Archive from dicembre, 2017

Una partita a scacchi lunga due mesi.
Il pippone del venerdì/38

Dic 22, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La costruzione di Liberi e Uguali, dopo i sussulti iniziali, procede spedita. Il 7 gennaio ci sarà una nuova assemblea nazionale, chiusa la legge di stabilità alla Camera è arrivato anche il giorno dell’adesione di Laura Boldrini. Con lei il listone della sinistra si arricchisce di un profilo di peso, si ricompone la frattura provocata dalle bizze di Pisapia. Insomma possiamo mangiare il panettone, se non proprio del tutto sereni almeno con un tasso di fiducia in crescita.

Credo che l’appuntamento del 7 gennaio non sarà un semplice passaggio di routine. Come non saranno per nulla scontati i giorni successivi, nei quali si definiranno con precisione le liste dei candidati alle elezioni. Politiche e regionali, nelle zone dove si votano anche le assemblee locali. Dico questo perché, visto che non siamo ancora riusciti a fare un partito, dotarsi di un programma radicale, con punti qualificanti e innovativi su lavoro, diritti, stato sociale, scuola e formazione diventa essenziale.  A fronte di un centrodestra sempre più aggressivo e sicuro della vittoria e di un Pd isolato e avviato sulla strada della deflagrazione post elettorale, occorre mettere un argine serio. Piantare non qualche bandierina isolata, ma un accampamento consistente. E per farlo servono due cose: le idee chiare e una squadra all’altezza per rappresentarle. Non so quale sarà il metodo scelto per selezionare i candidati. Le proposte nasceranno nelle assemblee locali e poi verranno vagliate da un comitato nazionale presieduto da Grasso. Non so quanto sarà ristretto questo gruppo. A me piacerebbe che fosse una sorta di gruppo dirigente provvisorio a cui affidare non soltanto la selezione delle candidature ma anche la definizione del percorso post elettorale. Indietro non si torna, l’ho detto e ripetuto in tutte le occasioni in cui mi è stato possibile. Perché i nostri militanti e, credo, ancor di più i nostri elettori, ci chiedono di costruire una casa.

Non ci siamo riusciti in questi anni. Io sono uscito dal Pd nel 2015, era luglio, e da allora ho sempre cercato, nel mio piccolo, di mettere insieme le forze sparpagliate della sinistra. Secondo me siamo ancora in una fase intermedia. E’ bene tenere le menti e le porte aperte. Perché il processo di scomposizione e ricomposizione della sinistra italiana non è finito. E purtroppo affrontiamo queste elezioni mentre ci troviamo in mezzo al guado. Un pezzo di strada l’abbiamo fatto, anche grazie alle accelerazioni degli ultimi mesi, tanta strada resta da fare e le acque in cui ci muoviamo sono tumultuose, le correnti forti, il nostro equilibrio precario. Per questo quei giorni, dal 7 gennaio alla presentazione delle liste, saranno essenziali.

Io dico – e dopo qualche tempo vorrei provare a scrivere due cose anche sul livello locale – che anche dalle alleanze e dalle candidature che sapremo mettere in campo nelle Regioni si capirà la cifra del nostro progetto politico. Si fa un gran dibattere in questi giorni sulla natura che deve avere il nostro progetto, radicale, di governo, di lotta. Io credo che la dimensione del governo sia talmente naturale che non si debba ripetere ogni due passi. Altrimenti sembra che lo diciamo quasi per farci forza. Mi spiego meglio. Intanto l’obiettivo di andare al governo dovrebbe essere naturale. Che senso ha presentarsi alle elezioni se non si ha in testa, nel breve o ne medio periodo, di entrare nella stanza dei bottoni e provare a guidare l’Italia? Se non si ha in testa questo si potrebbe direttamente aderire al club del bridge e si fa anche meno fatica. In secondo luogo io credo che i profili e la storia dei “soci fondatori” di Liberi e Uguali siano una garanzia.  Non solo per il pezzo che viene dai Ds, ma anche per quello che arriva dall’esperienza di Sel, che si è sempre messa a disposizione – direi anche troppo – nell’ambito di un progetto di centro sinistra.

