un vero e proprio brodo di cultura per i nuovi fascisti. I fatti di Macerata sono un altro campanello di allarme, l’ennesimo. I risultati elettorali di Casapound, i cortei con migliaia di ragazzi che sfilano in maniera militare e si concludono con orge di braccia romanamente tese. I comportamenti razzisti a cui assistiamo in pratica ogni giorno e non abbiamo il coraggio di reagire. Tutti anelli di una catena inquietante.

Ed è grave, inutile che ci giriamo intorno, che un sindaco inviti le forze democratiche a non manifestare nella sua città, una città che dovrebbe essere ferita e reagire in maniera democratica. E’ grave che il ministro dell’Interno affermi su un quotidiano che “se il questore non vieta le manifestazioni ci penserà il ministero”. Come è grave, al tempo stesso, che tutti sappiamo come si chiama il fascista che ha sparato, ma nessuno di noi sa come si chiamano i feriti. Nessuno che sui social si sia inventato una foto profilo con un “siamo tutti…” Sono semplicemente “gli immigrati a cui Traini ha sparato”. Ed è grave che, anche a sinistra, solo dopo giorni qualcuno abbia pensato di andarli a trovare in ospedale. Non parlo delle alte cariche dello Stato, ma dei leader della sinistra. Anche chi è lontano dal becero razzismo della Lega e dei fascisti ha accettato di considerare gli immigrati come una categoria sociale. Non sono persone con facce, storie, drammi. Non uomini e donne, ma immigrati. E in quanto tali sono soltanto un problema: sporcano, infettano, violentano. Senza distinzione. Per cui anche un gesto di umana solidarietà diventa faticoso, non ci viene automatico.

Per questo credo che sabato, a Macerata, ci debba essere una prima importante risposta. Io mi auguro che Anpi, Arci e Cgil ci ripensino. Mi auguro che tutte le forze democratiche ci ripensino e siano alla manifestazione. E non basta dire “stiamo organizzando un corteo per fine febbraio a Roma”. Ci vogliono tutte e due queste piazze. Serve una risposta immediata, nelle stesse strade dove si è consumato un gesto che non è folle, ma è più drammaticamente un atto di terrorismo fascista. E’ perfino paradossale, se ci pensate bene: nel nostro Paese il primo atto terroristico, in questi anni di attacchi dell’Isis in tutto il mondo, arriva da un italiano e colpisce gli immigrati.

Serve la piazza di Macerata, caro Minniti.  Intanto per un motivo banale, perché non possiamo lasciarla ai fascisti, che ci saranno come hanno già fatto in questi giorni. Non lasciamogli più un millimetro delle nostre strade perché poi riprendersele è difficile. Ma serve soprattutto per dare un segnale a noi stessi. A quelli che si ritengono antifascisti e antirazzisti, ma non sentono più il bisogno di manifestarlo nei comportamenti concreti di ogni giorno.

Serve la piazza di Macerata, caro Minniti. Serve per dare un segnale di riscossa culturale. Serve dire: abbiamo capito, ora basta. Ora basta con i silenzi, basta con le timidezze. Siamo ancora la sinistra che i fascismi li ha affrontati e vinti. Tante volte. Siamo ancora il Paese solidale, dove l’accoglienza è la regola non l’eccezione. Siamo ancora il Paese che non solo è tollerante verso gli altri popoli, ma considera le diversità una ricchezza. Non è una questioni di sondaggi elettorali, di perdere o guadagnare qualche decimo di percentuale. E’ una questione essenziale per capire dove questo Paese.

E’ una questione culturale. Lo scrivo spesso, ma vale la pena ribadirlo ancora di più in questa occasione. Noi, la sinistra, non abbiamo perso soltanto qualche competizione elettorale, abbiamo perso l’egemonia culturale. Abbiamo perso le nostre antenne nella società, l’arretramento del nostro fronte è un fenomeno complessivo. Quando diamo la colpa a Renzi commettiamo un errore marchiano. Renzi è il prodotto della nostra crisi, non la causa. Lo spostamento a destra a cui assistiamo non è un fenomeno elettorale. Quello è solo il prodotto ultimo di una deriva profonda che ha cambiato i nostri cervelli la nostra percezione della realtà. Per questo serve una sinistra che rimetta radici non solo in Parlamento.

Spesso e volentieri, nei momenti più cupi, in cui ci troviamo con qualche compagno a riflettere sulle disgrazie italiche, arriviamo a una domanda che ci blocca: “Ma se noi, che siamo compagni di base, quelli che una volta si sarebbero chiamati quadri, arriviamo a comprendere l’urgenza di ritrovare le nostre radici, di aprire sedi, di tornare a essere una forza popolare e non salottiera, perché i nostri dirigenti non si pongono questo problema? Perché loro che dovrebbero avere strumenti di analisi più raffinati dei nostri non hanno avvertito per tempo questa deriva che ora rischia di travolgerci?” Non sappiamo darci una risposta precisa. Insufficienza della classe dirigente italiana nel suo complesso, personalismi. Farfugliamo, ma non arriviamo a una soluzione.