Se è vero questo, allora, il problema non si dovrebbe neanche porre: dove ci sono le condizioni per costruire un’alleanza per vincere le elezioni si fa. Non è ovviamente così banale. Intanto perché la rottura avvenuta nel Pd per molti di noi è ancora fresca. Le separazioni hanno bisogno di tempo per sedimentarsi, le polveri devono posarsi atterra dopo un’esplosione per tornare ad avere una visione chiara. E poi perché si vota lo stesso giorno. Dunque non sarebbe facile spiegare agli elettori perché su una scheda il Pd è brutto e cattivo e sull’altra un alleato affidabile.  D’altro canto, scendo a livello del Lazio, non sarebbe facile neanche spiegare – se la prospettiva comune a tutti noi – è quella di costruire in futuro un’alleanza per tornare al governo nazionale, per quale motivo si lavora per dare una botta in testa a quel Nicola Zingaretti che, pur con tutti i suoi limiti, per me rappresenta comunque una delle risorse migliori per il “post Pd”.

Non dico altro perché scrivere parole definitive su questa vicenda non è possibile. Le variabili in campo sono ancora molte e non tutte, secondo me, sono ancora conosciute a pieno. Credo che però l’assemblea del 7 gennaio qualche parola chiara di “indirizzo politico generale” debba essere chiamata a dirla. Non essere un partito avrà anche i vantaggi di potersi muovere con agilità, ma se non si mette in campo una proposta politica definita non si richiamano i famosi elettori che stanno nel bosco. E questa secondo me è una discriminante seria: crediamo ancora che la prospettiva per governare questo paese sia un nuovo centrosinistra, in forme del tutto differenti rispetto al passato, oppure pensiamo a qualcosa di differente?

Resto convinto che l’incontro delle differenti culture politiche che abbiamo chiamato centrosinistra sia l’unica strada possibile. Magari evitando di ripetere l’errore di voler racchiudere prospettive differenti in un contenitore unico. Magari costruendo una sinistra che non abbia paura di essere davvero radicale. Guardate che in questa società in continua evoluzione le timidezze anni ’90 ti portano alla situazione di oggi. E ripetere lo stesso errore un’altra volta non mi pare davvero intelligente. Ma detto questo, ricostruito il nostro campo, fatto un partito forte, strutturato, pesante nelle idee non tanto nella burocrazia. Fatto questo, dicevo, bisogna farla contare la propria proposta politica. A tutti i livelli. Mi piacerebbe che nelle proposte programmatiche che i nostri delegati andranno a discutere a gennaio queste riflessioni potessero trovare cittadinanza piena.

Intanto buone feste a tutti. Per qualche settimana anche il pippone se ne va in vacanza.

Ryanair, l’ala dura del padrone e il nuovo socialismo
Il pippone del venerdì/37

Dic 15, 2017 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

C’era una volta un paese in cui lavoratori erano protetti dall’articolo 18, i dipendenti licenziati ingiustamente avevano la possibilità di essere reintegrati sul posto di lavoro. Ci volevano anni, ma le sentenze prima o poi venivano emesse. Poi arrivò un tale che si definiva di sinistra, il signor Renzi e disse: roba vecchia. Si cambi, bisogna essere smart.
C’erano una volta i sindacati dei lavoratori. Quelli a cui, con un po’ di burocrazia e tutte le loro lentezze, potevi andare a bussare per tutelare la tua dignità. Poi arrivò il signor Renzi e disse: intralciano lo sviluppo, basta, sono roba vecchia.
C’era una volta Ryanair, una roba dove i piloti volano sostanzialmente a ciclo continuo, che disse ai lavoratori che volevano scioperare: siete vecchi e se lo fate scordatevi premi e aumenti. Renzi e i suoi si infuriarono: non si fa così, i diritti dei lavoratori si rispettano. Vista dall’esterno pare una barzelletta, ma fra un po’ si vota e la sagra delle balle è appena iniziata.

Ora, l’ho raccontata un po’ così, velocemente, tagliando le questione con l’accetta, per arrivare a una conclusione, che fa riflettere sul passato, ma ci dà anche qualche indicazione sul futuro. L’articolo 18 non era inutile ciarpame ideologico come vorrebbero farci credere. Mi direte: sì ma che c’entra con la vicenda di Ryanair? Il danno maggiore che ha creato questo governo (ma secondo me le radici degli errori di questi anni stanno tutti nella nostra sbornia liberista di fine secolo) è l’aver lacerato il Paese, creando le condizioni per cui un’azienda mette addirittura nero su bianco, su carta intestata, il suo esplicito “invito” a non scioperare. Altro che i padroni cattivi che ti facevano sussurrare all’orecchio dal caporeparto che era meglio venire a lavorare, che la tessera del sindacato era meglio non prenderla. Qua abbiamo un’azienda internazionale che te lo scrive proprio. E se ne frega dell’indignazione che ha generato. Come può farlo? Semplice: in questo paese per anni il governo ha lanciato un messaggio chiaro agli imprenditori: venite e fate un po’ come vi pare. E quelli lo hanno preso in parola.

L’articolo 18 è il caso emblematico. Si toglie, si dice che serve massima flessibilità e libertà per gli imprenditori. Si mette all’angolo il sindacato, la Cgil in particolare. E gli imprenditori prendono in parola il governo: assumono con il cosiddetto contratto a tutele crescenti (spesso gli stessi lavoratori che prima avevano forme più tutelate), ci guadagnano con gli sgravi fiscali. E appena finisce il periodo di agevolazioni licenziano e riassumono in forme nuovamente precarie. E vai un po’ a dir loro che non si può fare, che non è elegante. Hai dato loro carta bianca, ci mettono sopra le parole che più gli garbano.

Questo è quello che è successo nel mondo del lavoro negli ultimi 20 anni, di cui il jobs act è una sorta di epitaffio. Un progressivo spostamento degli equilibri: si è tolto potere contrattuale ai deboli per garantire i forti. Facevo riferimento alla nostra sbornia liberista perché da lì parte tutto: dall’illusione che il compito della sinistra fosse diventato semplicemente quello di rendere meno brutto il capitalismo. La globalizzazione andava semplicemente “alleviata”, cercando di correggerne gli effetti più violenti. Che questo non funzionava lo avevano capito bene i movimenti di quegli anni, i cosiddetti “no global”, se andate a rileggere le loro elaborazioni più avanzate, i problemi, l’analisi c’era tutta. E perfino la dimensione del movimento, che univa occidente e terzo mondo, era quella necessaria a comprendere lo scenario nuovo in cui si trovava ad agire il capitalismo e in primo luogo la finanza. L’errore della sinistra fu derubricare quel movimento e quelle elaborazioni a fenomeno pittoresco, spesso anche violento. Andava marginalizzato. Noi a Genova non c’eravamo. E permettemmo che la mano violenta dello Stato spegnesse quel grande movimento mondiale. Genova è stata la fine di quell’esperienza. Quel morto, quella violenza cieca sono serviti a mettere una pietra sopra l’unica strada che la sinistra doveva percorrere.

Da lì la strada è stata in discesa: la crisi stessa dei partiti socialisti nasce dal non aver saputo offrire una sponda politica a quei ragazzi. I movimenti per loro natura sono transitori, è la politica che deve fare proprie le istanze avanzate e dargli stabilità, farle diventare patrimonio duraturo. Manca persino una riflessione approfondita su quegli anni. Non basta dire: abbiamo capito di aver sbagliato a seguire la strada indicata da Tony Blair. Bisogna anche capire, per esempio, che bisogna tornare a ragionare in una dimensione globale. Perché solo così si sfida un capitalismo che ha quella stessa dimensione. Ragionando ancora per pezzettini si rischia di fare la parte di quelli che vogliono acchiappare un elefante con il retino per le farfalle.