Ora, però, non è il momento delle analisi. E anche questo pippone oggi lo finisco qui. Non è il momento delle domande, perché ormai siamo oltre l’emergenza democratica. Ecco, ripartire da una manifestazione, da un grande evento popolare. Che riempia di nuovo di significato questa parola, sinistra, che fra un po’ ci ricorderemo davvero in pochi. A testa alta. Altrimenti anche riportare in Parlamento una robusta pattuglia di parlamentari non servirà a molto. Diciamolo forte, ora: abbiamo capito, ai fascisti non daremo tregua. Non arretriamo neanche un metro. Ieri come oggi. Prima che sia tardi.

…Ed il nemico attuale, è sempre ancora eguale, a quel che combattemmo sui nostri monti in Spagna…

L’unico voto utile per la sinistra.
Il pippone del venerdì/42

Feb 2, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Prima di cominciare questo mese che ci porterà alle elezioni è bene fare chiarezza sul “voto utile”. Perché questo sarà il leit-motiv che ci accompagnerà fino al 4 marzo. Non c’è solo il richiamo diretto, gli appelli dei padri nobili, quello di Prodi è solo il primo, saremo subissati di dichiarazioni simili. Basta pensare ai giornali di questi giorni, in cui tutta l’attenzione è dedicata agli scontri sui collegi. Paginate su paginate con fotine dei candidati e sondaggi a dir poco campati per aria. Tutto per creare un finto allarme sulla destra che sarebbe molto vicina alla maggioranza assoluta ma che ancora non ci arriva perché una cinquantina di seggi all’uninominale sarebbero in bilico. E allora ecco una sorta di richiamo subliminale, una chiamata alle armi contro i populisti. Se ci facciamo chiudere in questo recinto rischiamo sul serio di farci del male.

E allora proviamo a rimettere in ordine le cose. Partiamo da Liberi e Uguali. Siamo partiti bene, con le due assemblee nazionali, un clima di grande attesa, molta partecipazione, fiducia. Poi sono arrivate le spine, la questione delle alleanze sulle regionali di Lombardia e Lazio, la questione delle liste, con discussioni abbastanza consuete, ma amplificate dal fatto di non essere un partito ma – al momento – una mera aggregazione elettorale, una sorta di associazione temporanea di imprese in cui ognuno tende a salvaguardare la sua componente. E’ stato, per dirla in tutta sincerità, un mese in cui buona parte dell’entusiasmo iniziale si è spento, soffocato dalle polemiche e dalle discussioni sui candidati. In molti territori si sono aperte ferite, alcune scelte sono apparse troppo “conservative”, tese esclusivamente a salvaguardare unicamente i parlamentari uscenti. Si poteva fare meglio, senza dubbio. Ma dobbiamo tener conto anche di una legge che, di fatto, non permette alcuna competizione reale. Tutto è affidato alle scelte effettuate dai partiti, i candidati non hanno alcuna possibilità di competere realmente. Non ci sono le preferenze nella parte proporzionale, i collegi uninominali sono così grandi che difficilmente un candidato può incidere sul risultato, con le poche eccezioni, forse, di persone talmente note da rappresentare veramente un valore aggiunto. Un meccanismo infernale nel quale una formazione politica appena nata e di natura essenzialmente parlamentare come Liberi e Uguali rischiava di lasciarci le penne.

Siamo ancora in piedi. Con tutte le ferite del caso, ma siamo ancora in piedi. E abbiamo questo mese in cui non solo dobbiamo resistere ai richiami vari, ma dobbiamo rilanciare il nostro messaggio per tornare a crescere e arrivare a un risultato che ci permetta non solo di riportare una pattuglia della sinistra in parlamento e nei consigli regionali, ma anche di incidere realmente sulle scelte politiche che saranno prese nei prossimi cinque anni. Io credo che per farlo dobbiamo uscire dalla trappola del voto utile e delle sfide nei collegi. Come farlo? Provo a dire come la penso.

Intanto la definizione di voto utile. Tutte le preferenze espresse a formazione politiche che andranno a eleggere anche un solo deputato sono utili. Quindi tutti i voti dati a liste che supereranno il 3 per cento. Dunque: Forza Italia, FdI, Lega, 5 stelle, Pd, Leu. Le altre liste sono specchietti per le allodole. Servono soltanto a portare qualche decimale in più ai partiti che eleggeranno davvero deputati, grazie al meccanismo infernale previsto dalla legge: se non superi lo sbarramento i tuoi voti vengono comunque attribuiti alle altre forze con le quali sei coalizzato se hai preso più dell’uno per cento.  Ecco spiegato l’accanimento del Pd nel cercare alleanze con cespuglietti apparentemente insignificanti. Oppure, nel caso delle liste che vanno da sole, servono soltanto a indebolire gli schieramenti più vicini. Liste come Forza Nuova, solo per fare un esempio, tolgono decimali alla destra, ma non arriveranno al 3 per cento.