Noi siamo in campagna elettorale e a quello dobbiamo pensare. A prendere i voti necessari a dare forza al processo di ricostruzione della sinistra che abbiamo iniziato in questi mesi. E dobbiamo farlo sapendo che lo strumento messo in piedi in fretta e furia non sarà sufficiente. Ma queste sono le condizioni date. Se però quello strumento insufficiente, lo riempiamo di contenuti fin da subito, la sfida possiamo superarla. E dunque dobbiamo guardare a un nuovo internazionalismo, bisogna fare rete con quello che si muove in Europa nel nostro campo, anche andando oltre la casa del socialismo che appare un edificio sul punto di crollare. So che sembrano riflessioni campate per aria e inattuali. Ma io credo che vada la pena, per una volta: cerchiamo di essere un po’ meno provinciali e di affrontare i temi complessi che abbiamo di fronte senza banalizzazioni. I tempi sono brevi, ma i pensieri devono essere lunghi. Non basta dire che la Boschi è bugiarda, la legge Fornero va abolita, va rimesso l’articolo 18: dobbiamo dare una prospettiva.

Ecco, torno da dove sono partito. L’alata in faccia ai lavoratori che Ryanair ha dato nei giorni scorsi è un pezzo di questo processo di arretramento complessivo della sinistra in questi decenni. Siccome noi abbiamo sempre l’ansia degli ultimi arrivati, in Italia abbiamo fatto i compiti meglio e abbiamo cercato di smantellare in tre anni le conquiste dell’ultimo secolo. Dalle pensioni, all’articolo 18, alla scuola pubblica, al servizio sanitario. Ce lo chiede l’Europa, ci hanno detto ogni volta. Volevano soltanto farsi belli agli occhi del capitalismo globale. Che adesso, un pezzo alla volta, ci presenta il conto.

Ora, siete presi dai regali di Natale e capisco che parlare di società socialista può apparire un nostalgico richiamo a un tempo passato. Quindi vi lascio ai cenoni, ai pacchi e ai lustrini, sono stato insolitamente breve e capisco che il tema non si esaurisce di certo così. Ma guardate, sintetizzo ancora, che non c’è altra strada: tornare a parlare della necessità di un superamento del capitalismo, tornare a pensare il mondo nuovo. Liberi e Uguali, ci siamo chiamati. Per me non è un caso: partire da questo simbolo per parlare di un nuovo socialismo.

 

 

 

Liberi e Uguali, c’è qualcosa di nuovo.
Il pippone del venerdì/36

Dic 8, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ora, chi vive sui social probabilmente non se ne sarà accorto, perché la vita virtuale in questa settimana è stata dominata dalle polemiche grammaticali sul nome della nuova lista. Liberi e Uguali sarebbe maschile e quindi non va bene. E chi è sopravvissuto alle suddette polemiche è stato steso dalla nuova, ennesima, lettera di Tomaso Montanari che ha stroncato l’assemblea di domenica scorsa. Lui non c’era, ovviamente, ma ha capito benissimo tutto quello che è successo e ce l’ha spiegato – a noi che invece c’eravamo eccome – con righe di fuoco. Al leader mancato della sinistra perfetta verrebbe da rivolgere un accorato appello: “Caro Tomaso, fatti una vita tua, non parlare sempre di quanto sbagliano gli altri”. In realtà lui ci ha anche provato. Alla fine l’hanno rimasto solo.

Insomma: chi, come ormai tanti di noi, segue il dibattito politico solo ed esclusivamente sui social rischia una depressione che neanche il disastro del duo Pisapia-Fassino riuscirà ad alleviare. A me è capitato di passare un paio di giorni così. Incupito dalle notizie che apprendevo via facebook, mi si erano appannate le belle immagini di domenica. Poi ho fatto mente locale, ho partecipato a qualche riunione vera. Ho parlato con persone in carne e ossa e non con icone virtuali. Aiuta, bisognerebbe tornare a farlo con una certa continuità. Si possono perfino guadagnare voti.

Intanto alcune considerazioni: non ho trovato nessuno in giro che si lamenti dell’acclamazione di Grasso come leader. Che poi, siete davvero intossicati da questi anni passati a contarsi nel Partito democratico: ma se siamo tutti d’accordo, se c’è un candidato solo, condiviso da tutti, ma che cosa dovevano votare mai i delegati? La politica, mi riconoscerete di averlo sostenuto in tempi non sospetti, deve tornare ad essere confronto, anche scontro, ma luogo dove si cercano soluzioni condivise e non si cerca la conta a ogni angolo di strada. Perché già nelle aule istituzionali è un dovere cercare sempre punti di mediazione, ma in un partito diventa essenziale, procedere sempre a maggioranza finisce per far venire meno le ragioni per cui si è scelto di stare insieme. Avremo modo di confrontarci già nelle prossime settimane sui programmi e poi sulle liste: la strada della condivisione mi sembra la migliore.

Detto questo, parlando con le persone reali, non le icone sui social, non ne ho trovato uno che mi abbia posto i problemi di cui cianciano i soloni da tastiera dei salotti bene, da Montanari in giù. E questo mi ha francamente sorpreso. Se usciamo un po’ dalla cerchia di chi ha già la tessera di uno dei partiti che hanno fondato Liberi e Uguali (cerchia molto ristretta) i problemi che ci pongono sono altri. Nessuno ti chiede se Grasso è stato votato o come sono stati scelti i delegati.
Faccio un salto logico, ma solo in apparenza. Uscendo dall’Atlantico Live, reduce da un’assemblea complicata da un’organizzazione frammentaria, ho scritto, sinteticamente: ci siamo sentiti tutti a casa. A me non succedeva da tempo, di partecipare a un evento insieme a persone che hanno una storia differente dalla mia e non sentirla questa differenza. Ricordo il primo luglio le facce sconcertate dopo l’intervento di Pisapia, domenica al contrario ho visto facce sorridenti. Certo poi non c’è il simbolo, poi siamo stati in piedi o seduti sulle scale. Ma chi c’era ha percepito un’aria diversa in quell’assemblea.

Io credo che – è questa la novità – gli interventi, la loro qualità e anche intensità emotiva, ci hanno fatto guardare in faccia senza il pensiero rivolto al passato. Non sono stati i soliti interventi di circostanza, i testimonial scelti per dare una verniciata civica a qualcosa di preconfezionati. Io ho ancora i brividi per il discorso del medico di Lampedusa, ho ancora il senso di speranza che mi ha dato la compagna della Melegatti. Ho ancora in testa le questioni sollevate da Legambiente, le questioni non tanto contabili quanto di senso poste dal presidente di Banca Etica. E quella figura, forse un po’ da nonno saggio che tiene a bada tre ragazzini, di Piero Grasso ci ha dato finalmente alcune sicurezze. L’ombra incombente dei cattivi Bersani e D’Alema, i reduci delle sconfitte che ora mettono la figurina a coprirli. Io non ho visto né percepito questo. Bersani e D’Alema erano li in platea, pronti ad abbracciare Grasso dopo il suo intervento. Ho sentito sentimenti fraterni, non calcoli da bassa politica.