Dunque il voto a Liberi e Uguali ha di per sé una sua utilità, non è un voto “disperso”. Perché la somma di questi voti avrà una sua rappresentanza parlamentare. Non fatevi ingannare dalle paginate sulle sfide nei collegi uninominali dove LeU non appare quasi mai. Solo un terzo dei parlamentari viene eletto con questo metodo, il resto, la grande maggioranza dei seggi, sono stabiliti in maniera perfettamente proporzionale. E questo, appunto, vale per tutti i partiti che supereranno il 3 per cento.

Resta l’altro mito da sfatare, cioè, per dirla con le parole di Casini che un “voto a LeU è un voto dato alla lega di Salvini”. Ora, intanto bisognerebbe ricordare al neo renziano Casini che lui con la Lega ci ha governato fino all’altro ieri e quindi non è titolato a parlare di sinistra e manco di centro-sinistra, ma questo mito del voto utile per evitare un governo di destra non sta in piedi. Non sta in piedi per una ragione essenzialmente matematica. E va ricordata anche a Renzi, un altro che ripete il mantra del voto utile contro LeU. Grazie alle politiche di questi anni, la partita a queste elezioni si gioca essenzialmente fra centro-destra e Movimento cinque stelle. Tutti gli altri sono staccati. Sono molto staccati. I mass media possono provare a far finta di credere che ci sia una qualche contesa in cui Renzi e la coalizioncina bonsai messa su per mascherare l’isolamento del Pd possano realmente competere. Basta fare un giro in strada per capire che non è così. Che, per le ragioni di cui abbiamo discusso ampiamente nei mesi scorsi, c’è un vero sentimento popolare contro il Pd, a favore delle destre e dei cinque stelle.

Sono due gli elementi ancora realmente aperti in questa tornata elettorale. Il primo è la dimensione della vittoria della destra, se potrà cioè esprimere una maggioranza autosufficiente in Parlamento. Il secondo, qualora questo non avvenisse è la somma dei voti fra Forza Italia e Partito democratico. Potrebbe sembrare la classica somma fra mele e pere che non può dare alcun risultato. Ma non è così: da Macron alla Merkel, il risultato che tutti si auspicano nelle alte sfere della borghesia europea è proprio questo. Un governo di larghe intese fra Berlusconi e Renzi, con l’esclusione dell’ala cosiddetta populista, da Salvini a Grillo. Le burocrazie Ue questo vogliono per anestetizzare ancora una volta il nostro Paese.

E allora è evidente come il voto a Liberi e Uguali è l’unico voto davvero utile per chi si definisce di sinistra. Perché solo riportando a votare un forte numero di astensionisti e solo con una forte affermazione si possono evitare sia la vittoria della destra che la grande coalizione marmellata alla tedesca. Solo con una forte presenza parlamentare di LeU possiamo mettere un puntello alla prossima legislatura. Altrimenti, con buona pace della parte sinistra ancora rimasta nel Pd, nascerà “finalmente” quel partito della nazione a cui si sta lavorando da anni. Non sarà a guida Renzi, non sarà a guida Berlusconi, troveranno un personaggio meno vulcanico, in grado di rassicurare banchieri e mercati finanziari. Magari quel Calenda, che tanto successo riscuote negli ultimi tempi.

Un ulteriore tassello per completare il quadro sono state le liste democratiche, dove le minoranze sono state decimate, gli uomini più autorevoli emarginati. Vana è la speranza di chi spera di aprire la strada della rivincita contro Renzi a partire dalla sconfitta elettorale. Come davvero curiosa è la posizione dei quadri delusi del Pd che minacciano di votare la lista della Bonino per “dare un segnale” al partito. Per dare questo benedetto segnale, non a Renzi, ma all’Italia, la strada è obbligata: se si vuole rafforzare la sinistra si vota la sinistra. Non certo una forza ultraliberista il cui programma essenziale è andare oltre le richieste dei potentati europei, con misure quali il blocco dei livelli di spesa nei prossimi cinque anni che porterebbero questo Paese a una nuova stagione di recessione. A me non piace una società dove il tuo datore di lavoro controlla i tuoi movimenti con un braccialetto elettronico. Per questo va ricostruita una forza che rappresenti i lavoratori. In Italia come in Europa. Il 4 marzo è solo il primo appuntamento. Importante.

E allora un ultimo appello, prima che la campagna elettorale cominci davvero: guardiamoci in faccia, scarpe comode e maciniamo chilometri. Sciogliamo il nostro “io” in un “noi” collettivo. Bandiera rossa in spalla, volantini in mano. Eppur bisogna andar.

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