Lo dico sottovoce: c’era un’aria nuova in quel brutto capannone della periferia romana. Non c’erano i lustrini e i palloncini colorati delle convention mediatiche. C’era un popolo ansioso. Ceto politico hanno detto. Io ho qualche dubbio. Cinquemila persone in fila al freddo di una mattinata di dicembre. E poi gli applausi, quasi liberatori. Abbiamo capito tutti insieme una cosa, forse la abbiamo addirittura scoperta tutti insieme domenica. Provo a raccontarvi la mia sensazione. Sono partito dubbioso, quel nome ostico, l’assenza della parola sinistra. Sarà l’ennesimo e inadeguato papa straniero, pensavo. Poi quel discorso, quelle facce. Ho cominciato ad avere la sensazione che il “modello Grasso”  non parli a noi, a quelli che con disprezzo i giornali nella migliore delle ipotesi definiscono i fuoriusciti. La costituzione, i valori, la lotta alla mafia, la questione sociale. Un discorso semplice e alto allo stesso tempo. La serenità e la fermezza di un uomo che vive sotto scorta da non so quanti anni ma non molla. Dice con fierezza: Io ci sono. Andiamo avanti tutti uniti.

Guardate che Grasso non parla alla sinistra. Non parla neanche solo a quelli che stanno ancora nel bosco. Grasso parla agli italiani. A quelli che non arrivano a fine mese. A quelli che sono stanchi dei furbi e dei favori. A quelli che rivendicano i propri diritti. Abbiamo una figura che non è solo o tanto un leader, è una specie di garante. E’ un programma vivente, ha detto Vendola con una battuta molto efficace. E’ uno serio, non un venditore di pentole, mi permetto di aggiungere.

Attenzione che c’è qualcosa di nuovo. Non siamo alla riedizione della sinistra minoritaria 2017. C’è curiosità e attesa nei nostri confronti. Ho visto facce diverse, nuove. Ho sentito tante persone che ci dicono: attenti a quello che fate, perché ci interessate. Non ci deludete. Ecco, ora tocca a noi. Usciamo dalle discussione social, troviamo un modo intelligente per selezionare i candidati migliori a ogni livello. A me non importa che siano nuovi o vecchi. Devono essere i migliori che possiamo mettere in campo. E allora magari a Lampedusa potrà essere il medico degli immigrati, nel Salento potrà essere D’Alema. Io non la vedo in contrapposizione. Devono esserci tutte e due le cose: dobbiamo portare in parlamento novità ed esperienza allo stesso tempo. E poi, lo so sono ripetitivo. Apriamo sedi, comitati, facciamoci vedere a ogni angolo di strada, nei mercati, nelle scuole, sui luoghi di lavoro. Dentro i luoghi del conflitto. Radicali, ha detto Grasso. Ha ragione. Non è tempi delle sfumature di grigio. Servono proposte da battaglia.

Attenzione che c’è qualcosa di nuovo. E cresce di giorno in giorno. Altro che ridotta di sinistra. Noi stiamo costruendo il futuro della sinistra in Italia. La ridotta (di centro) rischia di essere il partito di Renzi.  Quindi, compagne, compagni eccetera: scarpe comode, poche polemiche, al lavoro e alla lotta. Anche questo l’ho già detto, ma ci stava bene.

La melma mediocre che ci avvolge.
Il pippone del venerdì/35

Dic 1, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Lo so che siete tutti impegnati nell’attesa spasmodica di scoprire il nome della sinistra prossima ventura. Lo so che vi sareste aspettati una severa condanna dei nazi di Como. Lo so che volevate l’ennesima presa in giro di Pisapia, questo novello sor Tentenna che non riesce a decidere neanche da quale parte del letto dormire. Ma per una volta permettetemi di estraniarmi dalla quotidianità per fare una riflessione slegata dai fatti del giorno. Che poi, cari ragazzi, tirate fuori qualcosa di meglio che qui gli argomenti scarseggiano sempre più. La politica sembra un remake degli anni ’90. I social sono sempre più piatti. Le prime avvisaglie della campagna elettorale del resto non fanno presagire niente di buono. Altro che sonniferi, bastano i talk show.

E allora, in tutto questo piattume, afflitto da un raffreddore latente che se ne sta lì in agguato, pronto a prendere il sopravvento al minimo segno di cedimento, pensavo a un dato davvero epocale: avete mai notato che in Italia, caso unico al mondo, abbiamo l’abitudine di cambiare il nome alle cose? So che può sembrare una cazzata, ma seguitemi perché è un dato essenziale per il pippone di oggi.

Cambiamo nome alle società: Teti, Sip, Telecom, Tim. Fanno sempre la stessa cosa. Cambiamo nome alle tasse, Tarsu, Tari, Tasi, Imu, sigle che si susseguono vorticosamente. Cambiamo nome perfino alle leggi: la Finanziaria, per fare un esempio, è diventata la legge di stabilità. In Regione l’assestamento di bilancio è diventato il collegato. Quando non cambiamo il nome, si rinnova almeno il logo, si fa un bel restyling grafico. Se fate mente locale questo fatto succede solo da noi. ln America non è che pensano di chiamare diversamente la Cocacola e neanche di cambiargli il logo. La General electric, per fare un altro esempio, si chiama così dal 1892.

La verità è che noi siamo il paese più immobile al mondo e allora, in una sorta di gattopardismo generale, siamo costretti a cambiare almeno l’apparenza. Cambiare il logo mi pare la versione 2.0 del “facimme ammuina”. Cosa è cambiato per gli inquilini delle case popolari di Roma con il passaggio della gestione dall’Iacp all’Ater. Nulla, vengono gestite sempre male. Però per almeno qualche mese hanno avuto la speranza che si trattasse di una vera riforma.   Il campione del gusto italico per il finto cambiamento è stato sicuramente quel fenomeno che risponde al nome di Achille Occhetto, che non si pose il problema della ridefinizione delle basi culturali di un moderno partito socialista in un periodo in cui tutto il mondo stava cambiando a velocità vorticosa. No, il prode Occhetto pensò di cavarsela cambiando il nome al Pci. Partito comunista era troppo complesso da sostenere e allora ebbe la grande trovata: proviamo a chiamarci Partito democratico della sinistra, che non significa un tubo, magari gli elettori ci cascano. Sappiamo come andò a finire, oggi – in pieno renzismo – lo possiamo dire con assoluta certezza: male.

Ma perché questo paese è così dannatamente mediocre? Non mi venite a dire che siamo la terra di Dante, di Leonardo, di Cavour, di Gramsci, solo per citarne alcuni. Le eccezioni non contano. Non siamo un paese di santi, poeti, navigatori. Gente nata per sbaglio da noi. Siamo un paese dove il 99,9 per cento della popolazione non solo si adagia nella melma mediocre che ci avvolge, ma odia anche chi prova a scrollarsi di dosso tale pesante retaggio. Succede in politica, basta vedere i personaggi che vanno per la maggiore. Da Renzi a Salvini. Se non siete proprio convinti cercate l’immagine di Gasparri. Ecco, appunto.

Succede nella società cosiddetta civile (prima o poi scoprirò chi per primo ha inneggiato alle qualità della società civile: non è una promessa, è una minaccia), nelle attività lavorative – per fare un altro esempio – il modo per emergere è dimostrarsi fedeli al potente di turno che a sua volta è diventato qualcuno facendosi strada a forza di sissignore. Quale qualità ne potrà venir fuori?

Siamo l’unico paese – vado a memoria, ma non  credo di sbagliare di tanto – che non ha mai vissuto una rivoluzione, un fatto davvero traumatico. Basta pensare alla Francia dell’89, o alla rivoluzione industriale. Tutti eventi di cui siamo stati spettatori. Da noi i moti carbonari sono stati una cosa riservata a ristrettissime élite che, peraltro, il popolo manco amava. Tutt’altro. Da noi i Mazzini, i Garibaldi non hanno guidato le masse popolari ma esigue minoranze.

Per farla breve, io la vedo così: il progresso, non solo in politica, ma un po’ in tutti i campi, nasce da una discontinuità, da un momento di frattura. Non sono i “signorsì” che fanno la storia, sono i folli, quelli che saltano dalle barricate della storia e fanno a cazzotti con lo status quo.

Nella nostra di storia ne abbiamo avuti troppo pochi. L’unico grande moto popolare che ha davvero cambiato qualcosa è stata la Resistenza. Ma, anche in questo caso, tutto nacque da una ristretta élite (si chiamavano fra di loro “rivoluzionari di professione”),  per diventare moto popolare si dovette aspettare la disfatta bellica dell’asse nazifascista e comunque non si trattò di un fenomeno esteso a tutto il territorio. Basta guardare i risultati delle elezioni e si capisce l’effetto.

Subito, tra l’altro, si pose fine al conflitto civile, permettendo a larga parte della classe dirigente, penso a tutta la burocrazia statale, di riciclarsi da un giorno all’altro. Un cervello di primissimo ordine come Togliatti avvertì il rischio dell’ennesimo ciclo gattopardesco, ma capì anche che la stragrande parte della popolazione fino a due anni prima era fascista. Non poteva epurare un popolo. Anche la Resistenza, dunque, fu un fenomeno limitato e parziale. Eppure gli effetti si sono visti per decenni. Intanto quella classe dirigente, uscita dalla guerra, si era forgiata in 20 anni di fascismo e di lotta clandestina. La lotta politica si faceva con l’Ovra che ti bussava alle porte. Ci sono stati Togliatti, Pertini, Nenni. E Sturzo, De Gasperi, Andreotti. Solo per citarne alcuni. Insomma, la frattura violenta, la lotta al fascismo, ci ha regalato 20, forse 30 anni di una classe dirigente di livello superiore. Non voglio fare un trattato storico, ma il fatto che adesso ci si contenda un Pisapia qualsiasi per vincere le elezioni la dice lunga. Siamo ripiombati nella mediocrità. A tutti i livelli. E lo stato di assoluto sfacelo in cui si trova il nostro sistema scolastico non fa ben sperare per il futuro. Addirittura promuoviamo la mediocrità, la formiamo. Non la subiamo solamente.

E lo paghiamo a maggior ragione nel mondo globale dove la mancanza di qualità la paghi duramente. Siamo come in un gara di Formula Uno dove la differenza la fanno i particolari. Basta una ruota montata in ritardo di pochi decimi di secondo e la gara è perduta. Ecco, noi la ruota ce la siamo persa per strada. Sarà anche disperante, ma secondo me bisogna avere ben chiaro il problema per provare a trovare la via d’uscita. Escluderei di dichiarare guerra a qualcuno, mi sembra una soluzione troppo estrema. Ma un qualcosa dovremo pur inventarcelo, una sorta di selezione sociale che ci porti davvero a un modello in cui ciascuno sia messo nelle condizioni di dare davvero un contributo a seconda delle sue capacità. Non è una questione di promuovere il merito. Da noi si parla di merito quando si vuole mascherare la promozione dell’amico dell’amico. Da comunista sono per l’eguaglianza delle possibilità, poi potremo anche parlare di come premiare il merito.

Io credo che questo sia il nodo vero che l’Italia deve affrontare: come si esce dalla mediocrità, come si premiamo le intelligenze rispetto ai servilismi. Come, in una frase sola, si riesce a cambiare la cultura di un popolo. Questo, per me, è il lavoro che dovrebbe fare, innanzitutto, la nuova sinistra. Creare una società in cui le individualità sono coltivate, le intelligenze sono incoraggiate e stimolate. Ecco io la farei una discussione su questi temi, non sarà la realizzazione del socialismo, ma francamente sentire soltanto parlare di come si eleggono delegati al nulla mi ha un po’ stufato.

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